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Diritto e Fisco | Editoriale

Vendita su Facebook o eBay senza negozio: quali rischi fiscali?

29 Gennaio 2018
Vendita su Facebook o eBay senza negozio: quali rischi fiscali?

Scatta l’accertamento induttivo per chi vende su internet e sul portale di aste online ma non fa la dichiarazione dei redditi e non versa l’Iva.

Internet offre ampie possibilità di guadagnare anche senza impegnare capitali e investire in strutture. Grazie a Facebook Marketplace e ad eBay molti privati vendono prodotti di tutti i tipi – nuovi o di seconda mano – senza alcun locale ove la merce viene conservata o esposta. Sarà capitato anche a te di contattare un buyer di scarpe firmate o di orologi, di capi di abbigliamento o di oggetti tecnologici come computer e hard disk dopo aver visto le relativa fotografie sul web. Foto amatoriali, ben inteso, ma che lasciano capire che dietro c’è una persona affidabile. Ci sono persino i pneumatici e le auto di seconda mano. Ma se da acquirente volessi diventare venditore, cosa dovresti fare per metterti in regola con l’Agenzia delle Entrate? Quali sono i rischi fiscali per chi vuol avviare un’attività di vendita su Facebook o eBay senza negozio? La risposta è stata fornita qualche giorno fa dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio [1].

Vendere oggetti usati non è vietato: non è necessario richiedere autorizzazioni né effettuare dichiarazioni fiscali. I redditi percepiti dalla vendita di beni di seconda mano non vanno denunciati al fisco. Questo perché la cessione non comporta un guadagno visto che il corrispettivo è più basso rispetto al prezzo pagato in origine per l’acquisto dell’oggetto.

Le cose cambiano se l’attività da sporadica ed occasionale diventa di tipo professionale: chi gestisce un mercatino dell’usato, acquista ad un prezzo e poi rivende ad uno più elevato fa un’utile ed è tenuto ad avere una partita Iva, con tutte le conseguenze fiscali che essa comporta. In questo caso siamo dinanzi a un vero e proprio esercizio commerciale.

Vendere oggetti “nuovi” configura quasi sempre un’attività commerciale perché il prezzo di acquisto della merce è sempre inferiore rispetto a quello di vendita. Se l’attività è occasionale si può fare a meno di aprire la partita Iva, ma il reddito va comunque denunciato nell’annuale dichiarazione dei redditi. Se invece l’attività diventa stabile, anche senza che vi sia un negozio con l’esposizione della merce, si è tenuti a tutti gli adempimenti fiscali di chi ha un normale esercizio commerciale.

Che rischi ci sono di essere scoperti dal fisco nel momento in cui si vendono oggetti sul Marketplace di Facebook o sulle aste online come eBay? Tanti. Anzi, tantissimi. E questo perché i pagamenti sono quasi sempre tracciabili: nessuno acquista da internet con soldi in contanti sia perché gli scambi avvengono spesso a distanza, sia perché ci si fida poco di gente sconosciuta. Sempre meglio conservare una prova del versamento della somma, il che succede con il bonifico, con la carta di credito o (più di rado) con l’assegno. Si tratta, però, di una traccia che ben può rilevare anche il fisco. E allora scatta l’accertamento fiscale di tipo induttivo per chi ha incassato il prezzo di vendita sulle aste online ma non lo ha indicato nella dichiarazione dei redditi.

Percepire corrispettivi sul conto corrente e non sapere come giustificarli fa presumere, in automatico, al fisco che si tratti di redditi in nero. Questo perché la legge impone sempre al contribuente di dimostrare la provenienza dei versamenti di denaro in banca (sia che provengano da contanti che da bonifici).

Anche le aste online andate a buon fine dimostrano che è fiorente l’attività imprenditoriale del contribuente; ma se questi non presenta alcuna dichiarazione, il fisco può usare «presunzioni semplici» (ossia meri indizi) per accertare il volume di vendite e rideterminare le imposte sui redditi. Tradotto: viene ricalcolato l’Irpef.

Il caso di specie ha visto oggetto di accertamento un contribuente che aveva avviato un’attività di vendita tramite asce online. Per salvarsi dall’accertamento, la parte avrebbe dovuto dimostrare «la mancata percezione di corrispettivi e ciò attraverso la tracciabilità dei pagamenti, in quanto gli stessi, ove eseguiti, sarebbero stati eseguiti dagli acquirenti mediante carte di credito e sarebbe stato onere della parte dimostrare altresì l’inutilità, sotto il profilo reddituale, di tutta l’intera voluminosa attività posta in essere come rilevata nel corso delle indagini della guardia di finanza». Inoltre l’accertamento, «sotto il profilo della completezza della motivazione, conteneva anche riscontri alle osservazioni formulate dal contribuente in sede di contraddittorio preliminare con riguardo all’esistenza di costi, talché era stato operato un abbattimento del 50 per cento dei compensi non dichiarati».


note

[1] Ctr Lazio, sent. n. 296/18.


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