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Se l’azienda non fa lavorare un dipendente è responsabile?

27 Novembre 2017
Se l’azienda non fa lavorare un dipendente è responsabile?

Demansionamento il comportamento del datore che impone al dipendente a una forzata inattività con svuotamento di compiti.

Seduto su una sedia senza far nulla. È così che, di fatto, stai da un paio di mesi a questa parte, da quando il tuo datore di lavoro ti ha assegnato a una diversa mansione con la scusa che i tuoi vecchi compiti non sono più necessari e possono essere distribuiti ad altri impiegati di livello inferiore al tuo. Il passaggio di scrivania è stato giustificato come un recupero in extremis, alternativa obbligata a un licenziamento quasi certo. Tuttavia a te sembra che, dietro tutta questa manovra, ci sia solo un atteggiamento persecutorio nei tuoi riguardi. La volontà di svuotarti delle  precedenti mansioni, per far perdere di importanza e rilievo, nell’ambito dell’azienda, la tua figura è una forma di “persuasione occulta” volta a farti dimettere. Cosa che non vuoi fare assolutamente. Ma stare con le braccia conserte non fa parte della tua natura e vuoi capire se puoi fare qualcosa per tutelarti o meno. Quali sono i tuoi diritti? Se l’azienda non fa lavorare un dipendente è responsabile? Gli deve pagare il risarcimento del danno? La risposta è stata fornita dalla Cassazione in una recente sentenza [1].

Non c’è bisogno di adibire il lavoratore a mansioni inferiori per umiliarlo e svilirne la professionalità. Il cosiddetto «demansionamento» non scatta solo quando il dipendente viene “abbassato di grado”, ma anche quando, pur rimanendo allo stesso livello di inquadramento, venga svuotato dei propri compiti. Insomma se il datore non ti fa lavorare e ti condanna a una forzosa inattività è responsabile. Responsabilità che comporta ovviamente l’obbligo del risarcimento del danno nei confronti del dipendente. Se questi poi accusa anche uno stress psicologico ed emotivo viene indennizzato anche dall’Inail con la rendita per il danno non patrimoniale.

Perché ciò si realizzi, è però necessario che il demansionamento abbia l’effettivo scopo di svalutare la professionalità acquisita negli anni dal dipendente, mortificarlo, costringerlo indirettamente ad andare via o a mal tollerare le ore di “non-lavoro”. Certo, se il datore adibisce il dipendente alla cassa e il negozio non ha clienti, non è certo colpa di nessuno se il lavoratore non batte uno scontrino.

Inoltre ci deve essere una effettiva incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione nell’ambito aziendale.

Così la Corte di cassazione ha respinto il ricorso di una Spa condannata dai giudici di merito a risarcire una dipendente inquadrata nella qualifica superiore ma che di fatto era stata messa a spedire solo qualche lettera. Il Collegio di legittimità ha motivato la sua decisione precisando che l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni corrispondenti a quelle di assunzione o equivalenti a quelle precedentemente svolte, sancito dal codice civile [2], è un obbligo per il datore di lavoro. Tale obbligo sussiste anche in caso di reintegrazione sul posto eseguita a seguito di una sentenza che abbia annullato il licenziamento e al successivo ordine del giudice di reintegra.

Il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore. Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, violando le disposizioni di legge, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. Il lavoratore può sempre chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione – anche provvisoria – del rapporto, recedere dal contratto per giusta causa.


note

[1] Cass. sent. n. 27930/17.

[2] Art. 2103 cod. civ.


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