Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 ottobre 2017 – 1 febbraio 2018, n. 4735
Presidente Savani – Relatore Gai
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 31 gennaio 2017, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza del Giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale di Rimini con la quale T.M. era stato condannato, all’esito del giudizio abbreviato, alla pena sospesa di Euro 400,00 di multa, per il reato di cui all’art. 56, 515 cod.pen. perché, quale legale rappresentante della società Fricandò, proprietaria dell’esercizio commerciale “(omissis)”, deteneva per la vendita esclusivamente pesce congelato e compiva atti idonei alla somministrazione agli avventori dell’esercizio commerciale di ristorazione prodotti ittici surgelati in luogo di quelli freschi indicati nel menù. Fatto accertato in (omissis).
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo con un unico ed articolato motivo la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b), c) ed e) cod.proc.pen..
La Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’ipotesi di reato di tentativo di frode in commercio dalla mera esposizioni di immagini ritraenti pietanze dalla quali non si potrebbe dedurre, in assenza di apposita lista, se i prodotti fossero freschi o surgelati, non potendo dalla mera immagine della pietanza ricavarne l’indicazione della natura dei prodotti impiegati nella sua preparazione; neppure potrebbe configurare l’”offerta in vendita” dalla mera immagine della pietanza posto che non vi sarebbero tutti gli elementi (prezzo) della offerta al pubblico disciplinata dal codice civile e l’immagine pubblicitaria avrebbe come unico scopo quello di incentiva il consumo, ma non potrebbe costituire un’offerta al pubblico. Conclusivamente, argomenta il ricorrente, che l’immagine pubblicitaria di una pietanza in sé non avrebbe alcuna valenza se non quella dimostrativa della presentazione del piatto perché è solo con l’inserimento nella lista data agli avventori o posizionata sul tavolo che si manifesta intenzione del ristoratore ad offrire quei prodotti. Da qui l’insussistenza del reato contestato di frode in commercio.
Censura, poi, la carenza di motivazione sulla doglianza difensiva che lamentava la mancata acquisizione dei menù posti sul tavolo, in ragione dell’operata scelta del rito abbreviato e la illogicità della motivazione in relazione alla inequivocità degli atti a commettere il reato contestato. La semplice esposizione all’interno dei locali di immagini raffiguranti le pietanze sarebbe diretta ad incentivare il consumo, ma non sarebbe condotta inequivoca a dimostrazione le qualità delle pietanze raffigurare nei menù e a manifestare l’intenzione del ristoratore a consegnare un prodotto diverso.
3. Il Procuratore Generale ha chiesto, in udienza, che il ricorso sia rigettato.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è manifestamente infondato e va, pertanto, dichiarato inammissibile.
Manifestamente infondata è la censura di violazione di legge e di vizio di motivazione in relazione alla configurazione del delitto tentato di frode in commercio.
Secondo l’indirizzo ormai consolidato di questa Corte di legittimità, il tentativo del reato di cui all’art. 515 cod.pen. è configurato e si verifica quando l’alienante compie atti idonei diretti in modo non equivoco a consegnare all’acquirente una cosa per un’altra ovvero una cosa, per origine, qualità o quantità diversa da quella pattuita o dichiarata.
Di conseguenza, come ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, costituisce il tentativo del delitto di frode in commercio anche il semplice fatto di non indicare nella lista delle vivande che determinati prodotti sono congelati, giacché il ristoratore ha l’obbligo di dichiarare la qualità della merce offerta ai consumatori.
Il contrasto interpretativo in ordine alla configurabilità dei tentativo di frode in commercio, peraltro risalente nel tempo (cfr. per la tesi opposta Sez. 3, n. 37569 del 25/09/2002, P.M. in proc. Silvestro, Rv 222556), risulta definitivamente superato dalla giurisprudenza più recente, ma ormai consolidata, che, a partire dalle Sezioni Unite di questa Corte (S.U., n. 28, del 25 ottobre 2000, Morici, Rv 217295), hanno affermato il principio che se il prodotto viene esposto sui banchi dell’esercizio o comunque offerto al pubblico, la condotta posta in essere dall’esercente l’attività commerciale è idonea ad integrare il tentativo perché dimostra l’intenzione di vendere proprio quel prodotto. La lista delle vivande consegnata agli avventori o sistemata sui tavoli di un ristorante equivale ai fini che qui interessano, ad una proposta contrattuale nei confronti dei potenziali clienti e manifesta l’intenzione del ristoratore di offrire i prodotti indicati nella lista, dunque, “anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore” (Sez. 3, n. 39082 del 17/05/2017, P.G. in proc. Acampora, Rv. 270836; Sez. 3, n. 899 del 20/11/2015 Bordonaro, Rv. 265811; Sez. 3, n. 5474 del 05/12/2013, Prete, Rv. 259149; Sez. 3, n. 44643 del 02/10/2013, Pellegrini e altri Rv. 257624; Sez. 3, n. 6885 del 18/11/2008, Chen, Rv. 242736; Sez. 3, n. 24190 del 24/05/2005 Bala, Rv. 231946).
I giudici del merito hanno fatto corretta applicazione dello ius receptum e hanno congruamente motivato la responsabilità penale del ricorrente e, sulla scorta dell’accertamento fattuale insindacabile in questa sede, hanno ritenuto il tentativo di frode in commercio in presenza di detenzione all’interno dell’esercizio commerciale di gastronomia “(OMISSIS) ” di alimenti surgelati (pesce) destinati alla somministrazione, senza che nel menù fosse stata indicata tale qualità in assenza, oltretutto, di alimenti freschi essendo congelata la totalità delle provviste. Quanto poi alle modalità di rappresentazione dell’offerta dei prodotti, la corte territoriale ha condivisibilmente, ritenuto che anche l’esposizione di immagini del prodotto offerto, in luogo della sua descrizione nel menù, è idonea a configurare la condotta di reato, stante la natura diretta a incentivare la consumazione del prodotto. Anche l’immagine fotografica del prodotto costituisce offerta al pubblico, sicché la scelta del ristoratore di offrire un alimento attraverso la raffigurazione fotografica dello stesso, in luogo di quella descrittiva, non vale ad escludere la condotta di tentata frode in commercio qualora non contenga l’indicazione de qua.
Quanto, infine, al profilo di censura sulla mancanza di sequestro dei menù e, dunque, della prova dell’esistenza del menù, censura peraltro ripetitiva di quella già devoluta e disattesa dal giudice dell’impugnazione, rileva il Collegio che il ricorrente aveva scelto di essere giudicato con il giudizio abbreviato, giudizio a prova contratta nel quale assumono valore probatorio tutti gli atti di indagini compiuti, e che dalla sentenza del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Rimini risulta l’esistenza dei menù (cfr. pag. 2), sicché la doglianza, che prospetta un travisamento del fatto, non è proponibile in questa sede.
5. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.