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Il medico può rilasciare un certificato senza fare la visita?

27 Febbraio 2017 | Autore:
Il medico può rilasciare un certificato senza fare la visita?

Per poter rilasciare il certificato di malattia, il medico deve prima sottoporre a visita il malato.

Immaginiamo un dipendente che, sentendosi poco bene e non potendosi per questo recare al lavoro, ma non avendo nello stesso tempo le forze per andare allo studio del proprio medico di base per la visita di controllo, telefoni a quest’ultimo e gli chieda di inviare all’Inps il certificato attestante la malattia. Tanto gli serve, ovviamente, per poter attestare la giusta causa di assenza dal posto di lavoro. Lo può fare? Il medico convenzionato può compilare il certificato con l’attestazione della malattia senza aver prima visitato il proprio paziente?

La risposta è negativa. Più volte la Cassazione ha detto che viola il codice deontologico il medico che compila un certificato di malattia senza aver visitato il paziente. La sanzione per il sanitario può arrivare anche alla sospensione per un mese dall’esercizio della professione [1]. Il codice deontologico, infatti, richiede scrupolo e diligenza nella redazione di certificati medici in senso proprio; pertanto, non possono non essere vietati gli attestati che hanno la parvenza di certificati – anche se non certificano nulla – e che, proprio perché provengono da un medico e sono stati redatti su un modulario, previsto per la certificazione di malattia rispetto all’assenza dal lavoro, si prestano ad ingenerare il dubbio che l’assenza sia giustificata da una malattia accertata.

È dunque legittimo che il dottore, non potendo attestare il falso, pretenda che il paziente si rechi presso il proprio studio privato o, a seconda della gravità della malattia, sia egli stesso a fare la visita a domicilio prima del rilascio del certificato di malattia. Il medico avrà poi l’obbligo di inviare telematicamente il predetto certificato all’Inps.

In ogni caso è obbligo del lavoratore comunicare, in qualsiasi forma, all’azienda presso cui lavora, la propria indisponibilità. Tanto serve per consentire al datore di riorganizzare la produzione e non avere pregiudizi dall’assenza improvvisa di uno dei suoi dipendenti. La stessa giurisprudenza ha più volte detto che, anche se la malattia è sussistente e certificata dal medico, compie un illecito disciplinare il lavoratore che non comunichi tempestivamente all’azienda, prima ancora dell’invio del certificato medico all’Inps, la propria malattia.

Addirittura, sempre secondo la Cassazione [2], la condotta del medico convenzionato che rilascia il certificato di malattia senza aver visitato il paziente malato può integrare, non solo un illecito disciplinare, ma anche un reato: quello di falso ideologico [3]. Del resto non dimentichiamo che il medico convenzionale è un pubblico ufficiale e il suo certificato è un atto pubblico: come tale non può essere rilasciato senza la verifica dei relativi presupposti o semplicemente sulla base di dichiarazioni comunicate per telefono. La falsa attestazione contestata al medico non attiene alle effettive condizioni di salute del paziente, bensì al fatto che il sanitario ha emesso un certificato senza effettuare una previa visita.

Anche al paziente che utilizza un certificato di malattia rilasciato dal proprio medico senza la previa visita si aprono le porte del procedimento penale. I giudici supremi [3] ritengono infatti che il reato contestabile al dipendente che si faccia rilasciare un certificato senza visita sia quello di uso di atto falso.

Lo stesso vale anche per la proroga del certificato medico: se dunque il dottore conosce lo stato di malattia del proprio assistito ha comunque l’obbligo di effettuare ulteriori visite se intende far slittare la data di rientro sul lavoro. La Suprema Corte si è espressa, a riguardo, nei seguenti termini: «Nel caso della redazione di un certificato di proroga di prognosi senza aver visitato il paziente, il medico di base risponde del delitto di falsità ideologica commessa in certificati amministrativi, mentre a carico del paziente è configurabile il delitto di uso di atto falso e sono del tutto irrilevanti le considerazioni sulla effettiva sussistenza della malattia o sulla induzione in errore da parte del paziente».


note

[1] Cass. sent. n. 3705/2012.

[2] Cass. sent. n. 18687/2012. «D’altra parte, la possibilità per il medico di emettere una ricetta, pur non avendo visitato il proprio assistito, sembra essere consentito per espressa previsione normativa, dall’art. 36, co. 2, d.P.R. 28 luglio 2000, n. 270,Regolamento di esecuzione dell’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, secondo cui: « il medico può dar luogo al rilascio della prescrizione farmaceutica anche in assenza del paziente, quando, a suo giudizio, ritenga non necessaria la visita del paziente». Ciononostante, la sezione V afferma in modo netto la rilevanza penale della condotta tenuta dal medico, superando anche il rilievo difensivo circa l’operatività della previsione di cui all’art. 48 c.p., con esclusione della responsabilità del medico». Così Riv. it. medicina legale (dal 2012 Riv. it. medicina legale e dir. sanitario), fasc.3, 2012, pag. 1265 di G. Rotolo che così prosegue: «Affermata l’illiceità della condotta del medico, la Corte ritiene di non dover approfondire l’eventuale sussistenza dei requisitti necessari all’applicabilità della norma invocata e, in particolare dell’induzione in errore determinata dalla falsa attestazione del privato (sui profili di rilevanza della norma rispetto ai delitti di falso si vedaA. Nappi,Autore mediato e falsità ideologica in atto pubblico, inRiv. it. dir. proc. pen., 1982, pp. 337 ss.). A tal riguardo, tuttavia, un’indagine sul punto avrebbe dovuto concentrarsi sulla compatibilità del carattere verosimile dell’affermazione – tanto da risultare coerente con la prima diagnosi del medico e, quindi, convincerlo dell’opportunità di confermarla con l’emissione di un nuovo certificato – con l’idoneità della stessa a indurlo in errore, come richiesto dall’art. 48 c.p. È pacifico, infatti, che la condizione psichica dell’autore « immediato » debba essere causalmente collegata alla condotta deldecipiens(per tutti M.Romano,Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Giuffrè, Milano, 2004, subart. 48, pp. 505-506; esplicitamente sul punto S.Prosdocimi, subart. 48, in G.Marinucci – E. Dolcini(a cura di),Codice penale commentato, Ipsoa, Milano, 2011, p. 633) e, considerando l’ipotetica rilevanza dell’istituto rispetto a reati di falso, risulta di immediata evidenza come sia richiesto che anche l’antecedente causale dell’errore debba consistere in una falsa rappresentazione della realtà (A.Nappi,Autore mediato, cit., p. 342)».

[3] Art. 480 cod. pen.

Autore immagine: 123rf com

Cassazione penale, sez. V, 02/02/2012, (ud. 02/02/2012, dep.15/05/2012), n. 18687

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1.B.D. è stato ritenuto responsabile dalla corte di appello di Milano del reato di cui all’art. 480 c.p., in qualità di medico di base convenzionato con il servizio sanitario nazionale e quindi pubblico ufficiale, rilasciava un certificato medico di proroga del prognosi a favore di G.V. senza averla previamente visitata.

2.G.V., a sua volta, veniva ritenuta responsabile del reato di cui all’art. 489 c.p., per aver fatto uso della certificazione di cui sopra, pur conoscendone la falsità.

3.La corte d’appello di Milano sovvertiva la pronuncia di primo grado, che aveva assolto entrambi gli imputati rispettivamente per difetto dell’elemento soggettivo e per insufficienza della prova di colpevolezza.

4.Con due distinti atti propongono ricorso entrambi gli imputati;

B.D. con un unico motivo denuncia omessa valutazione dell’elemento psicologico del reato ed in particolare sostiene che il medico avrebbe concesso la proroga sulla base di quanto accertato nella visita effettuata quattro giorni prima, per cui non sarebbe corretto ritenere che egli ha effettuato una valutazione di persistenza della malattia senza visitare la paziente. I sintomi comunicatigli telefonicamente dalla paziente sarebbero stati compatibili con la malattia accertata pochi giorni prima e pertanto il medico legittimamente avrebbe effettuato la modifica della prognosi sulla base di quanto dichiarato per telefono dalla signora G.. Infine, si afferma che l’intera durata della prognosi era già contenuta nel primo certificato medico e comunque che il medico non era nella consapevolezza e soprattutto non voleva certificare fatti non corrispondenti al vero, essendo semmai stato tratto in errore dalle dichiarazioni della paziente; comunque, la condotta può essere ai limite sorretta dall’elemento colposo e dunque non configura alcun reato, posto che il nostro sistema giuridico ignora del tutto la figura del falso documentale colposo.

5.G.V., sulla considerazione di inesistenza del reato contestato al sanitario, e cioè del falso certificato, ne deduce la consequenziale inesistenza del reato a lei contestato di uso della falsa certificazione. In particolare, non sussisterebbe il reato contestato al medico in quanto costui, sulla scorta dei proprio sapere medico maturato un’esperienza pluridecennale e sulla base della visita medica effettuata pochi giorni prima in occasione della prima certificazione, poteva legittimamente ritenere, in scienza e coscienza e sulla base di quanto riferito dalla paziente, ancora sussistente la malattia. In sostanza, secondo la ricorrente non sarebbe necessaria l’effettuazione di un’ulteriore visita qualora il sanitario ritenga di essere in possesso aliunde di adeguati strumenti diagnostici. Il reato contestato alla G., dunque, sarebbe ipotizzabile solo se si ritenesse non veritiera la persistenza della malattia, ma tale aspetto non è emersa prova sufficiente.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il ricorso proposto da B.D. è infondato. Si deve prima di tutto precisare che la falsa attestazione attribuita al medico non attiene tanto alle condizioni di salute della paziente, quanto piuttosto al fatto che egli ha emesso il certificato senza effettuare una previa visita e senza alcuna verifica oggettiva delle sue condizioni di salute, non essendo consentito al sanitario effettuare valutazioni o prescrizioni semplicemente sulla base di dichiarazioni effettuate per telefono dai suoi assistiti. Ciò rende irrilevanti le considerazioni sulla effettiva sussistenza della malattia o sulla induzione in errore da parte della paziente. Quanto, poi, alla asserita natura colposa della condotta, ci si chiede come il medico potesse non essere consapevole del fatto che egli stava certificando una patologia medica senza averla previamente verificata, nell’immediatezza, attraverso l’esame della paziente. Su tutti gli aspetti censurati dal ricorrente vi è, comunque, idonea e logica motivazione in atti, per cui non è consentito a questa Corte sostituirsi al giudice del merito nelle valutazioni discrezionali a lui riservate (si vedano, ad esempio, le pagine 4 e 5 della sentenza di appello ed in particolar modo la sentenze di questa stessa sezione citate alla pagina quattro, in merito alla implicita attestazione dell’accertamento diagnostico).

2.Anche il ricorso proposto da G.V. è infondato. Il motivo di censura si basa esclusivamente sulla ritenuta insussistenza della falsità del documento e dunque sulla inesistenza del reato contestato al medico. Sul punto, quindi, è sufficiente richiamare ie considerazioni espresse al capoverso precedente; una volta ritenuta la falsità della certificazione medica, ne discende necessariamente la responsabilità della ricorrente per aver fatto uso dell’atto falso.

3.In virtù di quanto sopra, entrambi i ricorsi devono essere rigettati.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2012


Cassazione civile, sez. III, 09/03/2012, ud. 16/01/2012, n. 3705

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.Il Consiglio dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Milano irrogava al Dott. M.M. la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per mesi uno, ritenendo violato l’art. 24 codice deontologico in riferimento alla redazione di certificati di malattia.

2.La Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie rigettava il ricorso proposto dal medico (decisione del 9 agosto 2010).

3.Avverso la suddetta decisione il Dott. M. ricorre per cassazione, con due motivi, esplicati da memoria.

Resiste con controricorso l’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Milano.

Il Ministero della salute e il Procuratore della Repubblica di Milano, ritualmente intimati, non svolgono difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.La decisione impugnata, preso atto che – come riconosciuto dallo stesso medico – questi aveva redatto, a richiesta del paziente, sul modulario ufficiale, certificati attestanti le patologie patite in giorni precedenti, come riferite dallo stesso, senza alcun accertamento medico – riteneva integrata la violazione dell’art. 24 codice deontologico per avere il medico rilasciato, quantomeno con superficialità, una certificazione diversa da quella autorizzata dalla normativa, nonostante fosse ragionevolmente chiaro il fine del paziente di giustificare le precedenti assenza dal lavoro.

Riteneva congrua la sanzione in ragione della gravità del comportamento, emergente dall’utilizzo del modulario e dalla mancata percezione della gravità dello stesso da parte del medico.

2.Con il primo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 24 codice deontologico, concernente i certificati medici, per essere stato applicato in una fattispecie in cui è pacifico che il medico non ha certificato nulla, ma ha solo attestato le dichiarazioni dei paziente, comportamento non vietato dalla suddetta disposizione.

Con il secondo, si deduce contraddittorietà della motivazione per aver riconosciuto la violazione del suddetto articolo, che obbliga il sanitario a comportamenti rigorosi quando rilascia una certificazione, pur riconoscendo che quella rilasciata dal medico era diversa, nonchè per aver riconosciuto congrua la misura della sanzione, sulla base dell’atteggiamento tenuto dal medico nel corso del giudizio.

3.Per la stretta connessione, i due motivi vanno trattati congiuntamente.

La censura svolta, sotto il duplice profilo suddetto, si incentra sulla mancanza dei caratteri che individuano un certificato medico in quelli redatti dall’incolpato, i quali sarebbero qualificabili come “certificati anamnestici”. Contenendo questi ultimi solo quanto riferito dal paziente in ordine al proprio stato di salute nei giorni precedenti alla visita, non potrebbero essere qualificati “certificati”, ai sensi del generale precetto deontologico (art. 24), che individua i certificati come attestanti dati clinici constatati e documentati e ne prescrive la diligente e corretta compilazione, con la conseguenza che la loro redazione non sarebbe sanzionabile.

3.1. La censura va rigettata.

Il fatto e, cioè, l’attestazione su modulano ufficiale che, secondo quanto riferito dal paziente, lo stesso si era assentato dal lavoro “per malattia”, “per indisposizione”, è stato ragionevolmente sussunto nella norma prevista dal codice deontologico, prima in sede amministrativa, poi dal giudice speciale previsto dall’Ordinamento.

La riconducibilità di tali certificati nell’area precettiva dell’art. 24 discende da considerazioni logiche, oltre che dalla funzione del certificato per incapacità al lavoro, redatto dal medico di famiglia.

Se il codice deontologico richiede scrupolo e diligenza nella redazione di certificati medici in senso proprio, non possono non essere vietati gli attestati che, come nella specie, hanno la parvenza di certificati – anche se non certificano nulla – e che, proprio perchè provengono da un medico e sono statti redatti su un modulario, previsto per la certificazione di malattia rispetto all’assenza dal lavoro, si prestano ad ingenerare il dubbio che l’assenza sia giustificata da una malattia accertata.

Di tutta evidenza è, poi, la non ipotizzabilità – già da un punto di vista logico – di un certificato “anamnestico”, nel quale la ricognizione di precedenti stati patologici riferiti dal paziente sia finalizzata, non al medico per pervenire ad una diagnosi attuale delle patologie in atto, ma alla giustificazione di una assenza dal lavoro.

D’altra parte, proprio la disciplina – nell’ambito delle convenzioni tra Servizio Sanitario Nazionale e medici di famiglia – della certificazione per incapacità al lavoro su moduli (da inviare al datore di lavoro e all’ente previdenziale), rende evidente gli obblighi del medico, connessi alla sua funzione di certificatore di patologie riscontrate, al fine di scongiurare comportamenti illeciti.

3.2. Quanto alla congruità della sanzione inflitta, la motivazione, basata proprio sull’utilizzo dei modulari e sulla mancanza di consapevolezza della gravità del fatto, desunta dalla convinzione della possibilità di poter redigere certificati “anamnestici”, è immune da vizi logici.

4.Non merita accoglimento la richiesta del ricorrente, avanzata con memoria, di disporre la cancellazione dal controricorso della espressione: “così inesorabilmente sporcando il proprio camice di medico”. Infatti, la stessa non esula completamente dalla materia del contendere e dalle esigenze difensive, considerata la natura del procedimento disciplinare volto a salvaguardare, attraverso la repressione dei comportamenti contrastanti, proprio il prestigio e il decoro della professione.

5.In conclusione, il ricorso va rigettato; le spese del processo di cassazione seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso; condanna M.M. al pagamento, in favore del Consiglio dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Milano, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.600,00, di cui Euro 2.400,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2012


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1 Commento

  1. La diagnosi di malattia è effettuata, nel 90% dei casi, sulla base della anamnesi. La visita del paziente spesso aggiunge elementi non decisivi. La diagnosi è quasi sempre presuntiva:per una diagnosi di certezza, anche nel caso di banale influenza, andrebbero fatti accertamenti ineseguibili nella pratica quotidiana. In periodo epidemico i media, il ministero ecc consigliano vivamente i malati di chiamare il medico solo in casi particolari per evitare il blocco completo delle attività sul territorio. Solo per redigere un certificato il medico dovrebbe recarsi al domicilio del paziente impegnando il suo prezioso tempo per espletare un obbligo burocratico per lo meno pleonastico? L’ alternativa da me proposta a quello che, per necessità, il 100% dei mmg fanno (redigere il certificato sulla base della parola del paziente senza alcuna visita) e cioè allegare, nei certificati medici telematici, nello spazio dedicato alla diagnosi la dicitura “ diagnosi effettuata con consultazione telefonica” non è stata ritenuta possibile e lo capisco. Però, una volta terminato l’ orario di lavoro senza aver potuto accedere alle decine di visite richieste appunto per la certificazione, l’ alternativa è quella di invitare il paziente a rivolgersi alla continuità assistenziale per la certificazione. Si tratta di centinaia di chiamate solo per la certificazione!! Capisco che i giudici supremi deliberano in base ad approfondite valutazioni giurisprudenziali, a finissime elaborazioni giuridiche e quant’ altro,
    ma un po’ di buon senso? Un po’ di attenzione per chi lavora in trincea?
    Vi ringrazio per lo spazio che mi avete dedicato

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