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Si può mandare in galera una persona solo con una denuncia?

4 Settembre 2016
Si può mandare in galera una persona solo con una denuncia?

Che valore ha la testimonianza della vittima in caso di reato:“È la sua parola contro la mia” non è un principio valido quando si ha a che fare coi reati: la dichiarazione della persona offesa vale come prova.

È possibile che le semplici dichiarazioni di una persona possano far andare in galera un’altra? In astratto sì. Spetta poi alla capacità del giudice comprendere se questa sta mentendo o meno. Per quanto inaccettabile a chi non è pratico del diritto, questo principio è il risultato di un’elaborazione giurisprudenziale ormai seguita in modo costante dai giudici e, da ultimo, da una recente sentenza della Cassazione [1]. Un orientamento che risulta difficile, per molti, da mandare già, ma senza il quale molti reati non verrebbero mai puniti: si tratta di quelli che si consumano “a tu per tu” (si pensi alla violenza sessuale, alla concussione, all’estorsione); in tali casi, infatti, è pressoché impossibile trovare testimoni, perché i misfatti vengono compiuti, di norma, in luoghi nascosti, inaccessibili al pubblico. Ma procediamo con ordine.

Prove nel processo penale: che valore ha la testimonianza della vittima?

Nel processo penale non vale la massima popolare “È la sua parola contro la mia” normalmente utilizzata per mettere in dubbio la colpevolezza di una persona quando le sue dichiarazioni non sono supportate da altri testimoni. Così quello che la vittima di un reato dice al giudice può condurre alla condanna del presunto colpevole. In altre parole, dopo che qualcuno afferma di essere stato oggetto di violenza, il tribunale può serenamente emettere una sentenza di colpevolezza anche senza sentire ulteriori testimoni. Sempre che le sue affermazioni appaiano verosimili. È proprio su quest’ultima locuzione che si gioca tutto, ossia la possibilità di usare – come prova – le dichiarazioni della vittima.

In pratica quel che dice il dichiarante deve risultare attendibile sotto due diversi aspetti:

  • uno oggettivo: è necessario che elementi esterni al contenuto delle dichiarazioni ne supportino la verità;
  • uno soggettivo: occorre che la persona offesa – pur ammesse incongruenze su elementi accessori e non decisivi ai fini dell’accertamento della verità dei fatti, giustificabili dalla lontananza dai tempi dei fatti in corso di accertamento – non abbia rilasciato dichiarazioni anche parzialmente artefatte. Siffatta seconda verifica assume un carattere più penetrante nella persona offesa che nel caso del semplice testimone.

Nella violenza sessuale vale di più la dichiarazione della vittima

Secondo la Cassazione [1], in caso di violenza sessuale, risulta attenuato l’obbligo di riscontro dell’attendibilità della vittima; pertanto le sole dichiarazioni di quest’ultima possono legittimamente fondare una sentenza di condanna. Il giudice deve però ben motivare le ragioni della condanna, spiegando perché ha ritenuto di dar valore alle affermazioni della (sola) parte offesa dal reato.


note

[1] Cass. sent. n. 35875/16.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 giugno – 31 agosto 2016, n. 35874

Presidente Rosi – Relatore Mengoni

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 31/3/2015, la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della pronuncia emessa il 20/6/2014 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ravenna, riduceva la pena inflitta a V.C. nella misura di quattro anni di reclusione; allo stesso era contestato di aver costretto M.A.P. a subire, con violenza, gli atti sessuali compiutamente indicati nel capo di imputazione.

Propone ricorso per cassazione il C., a mezzo dei proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

– violazione dell’art. 393, comma 2-bis cod. proc. pen.; inutilizzabilità degli atti di indagine depositati oltre i termini. La Corte di appello avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di nullità dell’incidente probatorio (a regime intermedio, tempestivamente dedotta) e quella di inutilizzabilità delle intercettazioni, sebbene del tutto fondate; ed invero, in violazione dell’art. 393, comma 2-bis, cod. proc. pen., con la richiesta di incidente probatorio non sarebbero stati depositati tutti gli atti di indagine compiuti e, segnatamente, gli esiti delle intercettazioni telefoniche depositate il 10/3/2014 dalla Questura di Ravenna alla Procura della Repubblica, ed il 12/3/2014 da questa alla cancelleria dei G.i.p.. Con la precisazione, peraltro, che tale Giudice avrebbe ammesso – quale integrazione alla richiesta di giudizio abbreviato – l’acquisizione non già di tutte le intercettazioni, come invece affermato dalla Corte di merito, ma soltanto di quelle trascritte dall’interprete nominata dal ricorrente. Sì che ogni riferimento ad intercettazioni diverse da quelle prodotte dalla difesa, contenuto nella sentenza, dovrebbe esser ritenuto viziato;

– inosservanza dell’art. 192 cod. proc. pen.; difetto motivazionale. La Corte di merito avrebbe confermato la condanna in ragione delle sole dichiarazioni della persona offesa, invero palesemente inattendibile con riguardo a plurimi elementi, tra i quali i rapporti con il cd. “zio” C. e le modalità di quanto accaduto il 13-14/7/2013. Elementi dai quali emergerebbe che la presunta violenza costituirebbe soltanto una «congettura vendicativa pianificata dal C. stesso»;

– inosservanza o erronea applicazione dell’art. 606, comma 2, lett. b), cod. proc. pen.; difetto motivazionale. La sentenza avrebbe applicato una sanzione eccessivamente severa, specie con riguardo alla pena base; ciò anche alla luce dei buon comportamento processuale del C., subito improntato a piena collaborazione processuale;

– inosservanza dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., per mancata riduzione della pena con riferimento al rito abbreviato prescelto.

Considerato in diritto

II ricorso risulta infondato, tranne che con riguardo all’ultimo motivo.

In ordine alla prima doglianza, rileva il Collegio che l’art. 393, comma 2-bis, cod. proc. pen. (inserito con la I. 15 febbraio 1996, n. 66) stabilisce che “con la richiesta di incidente probatorio di cui all’articolo 392, comma 1-bis, il pubblico ministero deposita tutti gli atti di indagine compiuti”; la norma richiamata, a sua volta, prevede che “nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 572, 600, 600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-quater, 609­quinquies, 609-octies, 609-undecies e 612-bis del codice penale il pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne ovvero della persona offesa maggiorenne, anche al di fuori delle ipotesi previste dal comma 1. In ogni caso, quando la persona offesa versa in condizione di particolare vulnerabilità, il pubblico ministero, anche su richiesta della stessa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della sua testimonianza”.

Con tale previsione, il legislatore ha dunque inteso imporre al pubblico ministero la piena discovery degli atti di indagine, a differenza degli altri casi di incidente probatorio ex art. 392 cod. proc. pen. con riguardo ai quali l’obbligo di deposito concerne soltanto le dichiarazioni rese in precedenza dalla persona da esaminare; eccezione giustificata dalla particolarissima rilevanza della regola in oggetto, e dal suo carattere derogatorio rispetto all’istituto, che assegna piena validità probatoria alla testimonianza del minore infrasedicenne o della persona offesa maggiorenne resa nel corso di un incidente probatorio disposto anche al di fuori dei casi di cui all’art. 392, comma 1, cod. proc. pen., e non subordinata alla reiterazione dell’esame in sede dibattimentale in forza dell’art. 190-bis comma I­bis cod. proc. pen. (per tutte, Sez. 6, n. 40971 del 26/9/2008, Cmber, Rv. 241624). Sistema normativo che, all’evidenza, si fonda sull’esigenza di rendere esaustivo il compimento dell’atto istruttorio in sede di incidente probatorio, al fine di facilitare la definitiva uscita del minore dal processo penale (Sez. 3, n. 6624 del 10/12/2013, D.S., Rv. 258855).

Qualora, poi, il pubblico ministero non ottemperi a questo obbligo di deposito, la violazione si traduce in una nullità a regime intermedio ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c), 180 cod. proc. pen., soggetta alle disposizioni in tema di deducibilità e sanatoria previste dagli artt. 182 e 183 cod. proc. pen..

Orbene, tutto ciò premesso, rileva il Collegio che la Corte di appello – pronunciandosi sulla medesima doglianza – ne ha rilevato l’infondatezza in forza di un solido ed adeguato percorso motivazionale e, soprattutto, di un insuperato dato di fatto; quello secondo cui, tra gli atti di indagine compiuti al momento della richiesta di incidente probatorio ex art. 393, comma 2-bis, cod. proc. pen., non c’erano le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche oggetto dell’eccezione medesima, poiché pacificamente depositate presso la Procura della Repubblica soltanto in epoca successiva (incidente probatorio effettuato il 2/12/2013; trascrizioni depositate il 10/3/2014).

Dal che, la palese assenza di qualsivoglia nullità sul contenuto dichiarativo dell’incidente probatorio e sugli atti successivi, come invece invocato dal ricorrente. E senza che, peraltro, assuma alcun peso la questione concernente l’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche medesime, invero limitata alle sole conversazioni di cui all’ordinanza dei G.i.p. a data 20/6/2014 (peraltro, indicate dallo stesso ricorrente proprio quale condizione alla richiesta del rito abbreviato), senza alcun rilievo processuale per le altre; sì da doversi ritenere irricevibile – anche per la palese genericità – l’asserzione di cui al ricorso secondo cui «ogni riferimento ad intercettazioni diverse da quelle prodotte dalla scrivente difesa all’udienza dei 20/6/2014, contenuto nella sentenza impugnata, deve esser ritenuto viziato».

Per quanto poi attiene al secondo motivo, in punto di responsabilità, lo stesso risulta parimenti infondato.

Al riguardo, occorre premettere che, per costante indirizzo di questa Corte, le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, sì che non operano le regole dettate dall’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni che confermino l’attendibilità delle parole medesime; tutto ciò, però, impone la verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca dei suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le parole di qualsiasi testimone (per tutte, Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell’Arte, Rv. 253214).

Questo principio, che trova applicazione sia in sede di merito che in quella cautelare (tra le altre, Sez. 5, n. 5609 del 20/12/2013, dep. 4/2/2013, Puente Suarez, Rv. 258870; Sez. 5, n. 27774 del 26/4/2010, M., Rv. 247883), non costituisce affatto l’affermazione di una presunzione di credibilità della persona offesa, ma, anzi, impone al Giudice di merito un severo e rigoroso vaglio della sua deposizione, da tradurre adeguatamente in motivazione, reso necessario alla luce dell’interesse di cui la stessa è naturalmente portatrice, specie se costituita parte civile, ed ai fine di escludere che ciò possa comportare una qualsiasi interferenza sulla genuinità delle sue parole (Sez. 3, n. 40849 del 18/7/2012, Rv. 253688; Sez. 1, n. 29372 del 24/6/2010, Stefanini, Rv. 248016).

Tale previsione di carattere generale deve essere poi rispettata, con particolare attenzione, allorquando l’oggetto del giudizio sia costituito da reati in materia sessuale, con riferimento ai quali è estremamente frequente l’assenza di qualsivoglia elemento a sostegno dell’accusa diverso dalle affermazioni della persona offesa; orbene, in queste ipotesi il Giudice è chiamato ad un impegno valutativo e motivazionale particolarmente attento e stringente, e deve quindi sottoporre la deposizione ad un’approfondita, positiva indagine sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa (per tutte, Sez. 4, n. 44644 dei 18/10/2011, F., Rv. 251661).

Orbene, tutto ciò premesso – e contrariamente all’assunto del ricorrente – ritiene la Corte che la sentenza impugnata abbia fatto buon governo di questi principi, confermando la condanna del C. con solido percorso argomentativo, privo di illogicità di sorta e, pertanto, non censurabile in questa sede.

In particolare – ed anche richiamando la sentenza del primo Giudice, alla quale l’altra si lega in un continuum motivazionale, attesa la cd. doppia conforme – il Collegio di appello ha sottolineato 1) la piena coerenza, linearità e costanza del narrato della Maria P. in ordine a quanto accaduto nel giorno di interesse, tale da integrare l’imputazione contestata; 2) la diretta constatazione, da parte degli agenti di Polizia, di una giovane – la persona offesa – molto agitata, piangente e con vistosi segni di arrossamento nella zona del collo; 3) la circostanza che la stessa Polizia fosse stata prontamente allertata; 4) il ritrovamento, sul posto, del coperchio per la batteria di un cellulare Nokia (a conferma delle parole della ragazza secondo cui il C. aveva gettato per terra il proprio apparecchio telefonico, che aveva preso a squillare durante la violenza); 5) l’immediata fuga del ricorrente medesimo dal posto in cui la condotta era stata consumata; 6) la constatazione, da parte dei sanitari, di lesioni coerenti con le modalità di aggressione descritte dalla persona offesa; 7) la circostanza che questa avesse riferito, ad uno di tali soggetti, di aver subito violenza. Da ultimo, e non certo per rilevanza, la Corte di appello ha sottolineato che la P. non si era costituita parte civile, così dovendosi escludere ogni pretesa meramente risarcitoria e, in definitiva, ogni ipotesi di denuncia calunniosa.

Un più che solido percorso motivazionale, dunque, che ha confermato il giudizio di attendibilità già espresso sulla persona offesa ed i riscontri alle sue parole; senza negare, peraltro, talune incongruenze dei narrato, legate però non alla descrizione del fatto-reato ma a circostanze a questo estranee, come i rapporti non del tutto chiari con il cd. “zio” C. o le ragioni effettive per le quali la ragazza era arrivata in Italia.

Una motivazione, ancora, che il ricorrente intenderebbe confutare con una nuova e diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito, invero riportate numerose nel gravame con riferimento a plurimi passaggi dichiarativi della donna (pagg. 7-9).

Il che, però, non è consentito in questa sede.

Ed invero, occorre ribadire che il controllo dei Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione delle vicende (tra le varie, Sez. 3, n. 46526 del 28/10/2015, Cargnello, Rv. 265402; Sez. 3, n. 26505 del 20/5/2015, Bruzzaniti ed altri, Rv. 264396).

Da ultimo, il motivo in punto di trattamento sanzionatorio.

Orbene, al riguardo rileva il Collegio che la sentenza – che ha ridotto la pena inflitta – ha steso una motivazione sintetica ma adeguata, richiamando il dolo d’impeto che aveva caratterizzato la condotta e le gravi circostanze del fatto (la ragazza era stata portata in una zona boschiva e li aggredita, fino al rapporto completo); ciò, peraltro, in uno con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, motivate con la condizione di «marginalità sociale» del ricorrente, e nell’ambito di una pena-base complessivamente non certo severa, perché individuata in poco più dei minimo edittale.

Ciò premesso, il ricorso risulta tuttavia fondato con riguardo alla mancata riduzione della pena nella misura di 1/3, imposta dal rito abbreviato prescelto.

La Corte di appello, infatti, ha riformato la pronuncia di primo grado riconoscendo le circostanze attenuanti generiche, ed ha così ridotto la pena da 6 anni di reclusione a 4 anni di reclusione; nessuna riduzione, invece, è stata poi apportata ex art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come invece dovuto. Trattandosi, però, di una decurtazione “rigida”, nei termini già indicati, la stessa può esser operata anche da questa Corte, sì da quantificare la pena finale nella misura di due anni ed otto mesi di reclusione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla mancata riduzione di un terzo della pena, conseguente al rito abbreviato, riduzione che applica, rideterminando la pena di anni due e mesi otto di reclusione; rigetta nel resto il ricorso.


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