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Il dipendente deve firmare la lettera consegnata dal datore?

11 Gennaio 2018
Il dipendente deve firmare la lettera consegnata dal datore?

Possibile rifiutarsi di ricevere o firmare per accettazione una comunicazione aziendale consegnata a mani dal datore di lavoro?

Il datore di lavoro ti vuol punire per un comportamento inappropriato di cui, a suo dire, ti saresti macchiato durante le attività. Ne è nato subito un diverbio verbale: secondo il tuo punto di vista, il responsabile non sei tu ma altri colleghi. Lui però non ne vuol sapere e ha fatto preparare una lettera ufficile di contestazioni nei tuoi riguardi. Ti ha così chiamato e consegnato il foglietto a mani, chiedendoti di firmargli una seconda copia «per ricevuta e accettazione». Visti i climi incandescenti e il litigio in atto ti sei rifiutato di sottoscrivere la copia. «La voglio per raccomandata» hai detto solo per ostruzionismo e per prendere tempo. Il capo ti ha fatto notare che, in quanto suo dipendente, hai un dovere di collaborazione e di lealtà che ti impedisce di opporre ostacoli o altre sabotazioni: il tuo comportamento servirebbe solo a rallentare il procedimento disciplinare, ma non a bloccarlo, tantopiù che il diritto alla difesa verrebbe sempre rispettato, essendoti stati dati cinque giorni – come legge richiede – per presentare delle controdeduzioni. Dal canto tuo sostieni che nessuno ti può obbligare a mettere una firma e che la libertà personale resta ineliminabile. Chi dei due ha ragione? Il dipendente deve firmare la lettera consegnatagli dal datore oppure può anche rifiutarsi? La risposta è stata fornita da una sentenza della Cassazione [1] che non molti conoscono. Val la pena quindi ripercorrere la motivazione dei supremi giudici e capire quelle che sono le ragioni che stabiliscono diritti e limiti del dipendente di ricevere atti a mano dall’azienda.

Il tema è particolarmente sentito nella pratica: sono numerose le ipotesi (specie nelle aziende di piccole dimensioni) di “consegna a mano” delle lettere disciplinari, le buste paga, le contestazioni e anche i licenziamenti, spesso però rifiutate dal lavoratore che ritira la lettera ma non ne rilascia ricevuta o che rifiuta anche solo di prenderla in mano. Val la pena ricordare tuttavia che il dipendente è legato da un patto di fedeltà e collaborazione con il datore che gli impedisce di opporre rifiuti “per partito preso”, ossia senza valide ragioni che non siano collegabili all’esercizio dei propri diritti. Questo significa – sostiene la Corte – che, se in linea di massima, nessuno può essere obbligato a firmare un atto, per quanto a lui stesso indirizzato (tanto è vero che l’automobilista non deve per forza sottoscrivere la contravvenzione che gli viene consegnata dalla pattuglia di polizia al momento dell’infrazione) ciò non vale negli ambienti di lavoro. Il lavoratore subordinato – detto in parole povere – ha un vero obbligo di ricevere comunicazioni a mano in forza del vincolo che lo lega al datore e che comporta, per ragioni funzionali al rapporto di lavoro, una soggezione all’azienda.

Detto ciò, il dipendente può rifiutarsi di firmare la lettera consegnatagli a mano dal datore? In linea di principio no. E lo ribadiamo con le stesse parole della Cassazione: «non esiste, in termini generali ed incondizionati, l’obbligo, o l’onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro e durante l’orario di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto (così come non può escludersi un obbligo di ascolto, e quindi anche di ricevere comunicazioni, da parte dei superiori del lavoratore)».

È quindi illegittimo il rifiuto opposto dal lavoratore a ricevere la lettera di licenziamento che il datore intende consegnargli a mano all’interno della struttura nella quale lavorava e durante l’orario di lavoro.

In ogni caso la prova che l’atto scritto di licenziamento o di contestazione disciplinare (in ipotesi rifiutato dal lavoratore) sia stato consegnato rimane a carico del datore di lavoro che, eventualmente, potrà dimostrarlo – in assenza di «firma per ricevuta e consegna» da parte del destinatario – con testimoni o con altri comportamenti posti dal lavoratore (ad esempio una lettera di replica a quella consegnata a mano).

Insomma: la trasmissione della lettera può avvenire anche con forme svariate (anche via e-mail o Whatsapp), ma vi deve essere rigorosa prova che la trasmissione è stata reale ed effettiva.


note

[1] Cass. sent. n. 29753/2017.

[2] L. n. 604/1966.

[3] Cass., sent. 23061/2007.

[4] Trib. Catania, ord. del 27.06.2017.

Cassazione civile, sez. lav., 05/11/2007, (ud. 06/06/2007, dep.05/11/2007),  n. 23061 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Dr. C.R. ha convenuto in giudizio la ASL di Pavia chiedendo che venisse dichiarata l’illegittimità del recesso operato dall’azienda per mancato superamento del periodo di prova e che venissero disposte le condanne che ne conseguivano.

Il primo giudice respingeva la domanda, e questa pronunzia veniva confermata dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza n. 226, in data 13 marzo 2003 / 18 marzo 2004, pronunziata nei confronti sia dell’Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Pavia sia dell’Azienda Ospedaliera della Provincia di Pavia, questa ultima nuovo soggetto giuridico che aveva assorbito, tra l’altro, l’Unità Operativa in cui aveva prestato servizio il Dr. C..

Avverso la sentenza, che non risulta notificata, il Dr. C. ha proposto ricorso per Cassazione, con tre motivi, notificato, in termine, il primo luglio 2004, nei rispettivi domicili eletti, sia all’Azienda Sanitaria Locale che all’Azienda Ospedaliera. Entrambe le aziende intimate resistono con appositi controricorsi, notificati, rispettivamente, il 23 luglio 2004, in termine, dall’Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Pavia, ed il 28-30 luglio 2004, ugualmente in termine, dall’Azienda Ospedaliera della Provincia di Pavia.

Il ricorrente, infine ha depositato una memoria difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La sentenza ha ritenuto che la prova avesse una durata di sei mesi di effettivo servizio, che con questa espressione si intendevano ricompresi nel computo soltanto i giorni effettivamente lavorati, e che era risultato dall’istruttoria che il periodo di prova terminava, appunto dopo sei mesi, il 12 settembre 2000 e che in questa data il Dr. C. aveva comunicato che non intendeva dimettersi – possibilità, questa ultima, che gli era stata prospettata come alternativa al licenziamento – e si era rifiutato di ricevere la lettera di licenziamento.

La Corte d’Appello di Milano ha ritenuto, inoltre, in diritto, che la L. n. 604 del 1966, art. 2 non prescrivesse particolari forme per la consegna dell’atto di licenziamento, e che, in dipendenza del potere disciplinare e direttivo cui era sottoposto, il lavoratore fosse tenuto, di massima (ed anche in questo caso specifico), a ricevere comunicazioni sul posto di lavoro, e che perciò il rifiuto di ricevere l’atto da parte del destinatario non escludesse che la consegna dovesse ritenersi avvenuta.

Nè era necessaria una specifica motivazione del recesso trattandosi di licenziamento in prova.

2. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1334 e 1362 e segg. c.c., in relazione all’art. 2906 c.c., alla L. n. 604 del 1966, art. 10 ed all’art. 14 del contratto collettivo di settore del quadriennio 1998 – 2101 – da sindacarsi in sede di legittimità sotto il profilo della violazione delle regole contrattuali e del vizio di motivazione – ed infine all’art. 112 c.p.c..

Il ricorrente sottolinea che il periodo di prova era iniziato il primo marzo 2000, con la durata di sei mesi.

Critica la sentenza della Corte d’Appello per avere ritenuto che questo periodo, di sei mesi di servizio effettivo, dovesse comprendere nel computo del relativo arco temporale soltanto i giorni effettivamente lavorati.

Sostiene che, invece, in base alla contrattazione collettiva il periodo di prova era sospeso in caso di assenza per malattia e negli altri casi espressamente previsti dalla legge o dai regolamenti vigenti ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 72.

Il periodo di prova non era interrotto, invece, dalla fruizione di un periodo di ferie.

3. Nel secondo motivo di impugnazione il Dr. C. denunzia, sotto un altro profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1334 e 1362 e segg. c.c. in relazione all’art. 2906 c.c., alla L. n. 604 del 1966, art. 10 l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ed infine l’omesso esame dell’istruttoria testimoniale.

Con espresso riferimento ai fatti accaduti tra le parti il 12 settembre 2000 contesta l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui lui, C., aveva rifiutato di ricevere la lettera di licenziamento.

Aveva soltanto detto che non intendeva dimettersi, ma non aveva rifiutato di ricevere la lettera di licenziamento.

Quando era stato sollecitato a dimettersi ed aveva risposto che non intendeva farlo gli era stata concessa una pausa di riflessione, al termine della quale aveva ribadito telefonicamente che non si sarebbe dimesso.

4. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione ed errata applicazione dell’art. 2096 c.c. e dell’art. 14 del contratto collettivo, quest’ultimo sotto il profilo della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale e del vizio di motivazione.

Sostiene che la contrattazione collettiva prevedeva che il recesso durante il periodo di prova operava dal momento della comunicazione, e doveva essere motivato.

Nel suo caso la comunicazione era stata fatta il 12 settembre 2000 ed avrebbe dovuto essere motivata.

Era onere del datore di lavoro specificare nella lettera di recesso i ritardi e le omissioni che venivano addebitati al prestatore di lavoro.

Nel caso di specie la lettera di licenziamento faceva riferimento a comportamenti di procrastinazione di atti dovuti fino all’omissione, ma questa motivazione era assolutamente generica e non aveva consentito al C. una valida difesa: soltanto attraverso la costituzione in giudizio del datore di lavoro aveva potuto avere contezza degli addebiti che gli venivano mossi.

Il ricorrente, comunque, contesta gli addebiti e spiega in dettaglio i singoli episodi, ribadendo la propria versione di fatti.

4. Nel proprio controricorso l’Azienda Ospedaliera della Provincia di Pavia ribadisce la propria eccezione di carenza di legittimazione passiva, sottolineando, innanzi tutto, che il rapporto di lavoro con il Dr. C. era stato instaurato nel marzo 2000 con l’ASL di Pavia e che era stata questa ultima ad intimare il recesso nel settembre dello stesso anno. Solo in un momento successivo, con decorrenza dal primo febbraio 2002, quando già si era concluso il giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale di Vigevano, era stata istituita l’Azienda Ospedaliera della Provincia di Pavia, alla quale erano stati trasferite le funzioni esercitate in precedenza dai presidi ospedalieri e dai presidi territoriali dell’ASL. L’Azienda Ospedaliera era subentrata nelle funzioni già esercitate dalla ASL ed espressamente indicate nell’apposito decreto regionale di trasferimento n. 1305/2002 ed era stato trasferito alla nuova struttura, sempre dal primo febbraio 2002, il personale che in quella data prestava servizio presso la ASL. Non rientrava, invece, nell’oggetto del trasferimento la posizione del Dr. C., il cui rapporto era cessato in precedenza, fin dal settembre 2000.

Nè vi rientrava la lite relativa a quel rapporto.

6. A sua volta, anche l’Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Pavia ribadiva la propria carenza di legittimazione passiva, rilevando che la nuova Azienda Ospedaliera aveva assorbito, tra l’altro, tutte le funzioni che rientravano nella disciplina della psichiatria della Provincia di Pavia, compresa l’Unità Operativa in cui il Dr. C. aveva prestato servizio durante il periodo di prova.

Le pretese di riassunzione, di risarcimento dei danni e di pagamento delle retribuzioni e degli accessori avrebbero dovuto essere rivolte al nuovo soggetto giuridico.

7. In astratto sarebbe preliminare alla valutazione del merito la questione, sollevata da entrambe le parti intimate, dall’Azienda Sanitaria Locale e dall’Agenzia Ospedaliera, della loro legittimazione passiva.

Il giudice del merito non ha affrontato espressamente la questione decidendo perciò implicitamente per il rigetto delle loro rispettive eccezioni, e questa statuizione non è stata impugnata da nessuna delle due aziende con apposito ricorso incidentale.

Sul punto specifico perciò si è formato il giudicato nel senso della responsabilità di entrambe le aziende per le obbligazioni in favore del Dr. C. in caso di accoglimento, anche parziale, della sua domanda.

8. Nel merito il ricorso non è fondato e non può trovare accoglimento.

E’ infondato, innanzi tutto, il primo motivo di impugnazione.

Il Collegio non ignora che in passato sono emersi nella giurisprudenza di questa Corte orientamenti non omogenei sul punto della sospensione, o meno, del periodo di prova a seguito della fruizione di un periodo di ferie, o di altri eventi che comportino la sospensione della prestazione lavorativa.

Per la risoluzione del problema si deve tener conto della funzione del periodo di prova concordato tra le parti, che è quello di consentire alle parti stesse di verificare la convenienza della collaborazione reciproca.

La durata del periodo viene determinata nel tempo che le parti ritengono adeguato per questa verifica.

Se nel corso del periodo previsto per la prova, oppure di una parte di esso, la prestazione del lavoro non è effettiva per ragioni che non rientrano nel normale svolgimento del rapporto e che non erano previste al momento della stipulazione del patto, le parti non hanno a disposizione, per effettuare la propria valutazione, una prestazione lavorativa la cui durata si sia prolungata per tutto il tempo che avevano ritenuta necessaria.

Appare preferibile, perciò, la linea giurisprudenziale ormai prevalente, secondo cui, “in difetto di diversa previsione contrattuale, il decorso di un periodo di prova determinato nella misura di un complessivo arco temporale, mentre non è sospeso da ipotesi di mancata prestazione lavorativa inerenti al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività, deve ritenersi escluso, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell’attività del datore di lavoro, e, in particolare, il godimento delle ferie annuali, il quale, data la funzione delle stesse di consentire al lavoratore il recupero delle energie lavorative dopo un cospicuo periodo di attività, non si verifica di norma nel corso del periodo di prova.” (Cass. civ., 24 ottobre 1996, n. 9304; nello stesso senso, recentemente 13 settembre 2006, n. 19558).

Come criterio generale quando dunque la contrattazione collettiva stabilisce una durata del periodo di tempio rapportata ad una unità di tempo (a mesi, a settimane, ecc.) si deve ritenere che rientrino nel periodo stesso, e non ne sospendano la decorrenza, i giorni di mancata prestazione del lavoro per ragioni che rientravano nel normale svolgimento del rapporto e che perciò erano conosciute a priori, quali le festività ed i riposi settimanali, e che invece vadano esclusi, e comportino il prolungamento del periodo di prova, i giorni di mancata prestazione per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del contratto di lavoro in prova, quali le malattie, gli infortuni, la gravidanza, il puerperio, i permessi, lo sciopero, ecc..

Rientra tra questi eventi che interrompono la decorrenza del periodo di prova anche la fruizione delle ferie, che nella normalità dei casi avviene dopo un certo periodo di prestazione (anche per la necessità che nel frattempo le ferie maturino) e perciò dopo la scadenza della prova. Come regola generale, perciò, le ferie interrompono la decorrenza del periodo di prova, che si prolunga per i giorni di ferie fruiti dal lavoratore (a meno, naturalmente, che la loro fruizione non fosse stata prevista preventivamente all’interno del patto).

9. Questo criterio generale vale naturalmente per il caso in cui il punto non sia stato disciplinato specificamente dalla contrattazione collettiva (o da altre norme).

Nel caso di specie la sentenza precisa che la disposizione contrattuale stabiliva “che il periodo di prova ha una durata pari a sei mesi di servizio effettivo”, e, d’altra parte, tutte e tre le parti del giudizio concordano, nei loro rispettivi atti difensivi, sul fatto che la contrattazione collettiva prevedeva anche che ai fini del compimento del suddetto periodo di prova si teneva conto del solo servizio effettivo prestato.

In questo modo anche la contrattazione collettiva fa riferimento innanzi tutto al criterio del servizio effettivamente prestato.

Questo concetto deve essere interpretato.

Appare coerente logicamente e correttamente motivata l’interpretazione che la Corte d’Appello di Milano ha dato a questa espressione nel senso che si era inteso ricomprendere nel e imputo del relativo arco temporale solo i giorni effettivamente lavorati al fine di salvaguardare il periodo di prova.

In particolare non vi possono rientrare tutte le ipotesi di mancata prestazione del lavoro per fatti che non si verificano necessariamente all’interno del periodo di prova, e che pertanto non erano prevedibili al momento della stipulazione del patto di prova, e, tra questi, anche la fruizione di un periodo di ferie.

10. Il ricorrente riporta anche, alla pag. 14 del ricorso, il seguito della norma contrattuale.

Secondo questo testo, riportato appunto dal ricorrente, e che di per se stesso non è contestato, il periodo di prova sarebbe sospeso soltanto “in caso di assenza per malattia e negli altri casi espressamente previsti dalla legge o dai regolamenti vigenti ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 72” (in materia, tra l’altro, di revisione della disciplina del pubblico impiego).

Il testo perciò non limita la sospensione all’assenza per malattia ma richiama gli altri casi previsti dalla legge o dai regolamenti.

Anche questa norma contrattuale aperta deve essere interpretata, ed il giudice del merito la ha interpretata, fornendo una adeguata motivazione, nel senso dell’inserimento anche delle ferie tra le cause di sospensione del periodo di prova, ed ha motivato adeguatamente su questo punto.

Non sussiste perciò contraddizione tra le due norme, nè la previsione contrattuale collettiva contrasta con il criterio generale sopra individuato, ed anzi comporta la medesima soluzione.

11. Anche il secondo motivo di impugnazione è infondato. Se non sussiste un obbligo generale dei soggetti privati di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati, quest’obbligo può invece sussistere, in relazione alle circostanze, e purchè non sia prescritta per legge o per contratto l’utilizzo di un mezzo specifico (ad esempio con lettera raccomandata, per telegramma, tramite fax, ecc.) quando i due soggetti privati siano già uniti da uno stretto vincolo contrattuale, che comporti, o possa comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella comunicazione specifica si inserisca all’interno del rapporto negoziale.

In particolare, per quanto qui interessa, quest’obbligo si deve ritenere esistente, quando non sia previsto altrimenti, nell’ambito del lavoro subordinato in forza del vincolo che lega il prestatore al datore, e che comporta perciò, sia pure per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse, una soggezione del dipendente al datore di lavoro. Come rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte proprio in un caso di consegna a mano di lettera di licenziamento ad un lavoratore, “anche nell’ambito del diritto sostanziale il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta.” (Cass. civ., 12 novembre 1999, n. 12571).

In proposito, e sempre con riferimento ad un altro caso di consegna di una lettera di licenziamento, la Corte ha precisato ulteriormente che “il principio, secondo cui (…) il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere lo stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca i relativi effetti, ha un ambito di validità determinato dal concorrente operare del principio secondo cui non esiste, in termini generali ed incondizionati, l’obbligo, o l’onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione (…) una soggezione in tal senso del destinatario non esiste in termini generali, ma può dipendere dalle situazioni o dai rapporti giuridici cui la comunicazione si collega. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro, in dipendenza del potere posto di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto” (Cass. civ., 5 giugno 2001, n. 7620), mentre “un obbligo analogo non è configurabile, in genere, al di fuori dell’orario di lavoro e, in particolare, in un luogo pubblico. ” (ivi).

Nel caso in esame, invece, il Dr. C. era stato convocato appositamente dal Dr. F.. come precisa lo stesso ricorrente facendo riferimento al proprio interrogatorio, e come, del resto, risulta indirettamente dallo stesso ricorsa, là dove trascrive le deposizioni del Dr. D.P. e del Dr. F. (rispettivamente pagg. 17-18, e pagg. 20-21 del ricorso).

La comunicazione concerne va il rapporto di lavoro ed è stata effettuata, recapitando a mano il documento scritto, all’interno della struttura sanitaria di cui era dipendente il Dr. C., nell’ufficio di un altro sanitario incaricato della consegna; in queste condizioni di tempo e di luogo sussisteva sicuramente un obbligo del dipendente di ricevere quel documento anche a mano.

12. E’ opportuno sottolineare, per chiarezza (ed anche se la questione non è stata sollevata specificamente dalle parti), che altro è la forma della comunicazione ed altro il mezzo di trasmissione della comunicazione.

Nel caso di specie, trattandosi di licenziamento, la comunicazione doveva essere fatta per iscritto, ma non erano previste modalità specifiche per la trasmissione dello scritto.

Si debbono ritenere valide, perciò, tutte quelle modalità che comportino la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità.

Rientra perciò nell’ambito della trasmissione anche il recapito a mano del documento personalmente al destinatario.

Nè può rilevare che materialmente la consegna non abbia luogo quando non avvenga per il rifiuto del destinatario di ricevere il documento, anche perchè l’interessato non può essere costretto a farlo.

Vale perciò il principio, previsto espressamente per le comunicazioni ufficiali tramite ufficiale giudiziario (art. 140 c.p.c.), ma anche le lettere raccomandate, che il rifiuto di ricevere l’atto equivale a consegna.

13. Se dunque, come risulta dalla sentenza impugnata, il Dr. C. ha rifiutato la consegna della lettera di licenziamento, che i medici incaricati di consegnarla (il Dr. F. ed il Dr. D.P.) avevano materialmente con loro, e di cui gli hanno riferito a voce il contenuto, quel rifiuto non può che essere considerato equivalente alla consegna, valere come avvenuta consegna.

Nè vengono fatte questioni sulla validità formale e sostanziale del documento scritto, nè sulla completezza delle notizie fornite (anche) a voce dai due sanitari incaricati.

Lo stesso ricorrente, del resto, riporta, a pag. 20, il testo della deposizione del Dr. D.P., uno dei medici incaricati della consegna; secondo il testo trascritto ” C. subito ha rifiutato di dimettersi, poi allora la segretaria di F. ha messo sul tavolo la lettera.” In sostanza il rifiuto da parte del destinatario Dr. C. della consegna (che – per ragioni giuridiche oltre che per ragioni pratiche – non poteva essere fatta di forza) è consistito nella mancata apprensione materiale del documento.

14. Nè può rilevare la ragione del rifiuto, il fatto, cioè, che, come precisa la sentenza a pag. 7, il Dr. C. in quella occasione non abbia ricevuto la lettera “in quanto gli fu prospettata, come possibile alternativa, di dare le dimissioni”. Quando i due dirigenti sanitari hanno comunicato al Dr. C. la volontà della USL di porre termine al rapporto in prova ed hanno tentato di consegnargli il testo scritto del licenziamento, hanno anche cercato di giungere ad una risoluzione non traumatica del rapporto (anche nell’interesse dello stesso professionista) offrendogli la possibilità di rassegnare lui stesso le proprie dimissioni, in quanto in questo caso il licenziamento non avrebbe avuto seguito perchè considerato superato.

Come risulta dallo stesso ricorso gli hanno offerta una pausa di riflessione di alcune ore, entro la stessa giornata del 12 settembre.

In questo modo l’efficacia del licenziamento è stato sottoposta alla condizione risolutiva delle dimissioni del Dr. C.. Una volta che il Dr. C. avesse comunicato che non intendeva dimettersi, così come ha fatto, o che fosse scaduta la pausa concessagli per la risposta, vi era la certezza del mancato avverarsi della condizione risolutiva, e perciò il licenziamento rimaneva confermato:

l’esistenza della trattativa non escludeva peraltro che nel frattempo, finchè appunto il Dr. C. non avesse dato le dimissioni, il licenziamento fosse valido ed efficace, e che tale sia rimasto una volta che le dimissioni non siano state rassegnate.

15. E’ infondato, a sua volta, anche il terzo motivo di impugnazione.

Secondo il testo contrattuale esposto dal ricorrente, e di per se stesso non contestato dalle controparti, nel caso di specie la contrattazione collettiva stabiliva che il recesso in prova doveva essere motivato.

Questo obbligo di motivazione, però, non può avere il medesimo contenuto prescritto nel caso di licenziamento di un lavoratore con rapporto a tempo indeterminato, perchè se così fosse si giungerebbe alla omologazione del recesso in prova al recesso da un rapporto stabile a tempo indeterminato, e, di conseguenza, anche alla omologazione del rapporto in prova a quello a tempo indeterminato con l’eliminazione di ogni effettiva differenziazione tra le due fattispecie.

16. Nè l’obbligo di motivazione può spostare integralmente l’onere della prova sul datore di lavoro, così come avviene per il licenziamento di un dipendente a tempo indeterminato.

Quando, come nel caso di specie, è prescritta la motivazione del licenziamento di lavoratore in prova, essa ha la funzione, in realtà, di dimostrare che il recesso del datore è stato determinato effettivamente da ragioni specifiche inerenti all’esito dell’esperimento in prova (che costituisce la causa del patto) e che non è dovuto a ragioni illecite, o comunque estranee al rapporto, ed in particolare a forme di discriminazione, illegittime come tali anche ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15, L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 4 e L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 3.

Il ricorrente, per la verità, non lamenta nulla di tutto questo, ma piuttosto che la motivazione era generica e che i motivi indicati dalle controparti nel giudizio erano tardivi e comunque infondati nel merito, sviluppando peraltro per dimostrarlo una serie di argomentazioni di fatto che non sono ammissibili in questa sede di legittimità.

In realtà il recesso in prova aveva una motivazione perchè il ricorrente precisa, a pag. 29 del ricorso, che la lettera di licenziamento faceva riferimento a comportamenti di “procrastinazione di atti dovuti, sino all’omissione.” In sostanza è stata contestata al Dr. C. l’omissione di atti dovuti che rientravano nelle suoi compiti, anche se non sono stati specificati in dettaglio le circostanze ed singoli episodi.

18. Proprio per la sua funzione di dimostrare che il licenziamento non è dovuto a ragioni estranee all’esito dell’esperimento, la motivazione del recesso in prova può essere sintetica e non richiede la specificità necessaria per un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo.

Una volta però che il prestatore non assunto in via definitiva contesti quella motivazione il datore di lavoro deve integrarla opportunamente fornendo l’indicazione specifica e completa delle ragioni della decisione assunta.

Nel caso di specie il ricorrente contesta la genericità della motivazione della lettera di licenziamento ma specifica, a pag. 29 del ricorso, che “solo attraverso la costituzione del datore di lavoro il Dr. C. ha avuto contezza degli addebiti che gli venivano mossi.”.

Ciò significa che una volta che il Dr. C. ha fatto valere in giudizio l’asserita genericità del recesso il datore di lavoro ha integrato quella motivazione precisando in dettaglio i comportamento specifici che venivano addebitati al ricorrente, e che lo ha fatto nella prima difesa e perciò in tempo utile.

19. Il ricorso perciò è infondato e non può che essere rigettato.

Tenuto conto del fatto che sulla questione oggetto del primo motivo di impugnazione sussistevano precedenti giurisprudenziali non omogenei, sussistono giusti motivi per compensare tra tutte le parti e spese di causa.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2007.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2007


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1 Commento

  1. Buongiorno, qui dite che la lettera di licenziamento deve assolutamente essere firmata, mentre nell’articolo di pochi mesi dopo: “La lettera di licenziamento va firmata dal lavoratore?” del 26 Agosto 2018, dite esattamente il contrario, cioè che la lettera a mani non deve essere firmata… Non mi è chiaro…
    Tra l’altro giustificate qui poi con l’obbligo di ricevere comunicazione sul luogo di lavoro (che non è identico a “firmare”…).
    Distinti saluti,
    RB

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