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Per l’insulto al datore di lavoro scatta il licenziamento

12 Maggio 2016 | Autore:
Per l’insulto al datore di lavoro scatta il licenziamento

Insubordinazione del dipendente: rispondere male al superiore o al datore di lavoro dell’azienda presso cui si lavora comporta il licenziamento anche senza bisogno di gesti violenti.

Il dipendente non può screditare e insultare il superiore gerarchico dell’azienda in cui lavora agli occhi degli altri lavoratori o rispondergli in modo offensivo: si tratta di insubordinazione che consente il licenziamento in tronco (cosiddetto “per giusta causa”), che non richiede quindi neanche il preavviso. A dirlo è la Cassazione con una recente sentenza [1]. Secondo la Corte, l’insubordinazione non si limita al semplice rifiuto di svolgere le proprie mansioni, ma si estende a tutte le condotte che pregiudicano l’autorevolezza di cui godono dirigenti e quadri intermedi.

È legittimo quindi il licenziamento per la critica rivolta al superiore gerarchico con espressioni ingiuriose. Per la Cassazione l’efficienza dell’organizzazione aziendale dipende anche dall’autorevolezza dei suoi dirigenti ai quali non possono essere attribuite qualità disonorevoli. Né si può giustificare l’ingiuria proferita dal dipendente con l’abitudine lessicale di quest’ultimo ad usare determinate espressioni volgari o violente: insomma nessun criterio relativo nel giudizio sui dipendenti, ma tutti vanno valutati con gli stessi metri e giudizi.

Nel caso di specie, un lavoratore si era reso protagonista di alcuni episodi di dura contestazione, attraverso frasi ingiuriose, verso un suo superiore. Secondo la Cassazione, però, scatta l’insubordinazione anche nei casi di critica rivolta ai superiori con “modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti”. Il che è suscettibile di provocare un danno all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima si basa soprattutto sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi; tale autorevolezza non può non essere messa in discussione dal lavoratore che, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli.

Secondo la Corte, inoltre, affinché l’insulto rivolto al superiore gerarchico possa giustificare il licenziamento in tronco non è necessario che si concretizzi in gesti violenti. Anche se il contratto collettivo nazionale non prevede la condotta ingiuriosa come causa di licenziamento, il giudice non è vincolato all’elencazione contenuta nel Ccnl: detta condotta, infatti, è di per sé grave in quanto mina l’autorità del datore e compromette il regolare funzionamento dell’organizzazione aziendale.

La sentenza segna una netta presa di posizione, da parte della Cassazione, su un tema che, in passato, è stato oggetto di numerosi contrasti da parte della giurisprudenza. Oggi, con la pronuncia in commento, non ci dovrebbero essere più dubbi sulla validità del licenziamento del dipendente che insulta un suo superiore.

L’insubordinazione

A questo punto risulta necessario chiarire quale condotta possa considerarsi un’offesa al datore e quale, invece, esercizio della normale critica. In realtà questo punto non viene chiarito in modo preciso dalla Corte (né potrebbe essere altrimenti, sconfinandosi altrimenti in un eccesso di casismo): i giudici si limitano a parlare di “modalità che esorbitano dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti”. L’insubordinazione, osserva la sentenza, si concretizza ogni volta che il dipendente adotta una condotta capace di pregiudicare lo svolgimento del lavoro nel quadro dell’organizzazione aziendale.

Tra queste condotte, prosegue la pronuncia, può rientrare la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di mantenere dei toni che siano corretti nella forma e nella sostanza, in quanto questo comportamento può minare l’autorevolezza dei dirigenti o dei quadri che subiscono la critica illecita e, quindi, mette a repentaglio l’efficienza dell’organizzazione aziendale.


note

[1] Cass. sent. n. 9635/16 dell’11.05.2016.

Autore immagine: Pixabay.com

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 24 febbraio – 11 maggio 2016, n. 9635
Presidente Napoletano – Relatore Cavallaro

Fatto

Con sentenza depositata il 12.3.2013, la Corte d’appello di Potenza rigettava il gravame proposto dall’Istituto Provinciale di Vigilanza “La Ronda” di P.P.G. e confermava la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità dei licenziamento intimato dall’azienda a C.C., condannandola a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli i danni.
La Corte in particolare riteneva che gli addebiti contestati al lavoratore non valessero ad integrare gli estremi della giusta causa di recesso (e segnatamente la fattispecie dell’insubordinazione), dal momento che le espressioni ingiuriose rivolte ad un suo superiore gerarchico e indirettamente alla dirigenza tutta non si erano tradotte in un rifiuto di adempiere, essendo piuttosto espressive di un’abitudine lessicale, priva di intenti realmente offensivi e aggressivi.
Per la cassazione di questa pronuncia ricorre l’Istituto Provinciale di Vigilanza “La Ronda” affidandosi a tre motivi. Resiste C.C. con controricorso.

Diritto

Con il primo motivo, parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo della controversia per avere la Corte territoriale ritenuto che gli addebiti contestati al lavoratore non giustificassero il licenziamento, sul rilievo che le espressioni ingiuriose e diffamatorie rivolte ai superiori non si sarebbero tradotte in un rifiuto di adempiere, trovando piuttosto spiegazione in abitudini lessicali prive di qualsiasi intento realmente offensivo e aggressivo: più precisamente, parte ricorrente ravvisa contraddittorietà nell’assunto dei giudici di merito secondo cui il pur fondato timore che in futuro il lavoratore non sarebbe stato in grado di tenere comportamenti conformi alle regole del vivere civile e dell’organizzazione dei lavoro non costituiva allo stato motivo per ritenere che egli avrebbe potuto assumere comportamenti negatori degli impegni assunti o lesivi del patrimonio o dell’organizzazione aziendale.
Con il secondo motivo, parte ricorrente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto che l’abuso dei diritto di critica (vale a dire la critica esercitata con modalità lesive dell’immagine e dei decoro dell’interlocutore) non potesse essere lesiva dei vincolo fiduciario, sul rilievo che il CCNL sanzionerebbe con il recesso per giusta causa condotte non solo verbalmente, ma anche fisicamente aggressive ovvero il rifiuto di adempiere ad un ordine legittimo.
Con il terzo motivo, infine, parte ricorrente si duole della violazione dell’art. 140 CCNL e di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo della, controversia per avere la Corte ritenuto che il rifiuto del lavoratore di sottoscrivere le disposizioni di servizio concernenti i turni di lavoro non integrasse insubordinazione, dal momento che dette disposizioni non costituivano uno specifico ordine di servizio, ma semplicemente una misura gestionale. Ciò posto, il primo e il secondo motivo possono trattarsi congiuntamente, in ragione dell’intima connessione delle censure svolte, e sono fondati nei termini che seguono.
Va anzitutto rilevato che, sebbene parte ricorrente denunzi in entrambi i motivi omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti decisivi della controversia, trattasi a ben vedere di censure di violazione di legge: a venire in rilievo in entrambi i motivi non è infatti l’accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito, bensì la sussunzione dei fatti come accertati entro il paradigma legale costituito dal combinato disposto degli artt. 2106 e 2119 c.c. Il che, peraltro, permette di superare agevolmente l’ostacolo che pure formalmente potrebbe porsi per essere il motivo di ricorso costruito sul testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. vigente anteriormente alle modifiche apportate dall’art. 54, d.l. n. 83/2012 (cony. con I. n. 134/2012), applicabili in specie per essere stata la sentenza impugnata depositata il 12.3.2013: costituendo reale oggetto della censura l’operazione di sussunzione compiuta dalla Corte territoriale, non v’ha in specie alcuna questione di fatto, bensì solo di diritto, avendo questa Corte di legittimità da tempo superato l’orientamento secondo cui il giudizio sull’esistenza o meno della giusta causa di recesso costituiva giudizio di fatto, denunciabile per cassazione solo se affetto da vizi di motivazione, ed essendosi invece consolidato il principio di diritto secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, dei rapporto”, è una nozione che la legge configura con una disposizione ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali e come tale delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama, la disapplicazione dei quali, trattandosi di specificazioni dei parametro normativo aventi natura giuridica, è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, rimanendo invece nell’ambito del giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se non nei limiti dell’art. 360 n. 5 c.p.c., l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, nonché della loro concreta attitudine, sotto il profilo della proporzionalità, a costituire giusta causa di licenziamento (giurisprudenza costante fin da Cass. n. 11109 dei 2002: v. da ult. Cass. n. 5095 del 2011). Ora, è precisamente nella ricostruzione della nozione di insubordinazione che il ragionamento della Corte territoriale mostra la sua fallacia. Posto infatti che detta nozione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale (giurisprudenza consolidata fin da Cass. n. 5804 del 1987), deve rilevarsi che la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa in ultima analisi sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza non può non risentire un pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli. Né contrari argomenti possono ritrarsi dalla circostanza (pure valorizzata dalla Corte di merito) secondo cui il CCNL tipizzerebbe come ipotesi di giusta causa di recesso soltanto condotte non solo verbalmente, ma anche fisicamente aggressive: la “giusta causa” di licenziamento è nozione legale e il giudice non può ritenersi vincolato dalle previsioni dettate al riguardo dal contratto collettivo, potendo e dovendo ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento dei lavoratore contrario alle norme della comune etica o dei comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e potendo e dovendo specularmente escludere che il comportamento dei lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. da jIt. Cass. n. 4060 del 2011). , Non essendosi la Corte di merito attenuta ai superiori principi, la sentenza impugnata, assorbito il terzo motivo di censura, va cassata e rinviata per nuovo esame alla Corte d’appello di Salerno, che provvederà anche sulle spese dei presente giudizio di legittimità. Tenuto conto dell’accoglimento dei ricorso, non sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Salerno, che provvederà anche sulle spese dei giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-qoater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.


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1 Commento

  1. Direi che il licenziamento viene in questo caso legittimato per via del fatto che il lavoratore ha perpetrato l’illecito di ingiuria. Perché io direi che l’atto di ESAUTORARE il proprio datore di lavoro con l’ausilio dello strumento di critica (entro il quadro delle buone maniere) non è affatto un illecito. Qualora il datore di lavoro non dovesse dimostrarsi autorevole e/o onorevole (e quindi nel caso in cui questi stia compiendo azioni chiaramente screditate e/o disonorevoli, pertanto illecite e non corrette) direi che è DOVEROSO per il lavoratore procedere ad esautorare il proprio superiore (con correttezza dei toni formali), anche dinanzi ai propri colleghi. L’autorevolezza e l’onore che se in seno al datore diventano strumenti di efficienza aziendale sono qualità attribuibili solo sulla base del comportamento zelante di quei soggetti e se le azioni che essi compiono non sono autorevoli e onorevoli sono solo strumenti di inefficienza e trovo corretto affermare che sia proprio il lavoratore a DOVER ESAUTORARE i propri superiori nel contesto dell’ambiente di lavoro. Chi altro mai dovrebbe farlo?

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