Alimenti all’ex coniuge dopo la separazione e il divorzio: i principi sposati dalla Cassazione dopo la sentenza Grilli.
Ti stai per separare da tua moglie e, per non impelagarvi in una lunga e costosa causa, state tentando di definire un importo a titolo di mantenimento che possa mettere d’accordo entrambi. Il punto è che non avete trovato un criterio per definire l’esatto ammontare degli alimenti. Lo stesso avvocato vi ha spiegato che non c’è una regola generale, ma solo una serie di elementi astratti e generici, considerati dal giudice, come i rispettivi redditi, le spese che andrete a sostenere per vivere separatamente, la lunghezza del matrimonio, l’assegnazione di una casa coniugale, la disponibilità di altri aiuti economici (come quelli dei genitori), lo stile di vita che avete tenuto quando ancora eravate uniti, ecc. Ma tant’è: a un numero dovrete, prima o poi, arrivare. Così vi sforzate di capire quant’è l’importo del mantenimento per la moglie. Di tanto parleremo nel seguente articolo: cercheremo di definire quali sono i criteri fissati dalla giurisprudenza anche a seguito del recente indirizzo sposato dalla giurisprudenza della Cassazione che, con la famosa sentenza “Grilli” del 10 maggio 2017 [1], ha mandato in soffitta il criterio del “tenore di vita” goduto durante il matrimonio.
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Cosa viene considerato per calcolare il mantenimento?
Non c’è una materia tanto incerta quanto quella dell’assegno di mantenimento per l’ex moglie. Non solo perché ogni giudice è libero di decidere per come la propria visione del diritto gli suggerisce; non solo perché ogni processo viene influenzato dalle prove che le parti allegano; non solo perché spesso conta anche il “non dichiarato” al fisco, che può far scattare l’asticella degli alimenti più da un lato che dall’altro; ma anche e soprattutto perché c’è un numero elevato di variabili da considerare. Una cosa però è certa: il 10 maggio scorso la Cassazione ha fissato uno spartiacque. In pratica, i giudici hanno stabilito questo principio: se con la separazione, il coniuge più benestante deve garantire all’ex lo stesso tenore di vita che aveva quando ancora erano sposati, quest’obbligo cessa dopo il divorzio. Con la conseguenza che, da tale momento in poi, tutto ciò che si può essere tenuti a versare è un assegno mensile per garantire l’autonomia economica (anzi, una decorosa autonomia).
Cosa significa, in soldoni? Molto semplice. Quando ci si separa, i due tenori di vita devono essere più o meno simili. Il che significa che bisogna prendere il reddito più elevato e distribuirlo all’ex fino a quando non viene colmato ogni divario economico tra i due, tenendo conto delle spese cui vanno incontro. Invece quando si divorzia, la regola è quella dell’autosufficienza: se il coniuge è già in grado di procurarsi i soldi per cui vivere o li ha già, o comunque ha le condizioni economiche e di salute per lavorare non può gravare sulle spalle dell’ex.
Quando un coniuge non ha diritto al mantenimento?
A quanto ammonta questa autosufficienza? Questo ovviamente la Cassazione non lo dice e si guarda bene dal dirlo. Ogni caso è a sé. Ad esempio il tribunale di Milano ha ritenuto che mille euro al mese fossero più che sufficienti (essendo questo il livello di povertà sotto il quale scatta il diritto al gratuito patrocinio).
In ogni caso, la Suprema Corte ha dato alcune direttive guida. Su tutte spicca questa: il coniuge richiedente il mantenimento deve dimostrare di aver cercato un’occupazione e di non averla trovata. Se questi è ancora sotto i 45 anni e in condizioni di lavorare, deve dimostrare di non voler gravare, in modo parassitario, sull’ex coniuge. Ed è quasi sempre su questo aspetto che si scontrano marito e moglie visto che, da un lato, sopravvive la presunzione che chi riceve il mantenimento intende tale assegno come un’assicurazione sulla vita; dall’altro c’è che, di questi tempi, trovare un lavoro è assai difficile. Chiaramente, la Cassazione si accontenta del fatto che il coniuge economicamente più debole dimostri di essersi impegnato nella ricerca di un posto, non potendo pretendere che lo stesso ottenga a tutti i costi un’occupazione.
Se manca questa prova, i giudici escludono il diritto agli alimenti anche nei confronti della moglie disoccupata che, in passato, ha fatto la casalinga.
Viceversa, quando l’età avanzata di questa o le condizioni di salute le impediscono di ricollocarsi nel mondo del lavoro, l’assegno è pressoché scontato. Ma non nella misura che un tempo si prevedeva (cioè pari al tenore di vita precedentemente goduto), ma nei limiti in cui garantisca una dignitosa autonomia.
Matrimonio breve: a quanto ammonta il mantenimento?
Secondo una recente sentenza del tribunale di Roma [2], non può essere riconosciuto il contributo mensile a carico dell’ex coniuge quando questi non ha lavorato durante il matrimonio di breve durata: altrimenti il trattamento si trasformerebbe in una «rendita parassitaria» per il beneficiario e in un obbligo potenzialmente a tempo indeterminato per l’onerato. Il quale risulta inoltre sollevato da una prova impossibile: dimostrare che l’ex coniuge ha avuto occasioni di lavoro ma non le ha colte.
Nei matrimoni-lampo risulta d’altronde impossibile riconoscere l’assegno al coniuge che non ha contribuito alla formazione del reddito e del patrimonio familiare: la breve durata della convivenza esclude che si sia formata in capo alla richiedente un’aspettativa meritevole di tutela.
Ma sul punto la Cassazione appare tutt’altro che univoca. Molte sentenze infatti hanno riconosciuto un minimo assegno di mantenimento anche nel caso di unioni iniziate e finite in breve tempo.
La donna che inizia a guadagnare dopo il divorzio perde il mantenimento
Un secondo aspetto certo è che l’assegno di mantenimento può essere sempre rimesso in discussione se sopraggiungono fatti nuovi dopo la sentenza di separazione o di divorzio. Così, se la moglie inizia a guadagnare, può perdere l’assegno di mantenimento. Lo perde anche se inizia una relazione con un’altra persona, perché l’ex marito non è tenuto a mantenere il nuovo nucleo familiare.
Di recente la Cassazione [3], ha revocato il mantenimento a una donna che aveva iniziato a guadagnare in modo da mantenersi da sola e che non aveva collaborato col giudice nel fare in modo che questi potesse quantificare il suo reddito.
Il possesso della laurea da solo non basta per poter affermare le capacità lavorative di una persona, che vanno invece verificate sulla base di ogni fattore individuale e ambientale. Pesa di più la competenza professionale acquisita dopo il percorso scolastico oltre che l’età dell’interessata, elementi questi ritenuti idonei a garantire all’ex una piena realizzazione personale e lavorativa.
note
[1] Cass. sent. n. 11504/17 del 10.05.2017.
[2] Trib. Roma, sent. n. 9158/18.
[3] Cass. ord. n. 16737/18.