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Compensazione delle spese di lite: incostituzionale la tassatività

29 Marzo 2016
Compensazione delle spese di lite: incostituzionale la tassatività

Le tre ipotesi di compensazione delle spese legali è in contrasto con il principio del giusto processo e di tutela giudiziale, impedendo al giudice di dare peso a tutta una serie di ipotesi meritevoli di tutela.

Potrebbe cadere sotto la scure della Corte Costituzionale la nuova normativa sulla compensazione delle spese di lite, sospettata di incostituzionalità dal tribunale di Torino [1].

Secondo infatti il giudice di primo grado, la nuova legge, nel prevedere la tassatività delle ipotesi in cui il giudice può disporre la compensazione delle spese legali, esclude tutta una serie di casi invece parimenti meritevoli di tutela. Il che, alla fine, si risolve in un deterrente, per il cittadino, a ricorrere alla tutela dei propri diritti in tribunale, temendo – anche per il minimo sbaglio – di dover pagare sostanziose condanne. Ma procediamo con ordine.

Quando si procede alla compensazione delle spese di lite

Dal 2005 al 2009, il codice di procedura disponeva la possibilità, per il giudice, di compensare le spese di lite per giusti motivi che [2] dovevano essere esplicitamente indicati in motivazione. Il giudice aveva, quindi, un largo margine di azione.

Con l’entrata in vigore della riforma del 2009 [3] si è poi stabilito che le ragioni per poter compensare le spese non dovevano essere solo esplicite, ma anche “gravi” ed “eccezionali”.

Con l’ultima riforma [3] infine, si è passati, da un sistema “aperto” delle cause che consentono la compensazione delle spese, ad uno “chiuso”, in cui vengono indicate tassativamente le singole ipotesi. Il giudice oggi non può più far ricorso alla propria discrezionalità e deve disporre, di regola, la condanna alle spese processuali salvo in tre casi espressamente previsti:

– in caso di soccombenza reciproca;

– qualora vi sia una assoluta novità del caso;

– se muta la giurisprudenza su questioni dirimenti.

L’incostituzionalità della nuova norma

Secondo il tribunale di Torino, però, in questo modo si esclude dalla possibilità di compensazione tutta una serie di ipotesi in precedenza individuate dalla giurisprudenza e, comunque, meritevoli di tutela come ad esempio:

– una situazione di perdurante contrasto di giurisprudenza;

– l’oggettiva difficoltà di accertamenti in fatto, ma idonei ad incidere sull’esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti;

– la corresponsabilità nella lite della parte vittoriosa, per avere dato corso ad una pattuizione equivoca ed idonea a ingenerare plurime possibili opzioni interpretative;

– il concorso della parte vincitrice con la controparte soccombente, nella stipula di un accordo contrario alla legge;

– l’affidamento della parte risultata soccombente sulle risultanze di un pubblico registro, quando è questo a determinare la condotta di tale parte, poi sanzionata dal giudice.

La drastica riduzione delle ipotesi di compensazione, ad avviso del tribunale di Torino è in contrasto con:

  • il principio di ragionevolezza delle scelte legislative [5], sussistendo una discrepanza tra il fine perseguito (il contrasto con una prassi giudiziaria in atto) e lo strumento normativo utilizzato (la limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione);
  • il diritto di agire giudizialmente [6], dal momento che tenderebbe, in linea di fatto, a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo (e punitivo) incongruo;
  • il principio del giusto processo [7], dal momento che limiterebbe il potere-dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo appropriato al caso concreto.

note

[1] Trib. Torino, ord. del 30.01.2016.

[2] Art. 2, comma 1, lett. a), l. n. 263/2005.

[3] Art. 45, comma 11, l. n. 69/2009.

[4] Art. 13 d.l. n. 132/2014, come modificato dalla L. n. 162/2014.

[5] Art. 3, comma 1, Cost.

[6] Art. 24 Cost.

[7] Art. 111 co. 1, Cost.

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Tribunale di Torino, sez. Lavoro, ordinanza del 30 gennaio 2016
Giudice Vincenzo Ciocchetti

Fatto e diritto

Preso atto delle conclusioni formulate dalle parti all’esito della discussione relativa alla questione di legittimità costituzionale prospettata d’ufficio dal giudice con ordinanza 24 novembre 2015, concernente l’art. 92, 2º comma, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, e quindi dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162), in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost.;
osserva sul punto quanto segue.
I. La vicenda di causa.
Il ricorrente è socio lavoratore della Cooperativa convenuta, con mansioni di addetto al controllo ingressi ed alla viabilità e con rapporto di lavoro subordinato regolato dal CCNL Coop. Terziario e Servizi Cnai/Cisal 2001, quindi dal CCNL Coop. Multiservizi Unci/Confsal 2004 e infine dal CCNL Coop. Vigilanza e Servizi Fiduciari Lega-Coop/Conf-Cooperative/Filcams-Cgil/ Fisascat-Cisl 2013.
Contesta in giudizio i parametri retributivi correlati a tali CCNL, che ritiene non conformi al com­binato disposto dell’art. 36 Cost., dell’art. 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, e dell’art. 7, comma 4, del decreto legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito nella legge 28 feb-braio 2008,  n. 31, norma quest’ultima che impone alle cooperative l’applicazione dei soli CCNL stipulati dalle
“organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”.
Chiede pertanto, in via principale, l’applicazione a proprio beneficio del CCNL Coop Multiservizi LegaCoop/ConfCooperative/Filcams-Cgil/Fisascat-Cisl/UilTrasporti-Uil, con conseguente con­danna della resistente al pagamento dell’importo di € 30.040,53 lordi, a titolo di differenze retri­butive, nascenti dall’applicazione di tale CCNL.
Chiede, in subordine, ove il Tribunale non ritenga fondata l’applicazione dell’invocato CCNL Multiservizi LegaCoop e al., la condanna della convenuta al pagamento dell’importo di € 7.809,07, a titolo di integrazione contrattuale delle indennità legali di infortunio e di malattia, computato con riferimento al CCNL Multiservizi Unci/Confsal e poi al CCNL Vigilanza e Servizi Fiduciari applicati dalla resistente.
La convenuta chiede a sua volta il rigetto del ricorso ed osserva, quanto alla domanda princi­pale, che la retribuzione erogata al lavoratore rispetta i parametri normativi dal medesimo invo-cati, avuto riguardo: a) al livello della retribuzione erogatagli dal gennaio 2014, in conformità con il CCNL Vigilanza e Servizi Fiduciari 2013 LegaCoop/ConfCooperative/Filcams-Cgil/Fisa-scat-Cisl, da utilizzare come parametro di congruità per il periodo antecedente; b) alle tabelle retributive del CCNL per i dipendenti da proprietari di fabbricati Confedilizia/Filcams-Cgil/ Fisa-scat-Cisl/Uiltucs-Uil (che all’art. 17 contempla gli addetti a vigilanza e custodia), ai fini del giudizio di congruità retributiva.
Quanto poi alla domanda subordinata, osserva che l’esclusione dell’integrazione contrattuale delle indennità legali di malattia e di infortunio fa seguito alla delibera assembleare 20 giugno 2011, da ritenere legittima giacché accompagnata dalla temporanea messa in stato di crisi ed approvata con l’obiettivo di garantire la sopravvivenza della compagine sociale, in ragione del forte indebitamento esistente verso gli istituti di credito, in conformità con l’art. 6, comma 1, lett. d) ed e), della legge 3 aprile 2001, n. 142.
A seguito dell’espletamento di CTU contabile, che prende in considerazione, ai fini del giudizio di congruità retributiva, i due CCNL indicati dalla resistente, e della successiva discussione orale, il Tribunale pronuncia sentenza non definitiva, con la quale decide l’intero merito della controversia, con il rigetto sia della domanda principale che di quella subordinata, nonché con l’attribuzione delle spese di CTU alle parti, in ragione del 50%, risultando la perizia cintabile disposta d’ufficio dal Tribunale, al di fuori di qualsivoglia sollecitazione delle parti stesse.
Dispone nel contempo, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, afferente il regolamento delle spese di lite e, in tale sede, prospetta d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, e quindi dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162), in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
9. In sede di discussione finale le parti così concludono su tale punto:
-il ricorrente chiede la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, ritenendo non manifesta­mente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma citata, in riferimento ai menzionati parametri costituzionali;
-la convenuta ritiene viceversa costituzionalmente legittima la norma in oggetto, ritenendo che la sua attuale formulazione rientri nella sfera di discrezionalità propria del legislatore, onde chiede la definizione del giudizio, con sentenza di condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite; e a tal fine produce stralcio (relativo all’art. 13) della Relazione ministeriale (Min. Giustizia) al DDL di conversione in legge del decreto-legge n. 132/2014 nonché nota spese di lite.
II. La giurisprudenza sul testo originario dell’art. 92, comma 2, c.p.c..
10. Con sentenze 30 luglio 2008, nn. 20598 e 20599, le Sezioni Unite della Corte di Cassazionecompongono il contrasto esistente nell’ambito della stessa Corte, tra pronunce che negano l’obbligo di motivazione della compensazione per “giusti motivi” (essendo ritenuta espressione di mero potere discrezionale) e altre che lo affermano (onde sfuggire a consistenti dubbi di incostituzionalità della norma, in riferimento all’obbligo di motivazione ex art. 111, comma 6, Cost.), stabilendo il seguente principio di diritto, così poi riassunto nella sentenza della stessa Corte 27 aprile 2009, n. 9886:
«nel regime anteriore a quello introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263, il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese per “giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale, anche se, a tal fine, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purché, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente e inequivocabilmente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito (o di rito). Ne consegue che deve ritenersi assolto l’obbligo del giudice anche allorché le argomentazioni svolte per la statuizione di merito (o di rito) contengano in sé considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolamentazione delle spese adottata, come � a titolo meramente esemplificativo � nel caso in cui si dà atto, nella motivazione del provvedimento, di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisa, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, o di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste, ovvero, ancora, di un comportamento processuale ingiustificatamente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle concrete risultanze processuali».
11. Dopo tale pronuncia, quindi, come si legge nella citata sentenza della Corte di Cassazione 27 aprile 2009, n. 9886, costituisce “diritto vivente” il seguente principio di diritto:
«in tema di spese processuali, integra gli estremi della violazione di legge (articolo 92, secondo comma, cod. proc. civ.), denunciabile e sindacabile anche in sede di legittimità, la decisione di compensazione delle spese del giudizio giustificata da generici “motivi di opportunità e di equità”, quando le ragioni in base alle quali il giudice abbia accertato e valutato la sussistenza dei presupposti di legge per esercitare il potere di compensazione delle spese non emergano né da una motivazione esplicitamente specifica né, quanto meno, da quella complessivamente adottata a fondamento dell’intera pronuncia, cui la decisione di compensazione delle spese accede».
III. La giurisprudenza sull’art. 92, comma 2, c.p.c., dopo la novella n. 263/2005.
A seguito dell’art. 2, comma 1, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263, il testo originario dell’art. 92, comma 2, c.p.c. viene modificato con l’introduzione di una locuzione aggiuntiva, la quale stabilisce che i “giusti motivi” devono essere “esplicitamente indicati nella motivazione”.
Viene così introdotta una regolamentazione vincolante in ordine alla motivazione della com­pensazione delle spese per “giusti motivi”, che deve ora essere specifica e cioè specificamente riferita alle ragioni che giustificano la deroga al principio generale della soccombenza, cosicché tali ragioni non possono più essere desunte � come per l’innanzi e cioè nel regime previgente, come da ultimo interpretato dalle Sezioni Unite della Corte (sent. nn. 2598 e 2599 del 2008) e destinato a divenire “diritto vivente” dall’impianto motivazionale della decisone e quindi con un riscontro effettuato per relationem.
La disposizione, come riconosciuto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nelle già citate pronunce 30 luglio 2008, nn. 20598 e 20599, ha portata innovativae, pertanto, dopo tale novella, non può più ritenersi soddisfatto l’obbligo di motivazione quando la compensazione si fondi ad esempio sulla “peculiarità della fattispecie”, che non consente il controllo sulla congruità delle ragioni poste alla base di tale decisione, neppure se integrate dal percorso motivazionale (così Cass. 30 maggio 2008, n. 14563, e 18 dicembre 2007, n. 26673).
Tale modifica appare del tutto giustificata sul piano costituzionale, tenuto conto dalla parte mo­tiva dell’ordinanza della Corte Costituzionale 21 dicembre 2004, n. 395, nella precisa e con­vincente lettura che ne danno poi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con le citate deci­sioni nn. 20598 e 20599 del 2008, laddove evidenziano quanto segue:
«con l’ordinanza citata la Corte Costituzionale … non ha avvallato come conforme alla Costituzione una interpretazione dell’art. 92 c.p.c. che esonerasse il giudice da ogni obbligo di motivazione, ma ha affermato che il giudice rimettente, una volta interpretata alla luce dei principi costituzionali (e in particolare dell’art. 111, sesto comma, Cost.) la norma che disciplina la compensazione delle spese di lite, nel senso che essa attribuisce al giudice un potere discrezionale, e non già arbitrario, di derogare alla regola legale imperniata sul principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.), doveva in tali termini farne applicazione, dando quindi conto, con adeguata motivazione, dei “giusti motivi” che lo inducevano a non porre, in tutto o in parte, le spese di lite a carico della parte soccombente».
IV. La casistica giurisprudenziale sui giusti motivi di compensazione delle spese.
16. La giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha sindacato nel merito i motivi addotti dal giudice per la compensazione delle spese di lite per giusti motivi formatasi sia sotto la vigenza del testo originario dell’art. 92, 2º comma, c.p.c. sia dopo la modifica introdotta dalla legge 28 dicembre 2005, n. 63 ritiene validi motivi di compensazione i seguenti casi:
-la non univocità della giurisprudenza, soprattutto di merito, sull’interpretazione di una particolare espressione normativa (Cass. 9 luglio 1993, n. 7535);
-la particolare complessità e la novità delle questioni trattate (Cass. 23 maggio 2003, n. 8210; Sez. Un., 15 novembre 1994, n. 9597); caratteristiche, queste, che permangono fino a che non si formi su di esse un orientamento di legittimità (Cass. 20 gennaio 2003, n. 770);
-la peculiarità e la complessità delle questioni trattate (Cass. 1° dicembre 2003, n. 18352) o, quantomeno, una peculiarità e complessità tali (per evitare di essere puramente tautologica) da consentire il superamento del controllo di legalità sui motivi e cioè da essere in sostanza apprezzabili e di sicuro rilevo (Cass. 30 aprile 2012, n. 6608);
-il rilevante divario nel quantum tra petitum originario e statuizione giudiziale di accoglimento della domanda (Cass., 6 dicembre 2003, n. 18705);
-il concorso della parte totalmente vincitrice con la controparte soccombente, nella stipula di un accordo, oggetto della lite, contra legem (Cass. 28 novembre 2003, n. 18238);
-la corresponsabilità nella lite della parte giudizialmente vittoriosa con la controparte soccom­bente, in ragione del carattere non inequivoco della pattuizione oggetto della vertenza, di tenore idoneo cioè ad ingenerare plurime possibili opzioni interpretative, di cui costituisce la fonte (Cass. 28 novembre 2003, n. 18238);
-l’affidamento della parte soccombente (la P.A.) nelle risultanze di un pubblico registro, nella specie rappresentato dal P.R.A., con riferimento ad un’ipotesi di violazione del codice della strada contestata dall’autorità (Cass. 21 gennaio 2013, n. 1371).
17. Le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 30 luglio 2008, nn. 20598 e 20599, più volte citate, indicano inoltre, “a titolo meramente esemplificativo”, i seguenti casi di compen­sazione delle spese per “giusti motivi”:
-le oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisa;
-le oggettive difficoltà degli accertamenti in fatto, idonee ad incidere sull’esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti;
-la palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa ed il costo delle attività processuali richieste;
-il comportamento processuale della parte, ingiustificatamente restio a formulare proposte conciliative plausibili, in relazione alle concrete risultanze processuali, ecc.
V. Il testo dell’art. 92, comma 2, c.p.c. dopo la novella n. 69/2009.
A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69, la locuzione utilizzata dall’art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo modificato nel 2005), per regolare la compensazione delle spese, dopo l’ipotesi della soccombenza reciproca, e cioè: “o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione”, viene sostituita dalla seguente: “o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”.
Ad avviso del Tribunale con tale modifica si è inteso fornire una base legale alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (come indicata nel paragrafo che precede), che, nel corso del tempo, viene individuando in modo rigoroso i casi di possibile compensazione delle spese di lite, in deroga al principio generale della soccombenza, o si trova ad indicarli a livello esemplificativo, come nel caso delle Sezioni Unite 2008 di tale Corte, nelle due pronunce (nn. 20598 e 20599) sopra citate.
Con la previsione secondo cui le ragioni giustificatrici della compensazione delle spese di lite devono essere non soltanto esplicitate, ma esser anche gravi ed eccezionali, la novella vuole in sostanza evidenziare:
[a] che non ogni ragione, per il fatto d’essere specificata, può essere motivo di compensazione, ma solo quelle di rilevante portata e cioè meritevoli di apprezzamento e tutela (cosa peraltro già desumibile, sia pure in modo indiretto, nei precedenti testi della norma, dall’aggettivo “giusti”);
[b] che tali ragioni devono anche essere eccezionali e cioè idonee a costituire una ragionevole eccezione alla regola generale della soccombenza.
21. Con il che si poteva ritenere che le modifiche alla norma processuale in esame fossero pervenute a conclusione e, si può aggiungere, ad una ragionevole conclusione, avendo posto rimedio alla prassi di una parte della giurisprudenza, che aveva utilizzato motivi di compensazione del tutto privi di consistenza o tautologici, come tali censurati dalla Corte di Cassazione dal momento che il giudice, dopo tale novella, viene gravato dell’obbligo non soltanto di fornire una motivazione specifica a corredo della compensazione delle spese di lite, ma di doverla anche individuare nell’ambito di situazioni del tutto apprezzabili sul piano della giustizia del caso concreto e di rispondenza ad un parametro di rigore, così da consentirne la verifica ex post, in termini sia di meritevolezza di tutela che di ragionevolezza dell’eccezione individuata.
VI. Il testo dell’art. 92, comma 2, c.p.c. dopo la novella n. 162/2014.
22. A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (come modificato dalla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162), l’art. 92, comma 2, c.p.c. viene sottoposto ad un processo di integrale revisione, dal momento che scompare da esso la previsione di carattere “aperto” che da 150 anni contrassegna il regime della compensazione delle spese di lite rappresentata un tempo dalla locuzione sui “giusti motivi” divenuti poi, con la riforma del 2009, per ragioni di maggior rigore espressivo, “gravi ed eccezionali ragioni” per lasciare invece posto ad una previsione di tipo “tassativo”; ristretta peraltro a due soli casi (oltre a quello della soccombenza reciproca, esistente dal 1940) e cioè “assoluta novità della
questione trattata” e “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”, al di fuori dei quali casi non è quindi consentito al giudice la compensazione delle spese di lite.
23. La Relazione Ministeriale (Min. Giustizia) al disegno di legge di conversione del decreto-legge
n. 132/2014 spiega così il motivo di tale scelta riformatrice:
-dopo avere premesso che
«Complementari finalità di contrazione dei tempi del processo civile fondano le misure per la funzionalità del medesimo processo, quali: la limitazione delle ipotesi in cui il giudice può compensare le spese del processo …»,
-specifica poi quanto segue:
«Compensazione delle spese (articolo 13). Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione. Con la funzione di disincentivare l’abuso del processo è previsto che la compensazione possa essere disposta dal giudice solo nei casi di soccombenza reciproca ovvero di novità della questione decisa o mutamento della giurisprudenza. Stante il particolare affidamento che la parte che introduce il giudizio fa nel regime delle spese, si è ritenuto opportuno stabilire che la previsione in parola si applichi ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto».
Non è di competenza del Tribunale (non avendo neppure gli strumenti e le informazioni per farlo) stabilire se la situazione descritta nella Relazione ministeriale (Min. Giustizia) risponda o meno a verità.
Si può ritenere, in assenza di riscontri contrari, che le cose stiano nei termini ivi descritti e in questa sede si tratta allora di verificare se lo strumento utilizzato dal legislatore, come motivato dal Ministro competente, proponente il DDL di conversione del decreto-legge, sia adeguato o meno rispetto all’obiettivo proposto, avuto riguardo ai principi contenuti nella Carta Costituzionale; e in proposito si formulano i seguenti sette rilievi.
Primo. La materia, come storicamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, pone in luce un’ampia casistica, quanto alle ragioni ritenute meritevoli di compensazione delle spese; cosicché, in ragione di tale varietà, la materia non si presta, per definizione, ad un intervento normativo di carattere tassativo, ma se mai di carattere esemplificativo.
In tal senso si esprime del resto la Corte di Cassazione, con sentenza 6 dicembre 2003, n. 18705, ove si legge che “i giusti motivi si sottraggono a qualunque elencazione che non sia meramente esemplificativa”; affermazione, questa, che richiama, quali precedenti, le sentenze della stessa Corte 22 aprile 2000, n. 5305, e 9 ottobre 1985, n. 4918.
Nel senso del (necessario) carattere esemplificativo dell’elencazione dei “giusti motivi” si espri­mono inoltre le Sezioni Unite della Corte di Cassazione più volte citate, 30 luglio 2008 nn. 20598 e 20599.
Secondo. L’art. 92, comma 2, nel testo attualmente vigente, come si legge nella citata Rela­zione ministeriale al DDL di conversione del decreto-legge n. 132/2014, ha una funzione di tipo deflattivo, che del resto emerge con chiarezza dal seguente passo di essa:
«con la funzione di disincentivare l’abuso del processo è previsto che la compensazione possa essere disposta dal giudice solo nei casi di soccombenza reciproca ovvero di novità della questione decisa o mutamento della giurisprudenza».
Dal passo ora citato si ricava in sostanza che, con la novella, si è quindi inteso disincentivare il ricorso al giudice e a tal fine si prevede che debbano essere sanzionati con la condanna alle spese invariabilmente tutti i casi rientranti nella regola generale della soccombenza, salvo tre, che rivestono quindi carattere tassativo (“solo nei casi” dice del resto la Relazione, di qui la tassatività) e cioè: 1) soccombenza reciproca; 2) assoluta novità della questione trattata; 3) mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
Terzo. È indubbio che il legislatore, nel dettare le norme processuali, “gode di un’ampia discrezionalità”, come affermato più volte dalla Corte Costituzionale, con sentenze n. 59 del 1999,
n. 158 del 2003, n. 446 del 2007, n. 270 del 2012 e, da ultimo, n. 157 del 2014, che richiama al paragrafo 4.1. tutte le decisioni in antecedenza citate.
Questo vale anche con riferimento alla regolamentazione delle spese di lite e della loro possi­bile compensazione, cosicché essa può ritenersi, in via tendenziale, materia sottratta allo scrutinio di legittimità costituzionale e sottoposta se mai a valutazione di opportunità delle scelte legislative, in una prospettiva critica e de iure condendo.
Quarto. Se questo è vero in linea di massima, esistono però dei limiti sul piano costituzionale che vanno in ogni caso rispettati, dal momento che la discrezionalità legislativa nella materia in esame non può ritenersi illimitata; pertanto la legge sulle spese processuali e sul regime della compensazione:
-deve rispettare il parametro costituzionale di ragionevolezza delle scelte legislative (art. 3, comma 1, Cost.);
-deve attenersi all’obbligo costituzionale di trattare in modo eguale situazioni eguali ed in modo differente situazioni differenti (art. 3, comma 1, Cost.);
-non deve scoraggiare l’esercizio del diritto costituzionale d’azione giudiziale, utilizzando lo strumento deflattivo in modo incongruo (art. 24, comma 1, Cost.);
-non deve vulnerare il principio costituzionale del giusto processo, limitando il potere-dovere del giudice di rendere giustizia in modo appropriato al caso concreto, come dal medesimo esaminato e ricostruito (art. 111, comma 1, Cost.).
Quinto. Ad avviso del Tribunale i citati parametri costituzionali paiono lesi dalla regolamenta­zione attualmente vigente, in quanto essa isola tre ipotesi di compensazione, la prima dal 1940 presente nella norma e le altre due scelte, senza dubbio, nell’ambito della casistica individuata o trattata dalla Corte di Cassazione nel periodo antecedente a tale modifica, separandole però dalle altre, individuate dalla stessa Corte e di cui si è trattato sopra (ai punti nn. 16 e 17), la cui gravità (ovverossia meritevolezza di tutela) ed eccezionalità (e cioè idoneità a costituire eccezione alla regola generale della soccombenza) appare pur sempre tale da giustificare la compensazione parziale o totale delle spese, al pari delle due prescelte dall’ultima novella.
Ad esempio, se è meritevole di compensazione l’ipotesi del mutamento di giurisprudenza, non si vede per quale motivo non lo debba invece essere la situazione di perdurante contrasto di giurisprudenza, che all’evidenza è ipotesi diversa dalla precedente; inoltre, se è meritevole di compensazione l’assoluta novità del caso deciso, non si vede allora per quale ragione non debba esserlo anche l’ipotesi dell’oggettiva difficoltà di accertamenti in fatto, ma idonei ad incidere sull’esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti; o, ancora, non debba esserlo anche la corresponsabilità nella lite della parte vittoriosa, per avere dato corso ad una pattuizione equivoca ed idonea a ingenerare plurime possibili opzioni interpretative; o il concorso della parte vincitrice con la controparte soccombente, nella stipula di un accordo contra legem; o, ancora, l’affidamento della parte risultata soccombente sulle risultanze di un pubblico registro, quando è questo a determinare la condotta di tale parte, poi sanzionata dal giudice; casi, tutti, presi in considerazione dalla Corte di Cassazione, come si è visto sopra, ai punti nn. 16 e 17.
Tutti le ipotesi ora citate paiono integrare, ad avviso del Tribunale, gli estremi del caso grave ed eccezionale, che avrebbe consentito la compensazione delle spese di lite, a norma dell’art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo risultante a seguito della novella di cui all’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69; non lo consente, invece, in alcun modo, con il testo oggi vigente, cosicché la compensazione sarebbe ora inficiata da violazione di legge.
Sesto. Si scorge qui, in modo del tutto evidente e chiaro, che se il fine della nuova normativa, come dichiarato dal Ministro competente, è quello di contrastare una prassi giudiziaria che
continua ad essere incentrata sul potere discrezionale di compensazione, destinata a sua volta ad incentivare la litigiosità, lo strumento utilizzato imperniato sulla drastica riduzione delle ipotesi di compensazione, ridotte a solo due (oltre a quello tradizionale, della soccombenza reciproca) appare lesivo:
[1] del principio di ragionevolezza delle scelte legislative (art. 3, comma 1, Cost.), dal momento che: a) la pregressa modifica del 2009 è già del tutto sufficiente a scoraggiare eventuali abusi, da parte del giudice, nell’uso dello strumento della compensazione, contenendo essa già una regolamentazione del tutto rigorosa ed appropriata;  b) sussiste inoltre discrepanza tra il fine perseguito (contrasto con una prassi giudiziaria in atto) e lo strumento normativo utilizzato (limitazione estrema ed oltre ogni misura delle ipotesi di compensazione), che appare pertanto viziato per eccesso di potere legislativo; c) tale fine avrebbe del resto potuto essere perseguito con l’introduzione di un rimedio pro­cessuale apposito e veloce, come quello del reclamo, suggerito dalla dottrina, sulla scorta di quanto previsto nella procedura civile austriaca, non invece con l’irrazionale limitazione delle ipotesi di compensazione, irrispettosa del principio costituzionale di ragionevolezza;
[2] del principio di eguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.), attese le situazioni prese in considera­zione dalla norma, raffrontate quale tertium comparationis con quelle da essa escluse, quali (a titolo esemplificativo) quelle individuate dalla giurisprudenza di legittimità e di cui si è detto sopra, ai punti nn. 16 e 17;
[3] del diritto di agire giudizialmente (art. 24, comma 1, Cost.), dal momento che tende, in linea di fatto, a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo (e punitivo) incongruo, ad esempio nelle ipotesi in cui la condotta della parte (poi risultata soccombente) sia improntata a correttezza, prudenza, buona fede, difetto di informazioni, difficoltà di conoscenza dei fatti, erroneo affidamento su condotte altrui (anche pre­processuali della controparte) e quant’altro di simile e rilevante, e cioè a situazioni del tutto antitetiche rispetto a quelle ipotizzate dalla norma, correlate all’abuso del processo;
[4] del principio del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.), dal momento che limita il potere-dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite, in modo appropriato al caso concreto, come dal medesimo esaminato e ricostruito.
Settimo. Un ulteriore parametro normativo che va a questo punto sottolineato in quanto conferma la ragionevolezza del testo previgente dell’art. 92, comma 2, c.p.c. (come novellato dall’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69) e, in pari tempo, l’irragionevolezza del testo attualmente vigente è inoltre il par. 3, comma 1, dell’art. 69 del Regolamento di procedura della Corte di Giustizia 19 giugno 1991, che prevede la compensazione delle spese di lite per “motivi eccezionali”.
Tale norma viene applicata dalla Corte di Giustizia quando vi siano valide ragioni per ritenere la “buona fede” della parte soccombente, ad esempio in dipendenza dell’oggettiva complessità della controversia ovvero in conseguenza di atteggiamenti della parte processualmente vittoriosa che abbiano ingenerato errori nell’altra parte; o, ancora, in conformità con un’antica tradizione della stessa Corte, quando siano in discussione difficili e complesse questioni giuridiche o si tratti di situazione giuridica incerta; o, infine, quando appare opportuno sanzionare il comportamento pre­processuale o anche processuale, abusivo o manifestazione scorretto di una delle parti.
VII. Le spese di lite e la vicenda in esame.
40. Si tratta, a questo punto, di delineare le caratteristiche della vicenda decisa con la sentenza non definitiva in atti, con riferimento specifico al tema della compensazione delle spese di lite,
in rapporto al nuovo testo di legge, entrato in vigore l’11 dicembre 2014, giorno in cui il ricorso viene depositato in cancelleria, e pertanto da considerare applicabile alla fattispecie di causa.
41. In proposito si osserva che la questione affrontata in causa con riferimento alla domanda principale, può essere così delineata (vedi, sul punto, i paragrafi IV, V, VI della sentenza non definitiva): a) il ricorrente sostiene che i CCNL applicati dalla convenuta sino al 31 dicembre 2013, non risultando stipulati da organizzazioni imprenditoriali e sindacali comparativamente più rap­presentative, non siano conformi alle prescrizioni di cui al combinato disposto dell’art. 36 Cost., dell’art. 3, comma 1, e dell’art. 6, comma 2, della legge 3 aprile 2001, n. 142, nonché dell’art. 7, comma 4, del decreto legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito nella legge 28 febbraio 2008, n. 31, e pertanto non garantiscano una retribuzione congrua e sufficiente; b) sostiene inoltre che al rapporto di lavoro debba trovare applicazione il CCNL Multiservizi LegaCoop/ConfCooperative/Filcams-Cgil/Fisascat-Cisl/UilTrasporti-Uil, giacché stipulato da organizzazioni comparativamente più rappresentative e, come tale, da ritenere idoneo a realizzare una retribuzione congrua e sufficiente; c) l’assunto sub a), come emerge dalla motivazione della sentenza non definitiva, è del tutto corretto, essendosi registrati notevoli abusi nel settore delle cooperative, con l’applicazione da svariati anni di tabelle salariali deteriori, derivanti da CCNL privi di effettiva rappresentatività e che quest’Ufficio accerta più volte promanare da organizzazioni imprenditoriali e dei lavoratori “di comodo”, utilizzati al fine di reclutare manodopera a bassissimo costo, in spregio alla normativa costituzionale e legale citata dal ricorrente;  d) plausibile é anche l’assunto sub b), dal momento che trova riscontro, oltre che nella Nota 1° giugno 2012, prot. n. 37/0010310 del Ministero del lavoro, anche nella giurisprudenza di questo Tribunale e della Corte d’Appello di Torino, prodotta in giudizio dal ricorrente medesimo e di cui il Tribunale dà anche conto nella sentenza non definitiva; e) il diverso esito della presente lite rispetto alle decisioni precedenti (del tutto inaspettato ed imprevedibile, per il ricorrente, se si considerano le decisioni in antecedenza citate) è unicamente legato alla diverso assetto difensivo della resistente (anch’esso inaspettato ed imprevedibile, per il ricorrente), che in questa vicenda, a differenza di quelle pregresse, indica CCNL diversi da quello menzionato dal ricorrente, quali termini di raffronto per effettuare la verifica di congruità della retribuzione e cioè: 1) il CCNL dipendenti da fabbricati, sottoscritto da Confedilizia/Filcams-Cgil/Fisascat-Cisl/Uiltucs-Uil nonché 2) il CCNL Vigilanza e Servizi Fiduciari LegaCoop/Conf-Coopera-tive/Filcams-Cgil/Fisascat-Cisl (quest’ultimo applicato dalla convenuta a partire dal 1° gennaio 2014);  f) la necessaria e doverosa verifica contabile che ne scaturisce, a mezzo di CTU (il cui esito risulta tutt’altro che scontato), dà un risultato sfavorevole al ricorrente, non evidenziando differenze retributive a favore del medesimo; g) ciò è spiegabile con l’avere la convenuta, in linea di fatto, erogato al lavoratore, nel corso degli anni oggetto di causa (gennaio 2005-dicembre 2013), una retribuzione migliorativa rispetto alle tabelle salariali dei CCNL che via via si sono avvicendati, in epoca antecedente al CCNL in vigore presso la resistente dal 1° gennaio 2014, l’unico sottoscritto da organizzazioni comparativamente più rappresentative;
h) la domanda proposta dal ricorrente in via principale viene pertanto respinta, con la sentenza non definitiva.
Venendo ora alla domanda proposta dal ricorrente in via subordinata, essa (come emerge dal paragrafo VII della sentenza non definitiva) presenta le seguenti caratteristiche: i) nel periodo dicembre 2012-marzo 2013, in cui il ricorrente è in infortunio, e nei periodi marzo-maggio, ottobre-dicembre 2013 e gennaio-marzo 2014, in cui il medesimo si trova in malattia, la convenuta gli eroga le indennità previste dalla legge in relazione a tali eventi, ma non invece le integrazioni contrattuali previste dal CCNL multiservizi UnciConfsal e dal CCNL Vigilanza e Servizi Fiduciari, il primo applicato dalla convenuta sino al 31 dicembre 2013 e il secondo applicato a far tempo dal 1° gennaio 2014; j) il ricorrente chiede pertanto che, ove il Tribunale dovesse ritenere infondata l’applicazione del CCNL invocato in via principale, condanni la convenuta al pagamento delle indennità contrattuali previste specificamente dai due CCNL applicati dalla resistente;  k) la convenuta si difende, con riferimento a tale domanda, evidenziando che la propria condotta deve ritenersi legittima, tenuto conto della delibera assembleare 20 giugno 2011 e, inoltre, del disposto di cui all’art. 6, comma 1, lett. d) ed e), della legge 3 aprile 2001, n. 142;  l) la tesi della resistente viene ritenuta fondata nella sentenza non definitiva e, pertanto, anche tale domanda viene respinta.
Ciò premesso, si tratta a questo punto di valutare la condotta del ricorrente, per avere pro­mosso la controversia ed azionato le due citate domande, risultate entrambe infondate, avuto riguardo al regime delle spese di lite e della loro possibile compensazione, quale delineato dal testo vigente dell’art. 92 c.p.c.
Prendendo in considerazione l’esito del giudizio con riferimento alla domanda principale, va detto che esso non risulta integrare, in alcun modo, una situazione di abuso del processo, evi­denziando per contro, in capo al lavoratore, una condotta del tutto corretta, improntata a totale buona fede.
Tale domanda si fonda infatti, come si è detto sopra al punto n. 41, lett. d), su pronunce di questo Tribunale e della Corte d’Appello di Torino, che sanciscono l’applicazione del C.C.N.L. qui invocato dal ricorrente, ancorché diverso da quelli poi utilizzati dal Tribunale nella sentenza non definitiva, in ragione della diversa e non prevedibile difesa (per il ricorrente) da parte della resistente.
Venendo ora all’art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo oggi vigente), va detto che la fattispecie principale non presenta in alcun modo i tratti dell’assoluta novità della questione trattata, dal momento che essa è tutt’altro che nuova, come dimostrano le pregresse sentenze prodotte in causa dal ricorrentee citate dal Tribunale nella sentenza non definitiva.
Quanto poi all’ipotesi, prevista dalla norma citata, del mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, si osserva ciò che segue:
-la locuzione “mutamento della giurisprudenza” viene comunemente usata, in ambito giuridico, per indicare il ribaltamento di un principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione, rispetto a quello in antecedenza enunciato dalla stessa Corte, questione che ha formato anche oggetto di apposito e approfondito studioe che, grosso modo, corrisponde al revirement nella giurisprudenza della Corte Suprema francese e all’overruling di quella inglese;
-in senso lato (e cioè senza alcuna correlazione con la Corte Suprema) tale locuzione potrebbe significare a fronte di una fattispecie definita dal diritto vivente e cioè dal diritto giurisprudenziale (di merito) con l’enunciazione di una determinata regola giuridica il suo repentino abbandono e quindi il suo ribaltamento;
-come che sia, tale situazione, che attiene esclusivamente all’ambito dell’interpretazione delle norme giuridiche, non è in alcun modo riscontrabile nel caso qui in discussione, con specifico
riferimento alla domanda proposta dal ricorrente in via principale, dal momento che non sussiste nella materia in esame alcun diritto vivente e, tantomeno, un suo mutamento;
-a ciò aggiungasi che il particolare esito del giudizio rispetto ad alcune precedenti pronunce è del resto dipeso non dalla diversa lettura delle norme di riferimento, ma, come si è chiarito sopra, da un diverso (e non prevedibile per il ricorrente) assetto difensivo proposto dalla resistente, che rende doveroso, da parte del Tribunale, prendere in considerazione CCNL differenti da quello utilizzato in precedenti vertenze ed invocato in causa dal ricorrente;
-in tale contesto, contrassegnato bensì da un mutamento, ma del CCNL, da utilizzare per la verifica di congruità della retribuzione erogata, non è pertanto riscontrabile (a meno di ipotizzare inammissibili forzature interpretative) l’ipotesi legale di cui si sta ora discutendo.
Venendo ora all’esito del giudizio con riferimento alla domanda subordinata proposta dal ricor­rente, va detto che anch’esso non risulta integrare, in alcun modo, una situazione di abuso del processo, evidenziando per contro, in capo al lavoratore, una condotta del tutto corretta, im­prontata a totale buona fede.
La soppressione, ancorché temporanea, delle integrazioni contrattuali, previste dai contratti collettivi, delle indennità legali di infortunio e di malattia, è questione che il diritto del lavoro riconduce invariabilmente ad un’ipotesi di mutamento in peius della retribuzione acquisita al patrimonio del lavoratore, così da essere ritenuta inammissibile sul piano giuridico, in applicazione del noto principio di irriducibilità della retribuzione, sancito dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori; pertanto una controversia avente un simile oggetto sfocerebbe, inevitabilmente ed invariabilmente, nella piena soccombenza dell’impresa che tale soppressione effettua e difende.
La questione si presenta però in termini più complessi nell’ipotesi in cui il prestatore sia un socio lavoratore e il suo rapporto lavorativo presenti la natura giuridica del rapporto di lavoro subordinato, come nel caso del ricorrente, non essendo contestata dalle parti in causa la coesistenza, in capo al medesimo, dello status di socio lavoratore e, nel contempo, dello status di lavoratore subordinato, che nelle cooperative di produzione e lavoro, com’è noto, possono coesistere, a norma della legge n. 142/2001.
Nelle cooperative di produzione lavoro sono infatti consentiti assetti regolamentari e delibere assembleari di riduzione temporanea dei trattamenti integrativi, autorizzati dall’art. 6, comma 1, lett. d) ed e), della legge 3 aprile 2001, n. 142, che peraltro li assoggetta a rigorose condizioni di ammissibilità, anche in ragione del rinvio operato da tale norma all’art. 3, comma 2, lett. b), della stessa legge, al fine di evitare possibili abusi.
La controversia, sul punto ora in esame, è quindi contrassegnata da un’indubbia complessità, in quanto si tratta di verificare, in concreto, la sussistenza di tutte le condizioni di legge che consentono alla cooperativa, che agisce in deroga, di operare in modo legittimo; controversia che, altrimenti e cioè in assenza di un positivo e convincente riscontro da parte del giudice, comporterebbe senza dubbio una soluzione opposta, non essendo ammissibile, anche nell’ambito delle cooperative di lavoro ed in linea tendenziale, la riduzione della retribuzione in atto, in conformità con la disposizione del citato art. 13 dello Statuto dei Lavoratori.
Venendo ora all’art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo vigente), la fattispecie subordinata ora in esame non può, in alcun modo, essere inquadrata né nell’ipotesi dell’assoluta novità del caso deciso né in quella del mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, trattandosi di problematica: 1) che in linea di principio è del tutto nota, ma che impone poi verifiche caso per caso, in ordine alla sussistenza delle condizioni fattuali per l’applicazione delle norme; 2) che non dà luogo a problemi di ordine interpretativo delle norme di riferimento.
Ciò premesso, il caso qui in esame può essere sinteticamente così descritto, in riferimento alla problematica delle spese di lite: A) avuto riguardo alla domanda principale, si evidenzia il mutamento del CCNL di riferimento per la verifica di congruità retributiva richiesta dal ricorrente, rispetto a quello utilizzato in precedenti similari vertenze, situazione questa del tutto imprevista ed imprevedibile per il lavoratore che qui agisce in giudizio; B) avuto riguardo alla domanda subordinata, si evidenzia l’oggettiva difficoltà, per il ricorrente, di prevedere le valutazioni ed i riscontri che potranno poi essere effettuati dal giudice, alla luce delle specifiche difese della resistente, al fine di stabilire se la soppressione dei trattamenti integrativi di cui sopra (e che a norma dei CCNL applicati dalla convenuta gli sarebbero dovuti) sia o meno legittima,
C) in entrambi i casi, quindi, ci troviamo in presenza di circostanze di difficile conoscibilità a priori, in ordine alle rispettive ragioni delle parti e a quelle della parte convenuta in particolare.
Si tratta di situazione presa in considerazione dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nelle più volte citate sentenze 30 luglio 2008, nn. 20598 e 20599, come emerge sopra, al punto n. 17, ma che non può invece formare oggetto di alcuna considerazione nell’ambito del testo attualmente vigente dell’art. 92, comma 2, c.p.c.
Nel contesto sopra delineato emerge allora, in modo del tutto chiaro, quanto segue:
-il Tribunale non potrebbe esimersi, sulla base del disposto attualmente vigente dell’art. 92, comma 2, c.p.c., dall’obbligo di condannare il ricorrente al pagamento delle spese di lite, non rientrando le domande proposte dal medesimo in alcuna delle tre ipotesi tassative previste dal testo normativo novellato;
-ad una diversa conclusione il Tribunale potrebbe pervenire se viceversa fosse vigente il precedente testo dell’art. 92, 2º comma, c.p.c., quello facente seguito alla novella di cui all’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69; e ciò in quanto le situazioni sopra rappresentate costituiscono senza dubbio gravi ed eccezionali ragioni di compensazione delle spese di lite;
-alla stessa conclusione il Tribunale potrebbe pervenire se la norma attualmente vigente pre­sentasse una formulazione di tipo esemplificativo (cosa che peraltro non è né è possibile ricavare per via interpretativa) e cioè indicasse i tre casi come ipotesi esemplificative di riferimento, lasciando al giudice la possibilità di utilizzarne altri, secondo la ben nota varietà della casistica, avuto riguardo ai parametri di gravità ed eccezionalità emergenti dai tre casi enunciati a titolo esemplificativo;
-quest’ultima strada non può però esser percorsa direttamente dal Tribunale, dal momento che si colloca al di là e al di fuori dei possibili interventi interpretativi del giudice, ivi compreso quello di interpretare le norme in modo conforme a Costituzione, in applicazione dell’autorevole e consolidato orientamento ed insegnamento della Corte Costituzionale;
-quello che però non può fare il Tribunale, in quanto sconfinerebbe in un’attribuzione propria del Giudice delle Leggi, lo può invece fare quest’ultimo.
VIII. Conclusione.
57. Va dato atto a questo punto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2,
c.p.c. (nel testo novellato dall’art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162), prospettata alle parti dal giudice e in ordine alla quale le stesse concludono nei termini riportati all’inizio della presente ordinanza, appare senza dubbio rilevante rispetto alla porzione di giudizio non ancora decisa, concernente il regolamento delle spese di lite.
58. Essa appare anche non manifestamente infondata, in riferimento ai seguenti parametri costituzionali:
-art. 3, comma 1, Cost., inteso quale principio di ragionevolezza delle scelte legislative;
-art. 3, comma 1, Cost., inteso quale principio di eguaglianza, avuto riguardo alle situazioni prese in considerazione dalla norma e, quale tertium comparationis, alle situazioni escluse da essa, quali esaminate dalla Corte di Cassazione e ritenute dalla stessa meritevoli di compensazione (cfr. sopra, punti nn. 16 e 17);
-art. 24, comma 1, Cost., relativo al diritto d’azione del cittadino;
-art. 111, comma 1, Cost., relativo al giusto processo, avuto riguardo ai poteri del giudice, per realizzare il compito di giustizia del caso concreto che istituzionalmente gli è attribuito.
59. Un ulteriore parametro che viene sottoposto all’attenzione del Giudice delle Leggi, in quanto contribuisce ad evidenziare la non manifesta infondatezza della questione qui posta, è infine il l’art. 69, par. 3, comma 1 (relativo alla compensazione delle spese di lite per “motivi eccezionali”) del Regolamento di procedura della Corte di Giustizia UE 19 giugno 1991; norma che viene applicata dalla Corte di Giustizia quando vi siano valide ragioni per ritenere la “buona fede” della parte soccombente, ad esempio in dipendenza dell’oggettiva complessità della controversia ovvero in conseguenza di atteggiamenti della parte processualmente vittoriosa che abbiano ingenerato errori nell’altra parte; o, ancora, quando siano in discussione difficili e complesse questioni giuridiche o si tratti di situazione giuridica incerta o, infine, quando appaia opportuno sanzionare il comportamento pre-processuale o anche processuale, abusivo o manifestazione scorretto di una delle parti.
Alla luce delle considerazioni che precedono la prospettata questione di legittimità costi­tuzionale, la cui definizione risulta rilevante rispetto al giudizio in corso, va pertanto ritenuta non manifestamente infondata; con conseguente avvio del procedimento davanti al Giudice delle Leggi.
Valuterà la Corte Costituzionale se adottare una pronuncia di illegittimità costituzionale della norma denunciata, che farebbe rivivere il testo precedente, dal momento che la prima costituisce mera modifica del secondo, ovvero conservare il testo attuale, indicando con una pronuncia interpretativa di rigetto ovvero di accoglimento parziale, il percorso destinato a consentire alla norma di essere intesa come “fattispecie aperta” (ovvero di “meramente esemplificativa”), così da costituire parametro di riferimento per l’individuazione di ulteriori casi, ragguagliati a quelli tipizzati sotto il profilo della “gravità ed eccezionalità”.

P.Q.M.

Il Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo novellato dall’art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162), in riferimento:
-all’art. 3, comma 1, Cost. (inteso sia come principio di ragionevolezza delle scelte legislative che come principio di eguaglianza delle situazioni incluse nella norma rispetto, quale tertium compa­rationis, a quelle di pari gravità ed eccezionalità escluse da essa, quali a titolo esemplificativo prese in considerazione dalla Corte di Cassazione (punti nn. 16 e 17 della presente ordinanza);
-all’art. 24, comma 1, Cost.;
-all’art. 111, comma 1, Cost.;  avuto inoltre riguardo all’art. 69, par. 3, comma 1 (relativo alla compensazione delle spese di lite per “motivi eccezionali”) del Regolamento di procedura della Corte di Giustizia UE 19 giugno 1991;  nella parte in cui non consente, nel caso oggetto di causa, la compensazione delle spese di lite, pur versandosi in ipotesi che appare meritevole di compensazione sotto il profilo della sua gravità ed eccezionalità, al pari dei tre casi indicati in modo tassativo dal vigente art. 92, comma 2, c.p.c.
Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata ai legali delle parti, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Dispone la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti, unitamente alle prove delle notificazioni qui ordinate, alla Corte Costituzionale.


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