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Diritto e Fisco | Editoriale

Marchio CE contraffatto: reato

25 Luglio 2018
Marchio CE contraffatto: reato

China Export o Comunità Europea: quali sanzioni sono previste per chi falsifica il marchio CE?

C’è CE e CE. CE inteso come Comunità Europea e CE intesto come China Export. Chiaramente il secondo non è autentico. Non tanto perché c’è dietro la parola Cina, che a tutti richiama l’idea ormai del plagio e della contraffazione quanto perché viene utilizzato – con lo scopo di indurre in inganno i consumatori – lo stesso acronimo e rappresentazione grafica. Distinguere il marchio CE originale dal CE contraffatto non è facile: bisognerebbe avere i due campioni sempre disponibili per un confronto. Oppure, cosa molto più semplice, connettersi con un cellulare con questa pagina e scoprire come riconoscere il marchio CE della Comunità Europea. Una recente sentenza della Cassazione [1] si è occupata di spiegare quali sono le conseguenza penali per il reato di marchio CE contraffatto. La sentenza interviene in un momento in cui la guerra commerciale con l’Oriente è particolarmente serrata e si parla di un ritorno ai dazi per proteggere il made in Europe.

Se non ci fosse la Comunità Europea…

Spesso si pensa all’Unione Europea come a un peso, un vincolo per la nostra nazione che ha dovuto accettare limitazioni di sovranità e vincoli alle politiche monetarie. C’è però da considerare l’altro lato della medaglia: se oggi sui banchi dei supermercati arrivano prodotti controllati, se esiste una tutela dei consumatori o della privacy, se sono previsti standard di sicurezza sui prodotti pericolosi o inquinanti (si pensi alle auto), se i nostri bambini hanno in mano giocattoli sicuri e non tossici, se esiste una garanzia di almeno due anni per tutti gli acquisti al consumo, se i “cartelli” delle grosse compagnie sono stati contrastati e anzi assistiamo a continui ribassi dei prezzi per l’accaparramento della clientela (il tutto a beneficio del mercato), è solo merito dell’Europa. Il nostro Paese non si è mai mosso, in tanti anni di “democrazia”, a tutela del consumatore, dell’utente, della famiglia. Le uniche norme che oggi applichiamo derivano da regolamenti o direttive comunitarie. Oggi non sapremmo neanche cos’è una garanzia di qualità se non esistesse il marchio CE.

Per questo è necessario – dice la Cassazione – punire severamente chi falsifica l’etichettatura dei prodotti.

Quali sanzioni per il marchio CE falso

La marchiatura “CE” prevista dalla direttiva 2006/42/CE, che disciplina una serie di prodotti destinati ai consumatori finali, garantisce al cittadino europeo la conformità dei dispositivi agli standard di qualità e sicurezza fissati dagli organi comunitari. Tale marchio ha dunque la funzione di tutelare gli interessi pubblici della salute e sicurezza dei consumatori e, pur non essendo un marchio di qualità o di origine, costituisce un «marchio amministrativo» che segnala la libera circolazione di quel prodotto nel mercato unico europeo. Pertanto, precisa la Cassazione, se tale marchio dovesse risultare falso o ingannevole, il comportamento del colpevole sarebbe rilevante ai fini penali e costituirebbe reato di frode in commercio. Tale marchio infatti, pur non incidendo sulla provenienza del prodotto, incide sulla qualità e sicurezza dello stesso.

Cos’è la frode in commercio

Il codice penale [2] punisce chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita. La pena per tale reato è severa: scatta infatti la reclusione fino a due anni o la multa fino a 2065 euro. Se si tratta di oggetti preziosi, la pena è della reclusione fino a tre anni o della multa non inferiore a 103 euro.

Secondo la Corte di Cassazione, integra il reato di frode nell’esercizio del commercio la detenzione di merce recante la marcatura CE (indicativa della locuzione “China Export”) apposta con caratteri tali da ingenerare nel consumatore la erronea convinzione che i prodotti rechino, invece, il marchio CE (Comunità Europea), poiché quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato europeo.

Ai fini della sussistenza del reato, rileva la semplice messa in vendita di un bene difforme da quello dichiarato creando una divergenza qualitativa. Ed infatti la decettività della marcatura CE (China Export) – che si distingue da quella europea per la sola minima distanza delle due lettere – è elemento sufficiente di per sé ad ingannare il consumatore.

Come distinguere il marchio CE China Export dal marchio CE Comunità Europea

Vediamo ora quali sono le differenze tra il marchio CE Comunità Europea e CE China Export.

Nel marchio CE, che sta per Comunità Europea, c’è  più spazio tra la “C” e la “E”: il divario tra le due lettere è quasi pari ad un’altra C rovesciata (v. figura).

marchio-ce-1 

Le lettere C ed E del marchio non devono essere più piccole di 5 millimetri e, nel caso siano più grandi, le loro proporzioni vanno comunque rispettate.

Il marchio dev’essere apposto o sul prodotto stesso, o sulla sua targhetta segnaletica. Se ciò non è possibile a causa della natura del prodotto, il marchio CE deve essere apposto sull’imballaggio e/o sui documenti di accompagnamento.

Al contrario, nel caso di “China Export”, le due lettere sono meno distanti, anzi quasi unite.

Un metodo pratico ed efficace per comprendere se il marchio CE è originale o contraffatto è il seguente: se unendo virtualmente le lettere, come rappresentato in figura, si forma un otto, il marchio CE Comunità Europea è originale. In caso contrario è una contraffazione.


note

[1] Cass. sent. n. 33397/18 del 18.07.2018.

[2] Art. 515 cod. pen.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 20 giugno – 18 luglio 2018, n. 33397

Presidente Ramacci – Relatore Corbetta

Ritenuto in fatto

1. Con l’impugnata sentenza, il Tribunale di Roma condannava X.F. alla pena di Euro mille di multa, perché ritenuto responsabile del delitto di cui agli artt. 56, 515 cod. pen. per aver compiuto atti diretti in modo non equivoco a porre in commercio cose mobili diverse, per qualità e caratteristiche, da quelle reali e, in particolare, quale legale rappresentante della Dolce Capanna srl, per aver detenuto presso in locali in uso alla predetta azienda 2.576 sveglie e 27 tastiere per personal computer con applicato il lodo “CE” (China export), simile a quello prescritto dalla direttiva 2006/42/CE e in violazione degli artt. 16, par. 3, e 17 della direttiva medesima, e, quindi, idoneo a trarre in inganno i consumatori sulle caratteristiche dei prodotti.

2. Avverso l’indicata sentenza l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo si eccepisce violazione ed erronea applicazione degli artt. 56, 515 cod. pen. e della direttiva 2006/42/CE, recepita con d.lgs. n. 194 del 2007. Assume il ricorrente che il Tribunale avrebbe errato nei ravvisare il delitto in esame nella mera apposizione sulla merce del logo “CE”, attestante l’origine cinese del prodotto, ritenuto confondibile con il marchio “CE”, relativo alla “conformità Europea”, destinato a certificare, per taluni dispositivi, la conformità del prodotto agli standard di qualità e di sicurezza Europei, sotto un duplice profilo: da un lato, il Tribunale non avrebbe tenuto conto della direttiva 2004/108/CE, che disciplina gli apparecchi elettromagnetici, con esclusione di quelli, come i prodotti in esame, che non presentano rischi in termini di compatibilità elettromagnetica, in relazione ai quali, pertanto, la marchiatura CE non è obbligatoria; dall’altro, il Tribunale avrebbe erroneamente applicato la direttiva 2006/42/CE, la quale, invece, riguarderebbe solo i prodotti che possono essere definiti “macchine”. In ogni caso, nella vicenda in esame, sostiene il ricorrente, avrebbe dovuto trovare applicazione il disposto dell’art. 15, comma 6, d.lgs. n. 194 del 2007, vigente al momento del fatto, il quale configura un mero illecito amministrativo nei confronti di “chiunque appone marchi che possono confondersi con la marcatura CE”.

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. a) e lett. b) cod. proc. pen., in relazione all’esercizio, da parte del Tribunale, di una potestà riservata dalla legge agli organi legislativi, nonché eccesso di potere e analogia iuris, laddove il Tribunale ha ritenuto integrato il delitto di tentata frode in commercio nella marchiatura CE di dispositivi, per i quali la legge non prevede tale marchiatura. Il Tribunale, assume il ricorrente, avrebbe errato nell’applicare la direttiva 2006/42/CE e il relativo decreto di recepimento, in quanto non disciplinerebbe né le sveglie, né le tastiere per computer. Il Tribunale, pertanto, applicando la direttiva in esame, avrebbe operato un’indebita analogia iuris, eccedendo la propria competenza e travalicando i confini del proprio potere, in quanto la semplice apposizione della marcatura CE non avrebbe modificato in alcun modo l’essenza degli apparecchi per origine, provenienza, qualità o quantità.

2.3. Con il terzo motivo si lamenta manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione agli artt. 56 e 515 cod. pen. Il ricorrente censura la sentenza impugnata, laddove, come motivazione che si assume apparente e avulsa dalle risultanze probatorie, ha ravvisato il delitto in esame, senza che la merce sia stata visionata da un consulente o da un perito.

2.4. Con il quarto motivo si deduce manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 62 bis cod. pen. Sul punto, il Tribunale non avrebbe motivato in ordine alla mancata applicazione delle circostanze in esame.

3. Con motivi aggiunti depositati in data 4 giugno 2018, il ricorrente deduce altresì vizio di motivazione per aver il tribunale erroneamente, da un lato, ritenuto che i prodotti fossero esposti per la vendita, mentre erano stipati nel magazzino, e, dall’altro, ravvisato il delitto in esame, nonostante che per i prodotti in esame non sia obbligatoria la marchiatura CE.

Considerato in diritto

1. Il ricorso, al limite dell’inammissibilità, è, nel complesso, infondato e deve perciò essere rigettato.

2. I primi due motivi di doglianza, unitamente al secondo dedotto con i motivi aggiunti, possono essere trattati congiuntamente, perché attengono al carattere ingannevole del marchio CE (China Export) apposto sulla merce oggetto dell’imputazione ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 515 c.p.. Orbene, i motivi sono infondati, non avendo pregio, per escludere la sussistenza del delitto in esame, l’assunto difensivo secondo cui, per i prodotti in esame, non era obbligatoria la marchiatura “CE”.

2.1. Va ricordato che la marcatura “CE” è stata istituita dalla normativa comunitaria in quanto, con l’apposizione della stessa, il produttore o il suo legale rappresentante dichiara che è stata certificata la conformità del suo prodotto con i requisiti essenziali richiesti dal mercato Europeo. La funzione della marcatura “CE”, infatti, è quella di tutelare gli interessi pubblici della salute e sicurezza degli utilizzatoti dei prodotti, assicurando che essi siano adeguati a tutte le disposizioni comunitarie che prevedono il loro utilizzo. Detta marcatura, pur non fungendo da marchio di qualità o di origine, costituisce tuttavia un marchio amministrativo, che segnala che il prodotto marcato può circolare liberamente nel mercato unico dell’Unione Europea (vedi Cass., Sez. 2 18.9.2009, n. 36228, Wang).

2.2. Orbene, tale marchiatura, ove fasulla o ingannevole, rileva proprio ai sensi dell’art. 515 cod. pen., in quanto incide (non sulla provenienza ma) sulla qualità e sulla sicurezza del prodotto, il quale, appunto, è (falsamente) dichiarato essere conforme agli standard Europei. Deve perciò essere ribadito il principio secondo cui integra il reato di frode nell’esercizio del commercio la detenzione di merce recante la marcatura CE (indicativa della locuzione “China Export”) apposta con caratteri tali da ingenerare nel consumatore la erronea convinzione che i prodotti rechino, invece, il marchio CE (Comunità Europea), poiché l’apposizione di quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato Europeo (Sez. 3, n. 45916 del 18/09/2014 – dep. 06/11/2014, Tebai, Rv. 260914; Sez. 3, 9 giugno 2009, n. 23819, concernente proprio un’ipotesi di tentativo di frode in commercio posto in essere anche attraverso la commercializzazione di prodotti recanti il marchio CE contraffatto, indicativo della locuzione “China – Export”).

2.3. Invero, poiché l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice in esame è quello dello Stato e del consumatore al leale esercizio del commercio e il reato in essa previsto è integrato dalla semplice messa in vendita di un bene difforme da quello dichiarato, è evidente che la consegna di merce recante una marcatura ingannevole, che parrebbe attestare la rispondenza a specifiche costruttive che assicurano la sussistenza dei requisiti di sicurezza e qualità richiesti dalla normativa comunitaria, determina quella divergenza qualitativa che configura l’illecito penale. Infatti, la decettività della marcatura CE (China Export), che si distingue da quella Europea per la sola, impercettibile, diversa distanza tra le due lettere, è da sola sufficiente ad ingenerare nel consumatore la convinzione che la merce abbia le caratteristiche e gli standard Europei. Ne può darsi, neanche in astratto, l’ipotesi di merci prive della marcatura CE (Comunità Europea) che siano comunque dotate di tutti tali requisiti, perché l’apposizione del marchio CE da parte del produttore ha la funzione di certificare la conformità del prodotto con i requisiti essenziali richiesti dal mercato Europeo; e tale certificazione costituisce in sé un essenziale elemento qualitativo del prodotto.

2.4. Va, infine, osservato che, nel caso di specie, non trova applicazione il disposto dell’art. 15, comma 6, d.lgs. n. 194 del 2007, vigente al momento del fatto, il quale configura un mero illecito amministrativo nei confronti di “chiunque appone marchi che possono confondersi con la marcatura CE”, perché detta normativa – la quale disciplina le apparecchiature, che, come si ricava dall’art. 3, possono generare perturbazioni elettromagnetiche – all’evidenza non si applica né alle sveglie, né alle tastiere dei computer.

3. Manifestamente infondato è il terzo motivo, che, per omogeneità delle censure, può essere trattato unitamente al primo dei motivi aggiunti.

Secondo quanto accertato in sede di merito, la merce sequestrata, su cui era apposta la marcatura CE, era collocata sugli espositori per la vendita, ubicati presso la sede della Dolce capanna srl, esercente l’attività di commercio all’ingrosso di articoli da regalo, articoli per la casa e materiale elettrico ed elettronico. Orbene, a fronte di tale accertamento fattuale, non vi è dubbio che la merce fosse destinata alla vendita, il che integra gli estremi del tentativo di frode in commercio. In tal senso, peraltro, si è già espressa questa Corte, affermando che integra il reato di tentativo di frode in commercio il detenere, anche presso un esercizio commerciale di distribuzione e vendita all’ingrosso, prodotti privi di marcatura “CE” o con marcatura “CE” contraffatta (Sez. 3, n. 27704 dei 21/04/2010 – dep. 16/07/2010, Amato, Rv. 248133: in motivazione la Corte ha precisato che la presenza della marcatura è finalizzata ad attestare la conformità del prodotto a standard minimi di qualità).

4. Infondato è il quarto motivo, stante la sua genericità.

Invero, pur non avendo il Tribunale preso posizione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente non ha, tuttavia, indicato alcun elemento idoneo a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato, il quale, peraltro, è stato condannato alla multa, pur prevedendo l’art. 515 cod. pen. la pena alternativa.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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