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Diritto e Fisco | Editoriale

Affitto: quando c’è minaccia del proprietario di casa?

6 Luglio 2018
Affitto: quando c’è minaccia del proprietario di casa?

Dinanzi all’alternativa tra l’accettare un prezzo iniquo e sproporzionato o l’andarsene dall’appartamento, quando si può parlare di minaccia (violenza privata) e quando invece c’è solo una violazione di regole etiche e comportamentali?

Sono alcuni anni che vivi in affitto in un appartamento ben collegato con i mezzi pubblici e alla sede del tuo lavoro. Con il padrone di casa non ci sono mai stati conflitti o contestazioni: da un lato, hai pagato in modo puntuale il canone mensile; dall’altro lato lui si è sempre comportato per bene. Senonché, di recente, è successo qualcosa di molto grave che non vuoi lasciar passare inosservato. Il locatore si è presentato da te in occasione dell’imminente rinnovo del contratto per chiederti un aumento dell’affitto. La sua proposta è di stipulare un nuovo contratto con differenti importi. In realtà, la sua richiesta non si è fermata qui: una parte di questi soldi glieli dovrai dare in nero. Dinanzi alle tue proteste lui si è mostrato intransigente: «O così o te ne vai» ti ha detto in modo categorico. Ovviamente non vuoi abbandonare casa perché, oltre ad avere ormai costruito lì attorno tutti i tuoi interessi e a trovarti in una posizione strategica, sarebbe oltremodo costoso e non puoi permettertelo. Ti chiedi però se c’è un modo di reagire alla minaccia del padrone di casa: se cioè questi può davvero metterti alla porta solo perché non vuoi accettare un aumento del canone. Ti viene il dubbio che l’alternativa, posta dal locatore in termini così secchi e perentori, possa integrare un reato. Se lo denunciassi rovineresti i rapporti con lui, ma almeno continueresti a restare nell’immobile. Così ti chiedi, in caso di affitto con minaccia, quando il proprietario di casa commette reato?

Anche se non ti consolerà, posso innanzitutto dirti che il tuo non è un problema isolato. I rapporti tra conduttore (l’inquilino) e locatore (il padrone dell’immobile) sono spesso confliggenti. E la ragione è ovviamente il fatto che il primo ha la detenzione di un bene del secondo di massimo valore e importanza, spesso collegato alla sua stessa sopravvivenza (esistono famiglie che si mantengono proprio grazie a un canone di affitto). Tu dirai certamente «mors tua, vita mea»; ma il punto non è tanto stabilire, per la morale, chi ha torto o ragione, ma cosa prevede la legge quando il padrone di casa mette l’affittuario dinanzi all’alternativa tra l’andarsene e l’accettare invece condizioni contrattuali da lui ritenute inique. 

Il contratto, si sa, è l’incontro tra due volontà che non possono essere coartate da violenza, dolo o minacce psicologiche. Ma una cosa è il vizio del consenso e un’altra è l’esistenza di un reato. La questione è stata così decisa dalla Cassazione penale con una recente sentenza [1]. Ecco cosa hanno detto i giudici supremi in merito alle possibili vessazioni del locatore.

Quando si può denunciare il padrone di casa che minaccia l’inquilino?

Il contratto di affitto, come noto, si può disdire sei mesi prima della scadenza. È diritto di entrambe le parti farlo, senza neanche dover fornire motivazioni a riguardo. Il padrone di casa, quindi, può comunicare all’inquilino la disdetta della locazione se questi non accetta una sua proposta di modifica del contratto. È del resto nel diritto delle parti trattare condizioni differenti e negare il proprio consenso alla conclusione del contratto se non c’è accettazione delle nuove clausole. 

Il fatto poi di utilizzare un linguaggio forte che non pone, sul tavolo delle trattative, alcuna alternativa rispetto all’accettazione delle mutate condizioni contrattuali rispetto alla risoluzione del rapporto non può considerarsi una minaccia. E ciò per la fin troppo ovvia considerazione che la minaccia (o meglio, nel caso di specie, il reato di «violenza privata») pone come alternativa il dover subire un male ingiusto, un torto, qualsiasi cosa cioè vietata dalla legge (ad esempio «Se non mi paghi ti rompo l’auto», «Se non firmi il contratto dirò a tutti, diffamandoti, che rubi lo stipendio e non fai il tuo dovere», ecc.). Invece la mancata accettazione del rinnovo dell’affitto non è una conseguenza illecita ma, come detto, è consentita dalla legge. 

Dire all’inquilino «Se le cose non ti stanno bene te ne vai» non è quindi reato e il comportamento del padrone di casa non può essere passibile di denuncia. Si tratta di un’affermazione che non ha forma di minaccia o violenza «essendo del tutto vaga nella sua valenza intimidatoria, ed apparendo, quindi, inidonea ad incidere sulla capacità di autodeterminazione del soggetto passivo». Si tratta piuttosto di «una violazione di regole comportamentali ed etiche in un contesto di conflittualità tra proprietario e conduttore», il che non è però né un illecito civile, né uno morale.

Si può annullare il contratto di affitto se il prezzo viene imposto?

E se l’inquilino accetta il contratto e il nuovo canone? Potrebbe, successivamente, impugnare il consenso dichiarando di essere stato costretto? Potrebbe cioè chiedere l’annullamento del contratto per violenza o minaccia psicologica? La risposta è ancora negativa. E ciò perché, anche in tale ipotesi, l’alternativa della violenza morale deve essere un male ingiusto, il che non ricorre nel caso di mancato consenso al rinnovo del contratto, opzione che il locatore può esercitare fino a sei mesi prima della scadenza senza dover fornire motivazioni.

Quando si può denunciare il padrone di casa?

Esistono dei modi per denunciare il padrone di casa? Sicuramente. Le minacce del padrone di casa non consentite dalla legge possono essere quelle come ad esempio: «Se non mi paghi l’affitto cambio le chiavi alla porta di casa e ti lascio fuori», «Se non sani le morosità scrivo su Facebook che sei un cattivo pagatore», «Se non te ne vai subito – nonostante non sia ancora scaduto il contratto – ti faccio staccare la luce e ti metto contro il condominio», «Se non firmi una carta di rinuncia alla cauzione non riparo lo scaldabagno rotto», ecc. In tutte queste ipotesi infatti viene prospettata come alternativa una conseguenza illecita (ad esempio la diffamazione, la violenza privata, lo spossessamento dell’immobile, l’anticipata risoluzione del contratto in spregio alla legge, la rinuncia a un proprio diritto, ecc.). 

Non in ultimo commette ugualmente reato il padrone di casa che, per ottenere il pagamento delle mensilità arretrate, si presenta in continuazione alla porta dell’inquilino per chiedergli i soldi, lo tempesta di telefonate, lo pedina. In questo caso si potrebbe parlare di atti persecutori, di stalking. E se poi gli prospetta l’alternativa di buttarlo fuori di casa si potrà pensare anche al delitto di minaccia.


note

[1] Cass. sent. n. 30091/18 del 4.07.2018.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 marzo – 4 luglio 2018, n. 30091

Presidente Lapalorcia – Relatore Catena

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Napoli in composizione monocratica sezione distaccata di Marano in data 29/04/2010, con cui P.A. era stato condannato a pena di giustizia, oltre che al risarcimento dei danni nei confronti della costituita parte civile, in relazione al delitto di cui all’art. 610 cod. pen., così qualificata l’originaria imputazione di cui all’art. 612, comma secondo, cod. pen., per avere minacciato C.I. di un male ingiusto e grave, proferendo al suo indirizzo l’espressione: “O ti sta bene il sottocontatore o te ne vai. Vedremo chi l’avrà vinta”; in (omissis) .

2. Con ricorso depositato in data 21/02/2015 P.A. ricorre personalmente, per:

2.1. violazione di legge e vizio di motivazione, ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., anche sotto il profilo del travisamento della prova, in quanto, alla luce della deposizione della persona offesa C.I. – che viene riportata per stralcio nel corpo del ricorso – non emergerebbe affatto la prova della minaccia di un male ingiusto e della conseguente coartazione della predetta, in quanto l’imputato si era limitato a dire che l’inquilina sarebbe dovuta andare via, non essendo, peraltro, emersa la prova della fondatezza del timore della C. , né di quale fosse la durata stabilita per il contratto di locazione pattuito tra le parti, atteso che l’imputato si era limitato a far valere il suo diritto alla risoluzione del contratto stesso, il che non implica affatto la prospettazione di un male ingiusto, bensì la mera anticipazione dell’esercizio di un diritto; ciò, d’altra parte, sarebbe dimostrato dalle stesse dichiarazioni della persona offesa, la quale aveva affermato che erano trascorsi due mesi senza che nulla fosse accaduto; 2.2. violazione di legge e vizio di motivazione, ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., anche sotto il profilo del travisamento della prova, in quanto la condotta avrebbe dovuto essere, al più, inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 392 cod. pen., come si evince dalla documentazione fotografica acquisita al verbale dell’udienza del 09/02/2010, oltre che dall’esame della persona offesa, reso alla medesima udienza, emergendo evidente come il P. , nella sua qualità di proprietario, avesse anticipato la sua volontà di risolvere il contratto di locazione e, prima ancora, di dirimere la questione dei consumi Enel attraverso l’apposizione di due sottocontatori, come consentitogli dal suo diritto di proprietario;

2.3. vizio di motivazione, ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen., avendo la difesa richiesto, in entrambi i gradi di giudizio, la sospensione condizionale della pena, su cui la Corte di merito ha del tutto omesso la motivazione;

2.4. si eccepisce, infine, la prescrizione del reato.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.

La sentenza di primo grado ha affermato la sussistenza del reato in base all’attendibilità del racconto della persona offesa, confermata dalla deposizione del marito della stessa, presente alla frase pronunciata dall’imputato; il primo giudice ha ritenuto che la persona offesa, a causa del comportamento autoritario dell’imputato – che pretendeva di far ricadere su di lei il consumo di energia elettrica dell’appartamento vicino – era stata costretta a lasciare l’immobile, che conduceva in locazione da circa due anni, ed a trovarne un’altro prima della scadenza naturale del contratto.

La sentenza impugnata, a sua volta, ha ricordato che la persona offesa aveva offerto una ricostruzione lineare ed accurata della vicenda, riferendo di aver locato l’appartamento del P. , intestandosi le utenze delle forniture; il P. , in seguito, avendo locato a terzi un altro appartamento privo del contatore dell’energia elettrica, le aveva detto che avrebbe provveduto a collegare l’impianto elettrico dell’unità immobiliare appena locata al suo contatore e che ella, dopo una iniziale adesione, aveva chiesto all’imputato il distacco dell’allacciamento, essendosi resa conto che le venivano addebitati anche i consumi dei nuovi inquilini; tuttavia, benché il P. avesse collocato due lettori per consentire una lettura separata dei consumi, la C. aveva chiesto comunque il distacco del contatore, in quanto continuava a registrare un aumento dei consumi; in detta occasione il P. aveva proferito la frase riportata in imputazione, per cui la C. , temendo che in capo a due mesi corrispondenti al periodo di pagamento anticipato del canone di locazione l’imputato cambiasse la serratura, decideva di lasciare l’appartamento.

Come noto, ai fini della sussistenza del delitto di cui all’art. 610 cod. pen., non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa (Sez. 5, sentenza n. 29261 del 24/02/2017, P.C. in proc. S., Rv. 270869).

L’elemento oggettivo del delitto, quindi, è costituito da una violenza o da una minaccia, che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata (Sez. 5, sentenza n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè ed altri, Rv. 268405).

La frase posta a fondamento dell’imputazione – “O ti sta bene il sottocontatore o te ne vai. Vedremo chi l’avrà vinta” – non appare integrare gli estremi di una minaccia, neanche implicita, né risulta che la capacità di autodeterminazione della persona offesa fosse stata coartata, atteso che la C. , pacificamente, aveva accettato che i nuovi inquilini utilizzassero il medesimo contatore a lei intestato, ed altrettanto pacificamente, dopo le sue lamentele, il P. aveva fatto installare due distinti lettori, al fine di consentire una lettura separata dei consumi in riferimento ai singoli appartamenti.

La frase posta a fondamento del capo di imputazione, quindi, si colloca in un momento cronologicamente successivo alla descritta vicenda, allorquando la C. , rilevando comunque delle anomalie dei consumi, aveva richiesto al P. di procedere al distacco, e ne era nato un alterco.

In detto contesto l’affermazione del P. , diretta a sollecitare che la C. andasse via, tuttavia, non trova alcuno sviluppo dialettico, neanche implicito, in forme di minaccia, ancorché larvate, né, tanto meno, di violenza, essendo veramente del tutto vaga nella sua valenza intimidatoria, ed apparendo, quindi, inidonea ad incidere sulla capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, manifestandosi, piuttosto, come una violazione di regole comportamentali ed etiche in un contesto di conflittualità tra proprietario e conduttore (Sez. 5, sentenza n. 1786 del 20/09/2016, Panico, Rv. 268751).

Ciò, peraltro, era stato anche riconosciuto dal primo giudice che, in motivazione, aveva qualificato la condotta dell’imputato come autoritaria.

Ne discende che, in virtù del principio di offensività, detta condotta non appare in grado di limitare o influenzare negativamente il processo di formazione della volontà della persona offesa, con conseguente insussistenza del reato di cui all’art. 610 cod. pen.

La sentenza impugnata va, quindi, annullata senza rinvio, ai sensi dell’art. 620 cod. proc. pen., perché il fatto non sussiste.

La natura delle questioni trattate consente la redazione della motivazione in forma semplificata.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Motivazione semplificata.


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