La singola sfuriata, anche se ingiustificata, del datore non è mobbing: c’è bisogno di continui e reiterati atti persecutori.
Un comportamento violento e maleducato del datore di lavoro nei confronti del dipendente non configura necessariamente mobbing: per provare tale fattispecie è invece necessario dimostrare un intento reiterato e persecutorio.
Lo ha precisato il Tribunale di Napoli in una recente sentenza [1].
Non rileva che il lavoratore sia dotato di una particolare sensibilità e che gli atteggiamenti del datore di lavoro siano arrivati a determinare, su di lui, una vera e propria patologia: perché si configuri il mobbing è piuttosto necessario il compimento di una sequela di atti, aventi oggettiva efficacia lesiva, animati dall’intento specifico di nuocere. In altre parole, il datore di lavoro deve porre una condotta protratta nel tempo, dove la persecuzione è finalizzata all’emarginazione del dipendente.
Non rientrano quindi nel mobbing le situazioni di malessere o disagio, riferibili esclusivamente alla sfera delle condizioni psicologiche e delle componenti caratteriali del lavoratore. Rileva piuttosto la sensibilità media dell’uomo comune.
Pertanto non qualsiasi screzio o scortesia o persino qualsiasi maleducazione o offesa possono dar luogo a una richiesta di risarcimento. Sono illecite solo le situazioni più gravi che ledono il rapporto lavorativo, a prescindere dalla sensibilità soggettiva del dipendente.
note
[1] Trib. Napoli, sent. n. 22735 del 25.09.2012.