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Cyberstalking: cos’è e come difendersi

8 Agosto 2016 | Autore:
Cyberstalking: cos’è e come difendersi

Con l’avvento dei social network il reato di stalking è perpetrabile anche tramite il monitor di un computer: si parla di cyberstalking. Cos’è, cosa prevede la legge e come difendersi.

 

Stalking e cyberstalking: cosa sono?

Il reato di stalking (dall’inglese to stalk = fare la posta, braccare la preda) è una realtà in costante e preoccupante crescita, la cui condotta tipica si concreta in comportamenti reiterati che, identificandosi in veri e propri atti persecutori tali da compromettere gravemente psicologicamente e fisicamente la vittima (ad esempio, comportamenti invadenti, di intromissione, con pretesa di controllo, minacciando costantemente la vittima con telefonate, messaggi, appostamenti, ossessivi pedinamenti), ingenerano in essa la paura e il fondato timore di un pericolo concreto nei confronti propri e/o dei propri familiari, minacciandone, dunque, anche la sfera affettiva [1].

Con la nascita dei social media è cambiato il modo di parlare di sé. Siamo portati a raccontare molto di più i fatti personali e, con la geo-localizzazione, facciamo sapere pubblicamente dove siamo in tempo reale. Il computer, poi, ci trasmette un senso di falsa sicurezza. Lo usiamo da casa o nei luoghi a noi familiari e, anche per questo, ci sentiamo protetti. E, spesso, non ci accorgiamo che le informazioni che condividiamo sulla nostra vita sono l’appiglio migliore per gli attacchi di chiunque sia intenzionato a infastidirci, spiarci o molestarci. Quando tale condotta è realizzata attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie, quali internet, posta elettronica, chat, sms e/o messaggistica istantanea, si parla di cyberstalking.

Il reato di stalking viene punito con una reclusione che va dai 6 mesi ai 4 anni, con aggravamenti di pena se il reato viene commesso da un coniuge o da un individuo legato sentimentalmente alla vittima. Nel 55% dei casi, infatti, lo stalking avviene all’interno di una relazione di coppia.

Per chiunque infastidisca o minacci una persona anche attraverso il web è prevista la condanna al carcere fino a 4 anni: mail ossessive, video e messaggi personali lanciati attraverso i social network non sono meno pericolosi, infatti, di telefonate assillanti e appostamenti sotto casa.

Cyberstalking: quali sono le motivazioni?

Trasversale a tutte le età e a tutte le condizioni socioculturali, il cyberstalking, la manifestazione più moderna ed evidente dell’incapacità di gestire una relazione sentimentale d’amore o d’amicizia, entra nella vita delle potenziali vittime da un monitor per rimanervi a lungo, a volte conducendo ad epiloghi tragici. La sicurezza sul web dipende soprattutto da chi lo utilizza: le persecuzioni telematiche si possono prevenire attraverso l’uso di semplici accorgimenti tecnici e di comportamenti che devono ispirare sempre la navigazione nel mondo di internet.

Il cyberstalker difficilmente passa all’aggressione fisica e l’effetto che ottiene via internet è lo stesso che nella vita reale: la vittima viene gettata lentamente ma inesorabilmente in uno stato di terrore ed è costretta a cambiamenti radicali nel proprio stile di vita per riconquistare la sua libertà.

Cyberstalking: cosa dice la Cassazione?

A tal proposito, si è pronunciata la stessa Corte di Cassazione che è arrivata addirittura a sostenere che insultare e inviare messaggi minatori su Facebook sempre alle stesse persone può integrare il reato di stalking e non quello meno grave di diffamazione, se le azioni sono in grado di provocare uno stato di ansia e di paura nei destinatari: nella vicenda in esame, l’uomo, al quale dopo la separazione dalla compagna, erano stati tolti due dei quattro figli, affidati ai nonni materni, aveva perpetrato una serie di condotte persecutorie nei confronti degli ex suoceri, seguendoli nei loro spostamenti, ingiuriandoli e denigrandoli anche su Facebook tanto da ingenerare in loro un grave stato di ansia e il timore per la propria incolumità. Inutile per l’imputato sostenere che al massimo i messaggi pubblicati sul social avrebbero potuto integrare soltanto il reato di diffamazione [2]. È in gioco molto di più.

Cyberstalking: come difendersi su Facebook?

Fare lo stalker su Facebook significa seguire tutto ciò che fa una persona sul social network, conoscere ogni movimento e click eseguito sia da PC sia da dispositivi mobili, come il cellulare. Ebbene, da un recente aggiornamento di Facebook è stata introdotta una funzione che rende tutto ciò un gioco da ragazzi. Stiamo parlando dell’introduzione del tasto “ricevi le notifiche”. Per attivare la ricezione delle notifiche di un amico/a basta passare sul tasto “amici” e spuntare la voce “ricevi le notifiche”. Da quel momento, ogni volta che quell’amico/a pubblica o fa qualcosa, chi ha attivato questa funzione riceverà una notifica sul proprio account.

Basta, poi, aggiungere quella persona alla lista degli “Amici più stretti” (quelli con la stella gialla) per ottenere lo stesso risultato. Aggiungendo l’amico (o amica) a questa lista si attiva inoltre automaticamente la ricezione di tutti gli aggiornamenti.

Si comprenderà che, nel momento in cui si inizia a sospettare di essere vittima di stalking via Facebook, occorre prendere delle precauzioni.

  1. Se non vuoi far vedere tutto quello che fai allo stalker ma vuoi lasciarlo nella tua lista degli amici puoi aggiungerlo alla lista degli amici con restrizioni. Questa lista è stata creata proprio per non permettere a tutti di vedere tutto quello che si fa su Facebook. Gli “amici ristretti” possono vedere solo i post e le informazioni condivise con il pubblico (con privacy pubblica); questo significa che se pubblichi qualcosa e la fai vedere solo agli amici, questa non potrà essere visualizzata da chi è all’interno della lista con restrizioni e chiunque abbia attivato la ricezione delle notifiche di cui parlavamo prima non riceverà alcuna notifica.
  2. La seconda opzione è quella più semplice: rimuovere l’amico. In questo modo, sarete certi che questo non riuscirà a vedere tutto ciò che fate a meno che non abbiate impostato il profilo pubblico, accessibile, cioè, a tutti.
  3. L’alternativa è la soluzione più drastica: il blocco; cliccando sull’icona a forma di lucchetto in alto a destra sulle pagine del sito alla voce “Qualcuno mi infastidisce. Come faccio a farlo smettere?” Così facendo, è possibile aggiungere chiunque all’elenco degli utenti bloccati dal nome o dall’indirizzo email. L’utente bloccato non riuscirà a vedere più nulla di voi su Facebook, non riuscirà a trovarvi o contattarvi e voi non riuscirete più a trovare lui. Tutti i commenti, “mi piace” e qualsiasi altro elemento (ad eccezione dei messaggi, che potranno solo essere consultati) spariranno dai vostri account. Prima di procedere al blocco è consigliabile segnalare l’utente a Facebook. E’ possibile segnalare quando un account Facebook viene usato in modo inappropriato e dire a Facebook che quella persona dà fastidio.

Infine, le forze dell’ordine (la Polizia Postale o i Carabinieri) restano a disposizione per qualsiasi molestia online, insulti o comportamenti indesiderati.


note

[1] Art. 612 bis cod. pen.

[2] Cass., sent. n. 21407, del 23.05.2016.

 

Suprema Corte di Cassazione

 

Sezione V Penale

 

Sentenza 16 dicembre 2015 – 23 maggio 2016, n. 21407

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. PEZZULLO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. SCARLINI E. V. S. – Consigliere –

Dott. MICHELI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

M.C., N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 1207/2015 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del 27/07/2015;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROSA PEZZULLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Mario Fraticelli che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Il Tribunale di Catania, con ordinanza ai sensi dell’art. 309 c.p.p., in data 27.7.2015 confermava l’ordinanza applicativa nei confronti di M.C. della misura del divieto di avvicinamento alle persone offese, G.P. e R. G. – con l’obbligo di mantenersi a una distanza di almeno 250 metri dall’abitazione delle stesse e con il divieto di comunicare con le predette persone offese con qualsiasi mezzo – in relazione al reato di cui all’art. 612-bis c.p., in danno delle predette p.o., genitori di G.V., ex convivente dell’indagato; in particolare, dopo la separazione dei conviventi, le pp.oo. erano state nominate dal Tribunale per i minorenni affidatarie di due dei quattro figli minori della coppia e l’indagato dal settembre 2014 al giugno 2015 li ingiuriava e denigrava anche attraverso il social network face-book, seguendone gli spostamenti, limitando la loro vita di relazione ed ingenerando un grave stato di ansia, nonchè il fondato timore per la loro stessa incolumità, tanto che, i medesimi coniugi G. evitavano di uscire di casa per paura di incontrarlo.
  1. Avverso la suddetta ordinanza, l’indagato ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore di fiducia, con il quale lamenta: la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per violazione del diritto di difesa, per avere il giudice della cautela posto a fondamento dell’ordinanza di rigetto fatti nuovi e, comunque, diversi da quelli illo tempore giustificanti l’emissione del provvedimento cautelare, a sostegno del fumus commissi delicti, nonchè fatti nuovi e, comunque, diversi da quelli contestati al ricorrente nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari; la violazione dell’art. 273 c.p.p. e segg., per difetto o illogicità della motivazione circa la sussistenza dei gravi indizi e/o delle esigenze cautelari; in particolare, il ricorrente, dopo aver ricostruito la sofferta vicenda della separazione, ha evidenziato che le accuse mosse al M. sono sufficientemente circostanziate, in quanto l’imputato avrebbe: a) minacciato, anche di morte, sia direttamente che attraverso messaggi via face-book G.P. e R.G.; b) ingiuriato e denigrato i medesimi; c) seguito gli spostamenti degli stessi, anche appostandosi sotto la loro casa, ingenerando complessivamente nelle persone offese e, quindi, nei figli minori P. e S., un grave stato di ansia nonchè il “fondato timore per la propria incolumità”; tali condotte risulterebbero provate dall’allegazione delle “schermate dei profili Facebook contenenti i messaggi incriminati e dalle denunce e i verbali di sommarie informazioni rese dalle persone offese”; quanto ai messaggi pubblicati sul social network face-book tuttavia gli stessi al più potrebbero integrare il reato di diffamazione, ma non quello di stalking, richiedendo in questo caso la minaccia o la molestia sul piano logico che il minacciato o il molestato faccia parte del novero degli “amici” di face-book; per quanto attiene, invece, la circostanza per cui il M. si sarebbe ripetutamente presentato presso l’istituto scolastico frequentato dai figli P. e D., insistendo per vederli e contrapponendosi con minacce e azioni violente al personale ausiliario intervenuto su richiesta degli insegnanti, non è dato comprendere in che cosa siano consistite le minacce ed azioni violente che sarebbero state indirizzate ai querelanti, come pure non sussiste alcuna prova certa che l’indagato avrebbe utilizzato il figlio maggiore A. per riferire a P. che il loro padre “li avrebbe ammazzati tutti”, così causando stato di terrore nel figlio.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile, siccome generico, confuso e comunque manifestamente infondato.

  1. Giova ribadire, innanzitutto, che l’ordinamento non conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonchè del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è, perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) – l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Cass. Sez. 6, sent. n. 2146 del 25.05.1995, Tontoli ed altro, Rv.

201840). In particolare, il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame dei provvedimenti coercitivi è diretto a verificare, da un lato, la congruenza e la coordinazione logica dell’apparato argomentativo che collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato e, dall’altro, la valenza sintomatica degli indizi. Ma tale controllo, stabilito a garanzia del provvedimento, non involge il giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e la concludenza dei risultati del materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici.

  1. In base ai suddetti principi deve rilevarsi come il provvedimento impugnato risulti immune dai vizi lamentati dal ricorrente, esponendo le ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato in assenza di illogicità. In particolare, il grave quadro indiziario nei confronti del M., è evincibile, secondo il Tribunale, dalle plurime acquisizioni investigative e segnatamente dalle “schermate facebook contenenti i messaggi incriminati”, dalle “denunce e verbali di sommarie informazioni rese dalle persone offese” che “offrono una narrazione adeguatamente circostanziata ed intrinsecamente coerente dei fatti, pur sfrondata da eventuali esagerazioni correlate al conflitto di interessi determinato dall’affidamento ai nonni dei due bambini P. e D.”, dalle relazioni degli assistenti sociali, dalle s.i.t. rese dalle persone informate sui fatti.

2.1. Va premesso che il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di “danno”, consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di “pericolo”, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015). La caratteristica fondamentale dell’incriminazione in oggetto è la reiterazione delle condotte che rappresenta il predicato dell’abitualità del reato, per la cui integrazione la giurisprudenza ha ritenuto sufficienti anche due sole condotte (Sez. 5, n. 46331 del 05/06/2013). Per l’integrazione del reato è irrilevante che le singole condotte siano o meno autonomamente perseguibili come reati, potendo altresì rilevare comportamenti non specificamente oggetto di norme incriminatrici di parte speciale – quali appostamenti, pedinamenti ecc. – purchè l’abitualità degli stessi si traduca nella percezione di atti persecutori idonei a cagionare uno degli eventi di danno previsti dalla norma. Quanto al profilo soggettivo, lo stalking è un reato abituale di evento assistito dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015).

2.2. Alla luce di tali premesse deve osservarsi come non meriti censura la valutazione effettuata dal Tribunale del riesame, secondo cui già in sè le dichiarazioni delle p.o. possono costituire prova della responsabilità dell’indagato, sempre che ne venga verificata l’attendibilità e nel caso di specie l’attendibilità delle p.o. è stata compiutamente considerata anche in relazione ai plurimi elementi di riscontro, quali ad esempio l’utilizzo di account intestati a soggetti di fantasia volti ad occultare la propria identità alle p.o., ovvero il contenuto delle relazioni delle assistenti sociali. Sulla scorta delle denunce in atti emerge che l’indagato ha ripetutamente ingiuriato e denigrato le pp.oo., ne ha seguito gli spostamenti, si è appostato sotto la loro abitazione, ne ha limitato la vita di relazione, ingenerando in loro un grave stato d’ansia, nonchè il fondato timore per la loro stessa incolumità, come evincibile dal certificato medico in atti. A fronte di plurimi episodi, sviluppatisi in un significativo arco temporale, il ricorrente svolge censure in fatto che non sono in grado di elidere i plurimi elementi a suo carico, posti a fondamento della misura coercitiva. La circostanza secondo cui i messaggi pubblicati sui social network face-book al più potrebbero integrare il reato di diffamazione, non si presenta significativa posto che il reato di atti persecutori tiene conto, così come già evidenziato, del fatto che viene in questione nella fattispecie di stalking la reiterazione delle condotte e non il singolo episodio che pur potendo in ipotesi integrare in sè un autonomo reato va letto nell’ambito delle complessive attività persecutorie.

Per quanto concerne, poi, gli elementi posti a fondamento del provvedimento di conferma della misura cautelare, si osserva che ben può il Tribunale valorizzare anche elementi diversi rispetto a quelli specificamente indicati nel provvedimento di applicazione della misura, sempre che rientranti tra gli elementi a lui trasmessi e conosciuti dall’indagato, siccome in atti.

  1. Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2016.


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