Il giudice può considerare una mail come una prova, ma esistono diverse varianti da prendere in considerazione. Per sua natura, il messaggio elettronico è soggetto a modifiche che impediscono di considerarlo completamente attendibile.
Lo sai che? Pubblicato il 22 luglio 2017
Non sempre una mail ordinaria vale come prova: sarà il giudice, in base alle circostanze, a valutare che valenza può avere nell’ambito di un processo.
Non sempre una mail vale come prova. Secondo quanto affermato dal Tribunale di Pesaro [1] una mail semplice è un documento informatico privo di firma e può provare i fatti e le cose contenuti al suo interno solo se colui contro il quale sono prodotte (in genere il mittente) non le contesta tempestivamente, disconoscendone la conformità ai fatti o alle cose medesime. In pratica, se non afferma il contrario.
Per capirci, ipotizziamo che una persona dia dei soldi a un amico scrivendogli per email che si tratta di un regolo. Dopo un po’, lo stesso si rimangia la parola e inizia a pretendere la somma. Quella mail, in un’eventuale giudizio, secondo quanto detto dalla sentenza del Tribunale di Pesaro, potrebbe non avere alcun valore se il mittente ne contesta la paternità e quindi la provenienza.
Il vicenda trattata dalla sentenza è analoga all’esempio appena fatto: due società – Alfa e Beta – stipulavano un contratto per il montaggio di infissi e Alfa emetteva delle fatture. Beta sosteneva di non dovere nulla perché, tra loro, c’era stata una transazione che, però, Alfa contestava. Beta, per provare la sua tesi, esibiva delle mail intercorse tra loro.
Può una semplice mail trasformarsi in una vera e propria prova? Se io dico al mio amico per mail che non mi deve più restituire i soldi che gli ho prestato e poi mi tiro indietro, basterà quella mail al giudice per liberare il mio amico dall’ipotetico debito? Nel caso della sentenza, basterà quella mail a Beta per non sganciare un euro ad Alfa?
Tutti sanno, ormai, che la posta elettronica certificata ha valore di prova scritta: un indirizzo pec permette di avere le stesse garanzie e caratteristiche della normale raccomandata a.r. e, in un eventuale giudizio, si potrà facilmente dimostrare la spedizione della comunicazione, la sua ricezione, la data e l’ora di invio. Ma a noi interessa capire cosa accade con una mail ordinaria.
A tal proposito, nel corso del tempo si sono delineati due contrapposti orientamenti:
Questa seconda tesi viene bocciata nel caso delle due società per una questione molto elementare: è vero che per accedere alla casella di posta elettronica bisogna prima autenticarsi, tramite l’inserimento di uno user e della relativa password ma tutti sanno che è possibile memorizzare queste informazioni in modo tale da consentire l’accesso immediato alla posta. E chi ci garantisce, in questi casi, che chi ci risulta aver inviato il messaggio sia davvero il suo reale mittente? Esempio classico: Tizia e Caia sono sorelle, Caia ha telefonato a Tizia dicendole che nel posto in cui si trova non c’è una connessione internet e lei deve inviare urgentemente una mail. Tizia, così, accede alla casella di posta della sorella dal momento che i dati identificativi sono stati memorizzati e invia la mail al posto suo. Il destinatario si ritrova una mail mandata da Caia ma che, in realtà, è Tizia ad aver inviato.
In sostanza, nei casi in cui si ponga il problema della valenza probatoria di una semplice mail, è il giudice ad avere il compito di valutare nel caso concreto se l’e-mail prodotta in giudizio possa considerarsi attendibile, anche in relazione agli altri elementi probatori acquisiti.
Il giudice può considerare una mail come una prova, ma esistono diverse varianti da prendere in considerazione. Per sua natura, il messaggio elettronico è soggetto a modifiche che impediscono di considerarlo completamente attendibile.
[1] Trib. Pesaro sent. n. 215 del 18.04.2017.
[2] Art. 2712 cod. civ., così come modificato ex art. 23-quater d. lgs. n. 82 dello 07.03.2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale).
Fonte della sentenza: lesentenze.it
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