Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 marzo – 4 settembre 2018, n. 21621
Presidente Bronzini – Relatore Negri Della Torre
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 8893/2015, depositata l’11 gennaio 2016, la Corte di appello di Napoli confermava ia sentenza ai primo grado, con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva rigettato la domanda di D.C.A. volta alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa allo stesso intimato da R.F.I. – Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. il 23 febbraio 2012 per avere il dipendente nello svolgimento delle mansioni di addetto al sistema di rilevazione delle presenze in servizio, fatto fittiziamente figurare la propria sul posto di lavoro in diverse giornate dei mesi di novembre e dicembre (…), secondo quanto emerso in sede di controlli effettuati dalla datrice di lavoro a mezzo di un’agenzia investigativa.
2. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il lavoratore con cinque motivi, cui la società ha resistito con controricorso, assistito da memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per avere il giudice di appello omesso l’esame di un fatto decisivo, individuato nella circostanza che il sistema di rilevazione tramite badge delle presenze del personale amministrativo era stato introdotto in azienda soltanto a partire dal 20/1/2012 e, pertanto, da una data successiva ai fatti oggetto di contestazione disciplinare (novembre/dicembre …).
2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 210, 420 e 437 cod. proc. civ., nonché dell’art. 2697 cod. civ., per avere il giudice di appello erroneamente ritenute incontestate circostanze dirimenti, quali la possibilità e l’obbligo del lavoratore di segnalare il proprio orario di entrata o uscita in ufficio, e per avere comunque omesso di compiere al riguardo i necessari accertamenti, dando ingresso alle prove richieste.
3. Con il terzo motivo viene dedotta la nullità della sentenza e del procedimento in relazione alla mancata ammissione della prova testimoniale diretta a dimostrare che ogni scostamento dall’orario di lavoro, da parte del ricorrente, era conosciuto e autorizzato dal suo superiore gerarchico.
4. Con il quarto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. per avere il giudice di appello contraddittoriamente prima individuato nella condotta del ricorrente un inadempimento contrattuale e poi qualificato lo stesso quale illecito aquiliano.
5. Con il quinto viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. e degli artt. 2 e 3 l. n. 300/1970 per avere la Corte di appello ritenuto legittimo il ricorso ad una agenzia investigativa, sebbene l’accertamento in tal modo compiuto dal datore di lavoro, riguardando il mancato rispetto dell’orario di lavoro o lo scostamento dallo stesso (e cioè non un illecito aquiliano ma un inadempimento contrattuale), tosse consistito in una vera e propria vigilanza sull’attività lavorativa dei ricorrente.
6. Il primo motivo risulta inammissibile, in virtù di quanto stabilito dall’art. 348 ter, ultimo co., cod. proc. civ., applicabile ratione temporis in presenza di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato in epoca successiva all’11 settembre 2012, data di entrata in vigore della disposizione.
7. D’altra parte, il ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo, non ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014; conformi Cass. n. 19001/2016 e Cass. n. 26774/2016).
8. Né tale onere può dirsi adempiuto con la sola asserzione (di cui ai ricorso, p. 11), per la quale “la sentenza di appello non contiene una sostanziale conferma della motivazione in fatto in primo grado, ma solo una conferma meramente formale, come tale non preclusiva”, differenziandosi tale pronuncia “per il percorso logico-giuridico seguito e diverso da quello del giudice di primo grado”, in quale tale asserzione non pone a confronto le motivazioni delle due sentenze di merito, ma si limita ad un giudizio di sintesi del tutto indimostrato.
9. Inammissibile risulta anche il quarto motivo, affidandosi il ricorrente ad affermazioni di contenuto generale e ad una generica denuncia di “evidenza” della contraddittorietà e della illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
10. È invece fondato e deve essere accolto il quinto motivo di ricorso.
11. Con riferimento alla portata degli artt. 2 e 3 l. n. 300/1970, i quali delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi, e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3), si deve premettere che essi non precludono il potere dell’imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (come, nella specie, un’agenzia investigativa) diversi dalle guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l’adempimento celie prestazioni lavorative e, quindi, di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica.
12. Tuttavia, ciò non esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, l’inadempimento essendo anch’esso riconducibile, come l’adempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma debba limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione (cfr., fra le molte conformi, Cass. n. 9167/2003).
13. Tale fermo principio è stato costantemente ribadito (ancora di recente da Cass. n. 15094/2018), sottolineandosi in particolare come le agenzie di investigazione, per operare lecitamente, non debbano sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 l. n. 300/1970, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori; di conseguenza resta giustificato l’intervento in questione solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.
14. L’impugnata sentenza n. 8893/2015 della Corte di appello di Napoli, la quale ha ritenuto legittimo il ricorso da parte della società datrice di lavoro ad un’agenzia investigativa, in una fattispecie di “sistematico allontanamento” del dipendente “dal luogo di lavoro, in assenza di qualsiasi comunicazione” (cfr. sentenza impugnata, p. 5), deve conseguentemente essere cassata, in relazione al motivo accolto, assorbiti il secondo e il terzo, e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio, alla medesima Corte in diversa composizione, che provvederà a fare applicazione del richiamato principio di diritto.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, dichiarati inammissibili il primo e il quarto e assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.