Con una condanna di primo grado non passata in giudicato si può essere licenziati? E in caso di patteggiamento? Che succede al dipendente sottoposto a indagini o con il processo ancora in corso?
Se, dopo aver commesso un reato sul lavoro (ad esempio un furto o la partecipazione a una rissa), subisci un processo penale non ti meraviglierà di certo ricevere la lettera di licenziamento. Anzi, di solito il licenziamento precede la stessa querela e quindi la condanna. Procedimento disciplinare e penale, in tali ipotesi, vanno di pari passo e l’uno trascina anche l’altro. Quello che però non sempre viene detto è che è ben possibile un licenziamento per giusta causa dopo una condanna penale per fatti estranei all’attività lavorativa, commessi quindi fuori dall’azienda e non collegati alle mansioni. Il caso tipico è quello di chi viene sorpreso con della droga in tasca nel corso di una serata tra amici. La Cassazione è stata più volte chiamata a decidere sulla validità del recesso dal contratto di lavoro attuato dall’azienda dopo aver saputo di una sentenza di condanna penale inflitta a un proprio dipendente: provvedimento che, in questi casi, viene adottato proprio per preservare l’immagine della società e l’idea di serietà e probità che deve proiettare sui potenziali clienti. A nessuno piace avere a che fare con un pregiudicato, anche se si tratta del commesso di un negozio di abbigliamento o del cassiere di un supermercato; a maggior ragione se costui è il funzionario di banca che deve consigliare un investimento o un venditore porta a porta. La vita personale delle persone – che piaccia o no – ha sempre degli strascichi sul lavoro ed è per questo che la giurisprudenza ha ritenuto, in linea di massima, valido il licenziamento per giusta causa a seguito di condanna penale. Ma non sempre. Si deve trattare di fatti sufficientemente gravi da compromettere il legame di fiducia tra datore e dipendente o da pregiudicare l’immagine che il pubblico può avere di una determinata realtà economica.
In questo articolo proveremo a fare il punto della situazione e, alla luce delle ultime sentenze della Cassazione, chiariremo quando un processo per un reato può avere effetti sul rapporto di lavoro. Procediamo dunque con ordine.
Licenziamento disciplinare per condanne penali
Se la responsabilità penale viene accertata con sentenza passata in giudicato (cui si equipara, per costante giurisprudenza, la sentenza di patteggiamento), il datore può recedere provando il venir meno del vincolo fiduciario e ciò purché le condotte penalmente rilevanti messe in atto abbiano un riflesso «sia pure soltanto potenziale ma oggettivo», sulla funzionalità del rapporto «compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.
Il licenziamento disciplinare si verifica quindi quando la condotta del dipendente lede il rapporto di fiducia con il datore di lavoro tanto da far ritenere a quest’ultimo che la prestazione lavorativa non sarà più svolta con serietà e affidabilità.
In altri termini, la rilevanza dell’illecito comportamento, di per sé del tutto esterna, può estendersi all’interno del rapporto di lavoro solo se può essere messa in dubbio la corretta esecuzione della prestazione.
Il licenziamento si attua attraverso due passaggi:
- una prima lettera di contestazione che dà al dipendente cinque giorni per difendersi ed eventualmente chiedere un incontro diretto col datore di lavoro;
- una seconda lettera che, valutate le difese, comunica il licenziamento.
Se la condotta del dipendete è molto grave (come nei casi di malafede) e le conseguenze per l’azienda sono rilevanti si avrà un licenziamento per giusta causa (si tratta del licenziamento in tronco, senza preavviso). Se invece, la condotta del dipendente è meno grave ma ugualmente tale da giustificare la cessazione del rapporto di lavoro (come nei casi di colpa grave) allora si avrà un licenziamento per giustificato motivo soggettivo (in tale ipotesi l’azienda è tenuta a dare il preavviso o, se vi rifiuta, l’indennità sostitutiva del preavviso).
La commissione di un reato può essere causa di licenziamento sia che l’illecito sia stato commesso nella vita privata che nell’esercizio delle proprie mansioni. La giurisprudenza ha prodotto numerose sentenze sul tema. Da queste possiamo trarre alcuni esempi in cui è possibile il licenziamento per giusta causa per condanne penali:
- emissione da parte di un dipendente bancario di assegni a vuoto [1];
- falsa testimonianza resa dal lavoratore in una causa civile [2];
- violenza sessuale nei confronti di terzi, tenuto conto del “forte disvalore sociale” dei fatti e dall’eco mediatico, nonché della posizione del lavoratore, quale coordinatore di circa 30 unità [3];
- spaccio di sostanze stupefacenti da parte di un lavoratore addetto alla cura e all’assistenza degli anziani [4], di un operaio addetto alle mansioni di carrellista in una catena di montaggio [5], di un autista di mezzi pesanti (condannato anche per associazione a delinquere [6]);
- allaccio abusivo per fini privati alla rete elettrica da parte di dipendente di azienda fornitrice di energia elettrica [7].
La giurisprudenza della Corte di Cassazione è infatti consolidale nel ritenere che i comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata, e quindi estranei al rapporto di lavoro, possono tuttavia assumere rilevanza “allorché per la loro gravità siano tali da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto, specialmente quando, per le caratteristiche e le peculiarità di esso, la prestazione lavorativa richieda un ampio margine di fiducia esteso alla serietà dei comportamenti privati del lavoratore”. Tale giurisprudenza, formatasi inizialmente con fattispecie relative ai dipendenti bancari, per la particolare fiducia richiesta dalla natura delle loro mansioni, si è poi estesa fino a comprendere tutte le altre categorie di lavoratori e a fondare, pertanto, un vero e proprio principio di diritto.
In un altro precedente [18] la Cassazione ha detto che il possesso di droga presso la propria abitazione non è causa di licenziamento. Innanzitutto, i Giudici del Palazzaccio sottolineano che «il concetto di condanna per reati infamanti non è specificato nel contratto collettivo nazionale» e poi aggiungono che «esso deve comunque ritenersi strettamente collegato ad una mancanza relativa di doveri propri del dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro». Quest’ultimo dettaglio è significativo, poiché, rimarcano i Giudici, in questa vicenda «la condanna» penale ha riguardato «fatti assolutamente estranei al rapporto di lavoro», ossia la mera «detenzione di sostanze stupefacenti», occultate dall’uomo «nel box della propria abitazione», senza la prova di eventuali «attività di spaccio», neanche «nell’ambiente di lavoro».
Nell’esercizio delle proprie mansioni, sono stati considerati giusta causa di licenziamento i seguenti reati:
- appropriazione di denaro dei correntisti [8];
- appropriazione di somme di denaro, anche se di modesta entità, da parte del dipendente addetto alla cassa [9];
- concessione di prestiti in denaro a colleghi di lavoro a tassi di interesse usurari [10];
- appropriazione indebita, contestata ad un cassiere di banca e posta in essere mediante doppia contabilizzazione di addebiti sul conto corrente dei clienti [11];
- produzione di falsi rimborsi spese per circa € 25 [12].
Il processo penale è giusta causa di licenziamento?
Nel nostro ordinamento vige la regola della presunzione di innocenza fino a condanna passata in giudicato; quindi, prima dell’emissione della sentenza penale, il dipendente sottoposto a indagini o a processo non può essere licenziato. Tuttavia, il licenziamento può avvenire in casi eccezionali anche senza il passaggio in giudicato della pronuncia.
Quando, con il processo penale, il dipendente è sottoposto a carcerazione preventiva il licenziamento è consentito nel momento in cui la sua assenza dall’azienda raggiunga una durata tale da far venire meno l’interesse del datore di lavoro alla prosecuzione del rapporto di lavoro [13]. Si tratta in questo caso di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo, quindi con preavviso.
È quindi illegittimo il licenziamento durante un processo penale quando la carcerazione preventiva è limitata a qualche giorno. Fanno eccezione i casi che abbiamo evidenziato sopra, quando cioè il procedimento penale evidenzia la gravità della condotta del lavoratore al punto tale da pregiudicare il legame fiduciario tra lo stesso e il datore di lavoro.
Se dopo il carcere il dipendente viene assolto ha diritto alla riassunzione?
Secondo la Cassazione, se a seguito di carcerazione preventiva viene emessa una sentenza di assoluzione, di proscioglimento, di non luogo a procedere o di archiviazione al lavoratore già licenziato spetta la reintegrazione ma senza corresponsione delle retribuzioni per il periodo tra il licenziamento e la reintegrazione [14].
Sentenza non passata in giudicato: c’è licenziamento?
La sentenza penale di condanna del lavoratore non ancora passata in giudicato non fa venire meno la fiducia del datore di lavoro al temporaneo espletamento dell’incarico. Pertanto non è possibile il licenziamento per giusta causa. È fatto salvo, in ogni caso, il diritto del datore di recedere dal contratto di lavoro – anche prima del passaggio in giudicato della pronuncia – se le circostanze oggetto del procedimento penale sono di estrema gravità [15].
Col patteggiamento si viene licenziati?
I fatti extra-lavorativi che integrano fattispecie di reato possono scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali. In questi casi è legittimo il licenziamento per giusta causa, purché dalle condotte penalmente rilevanti possa mettersi in dubbio la futura correttezza dell’adempimento. Ai fini della valutazione del giudice, l’applicazione della pena su richiesta (ossia il cosiddetto patteggiamento) è equiparabile sostanzialmente alla sentenza penale di condanna passata in giudicato. Quindi chi patteggia può essere licenziato ugualmente [16].
Rilevano anche i reati commessi in passato?
Le condotte costituenti reato del lavoratore possono integrare giusta causa di licenziamento anche se realizzate prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Ciò purché intervenga sentenza penale di condanna irrevocabile nel corso dello svolgimento del rapporto e purché i comportamenti messi in atto dal dipendente e penalmente rilevanti siano tali da ledere il vincolo fiduciario con il datore [17].
Licenziamento per spaccio droga
Con una recente ordinanza [18] la Cassazione ha detto che l’essere coinvolto nello spaccio di sostanze stupefacenti è un fatto di tale gravità da legittimare il licenziamento in tronco, indipendentemente dal fatto che il dipendente abbia o meno introdotto gli stupefacenti all’interno dell’azienda datrice di lavoro. Infatti, precisa la Corte, quello dello spacciatore è un comportamento che, oltre ad avere rilievo penale, è in tale contrasto con le norme dell’etica e del vivere civile da essere di per sé idoneo a compromettere in modo definitivo il necessario vincolo fiduciario tra datore di lavoro e dipendente, senza che a tale fine abbia rilievo la circostanza che il riflesso della condotta extra-lavorativa sul rapporto con il datore sia solo potenziale.
Inoltre non è necessario che il riflesso sulla relazione con il datore di lavoro sia attuale o immediato: laddove il comportamento del dipendente sia particolarmente riprovevole da un punto di vista etico e sociale, il riflesso di quest’ultimo sul rapporto lavorativo è oggettivo, anche ove solo potenziale. Pertanto, conclude l’ordinanza, la sentenza con cui al dipendente viene riconosciuto il diritto a essere reintegrato in azienda dev’essere cassata con rinvio alla Corte d’appello, che dovrà tenere conto di come la detenzione e spaccio di elevate quantità di stupefacenti sia condotta sussumibile, in astratto, nella nozione di giusta causa.
note
[1] Cass. 24 giugno 2000 n. 8631; Cass. 23 maggio 1992 n. 6180.
[2] Cass. 9 marzo 1998 n. 2626.
[3] Cass. 30 gennaio 2013 n. 2168.
[4] Cass. 3 settembre 2013 n. 20158.
[5] Cass. 9 marzo 2016 n. 4633.
[6] Cass. 19 ottobre 2017 n. 24745.
[7] Cass. 25 maggio 2017 n. 13197
[8] Cass. 13 giugno 2003 n. 9493.
[9] Cass. 22 novembre 2012 n. 20613.
[10] Cass. 5 agosto 2000 n. 10315.
[11] Cass. 2 febbraio 2009 n. 2579.
[12] Cass. 17 giugno 1991 n. 6814.
[13] Cass. 7 giugno 2013 n. 14469; Cass. 5 settembre 2008 n. 22536.
[14] Cass. 2 maggio 2000 n. 5499.
[15] Cass. ord. n.. 6937 del 20 marzo 2018.
[16] Cass. sent. 26679 del 10 novembre 2017.
[17] Cass. sent. n. 24259 del 29 novembre 2016.
[18] Cass. ord. n. 4808/19.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 22 maggio – 12 settembre 2018, n. 22194
Presidente Bronzini – Relatore Balestrieri
Fatto e diritto
Rilevato che:
La società AMSA p.a., azienda milanese servizi ambientali, proponeva reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Milano n.507/16, con cui venne ritenuta illegittimo (a differenza di quanto ritenuto con la precedente ordinanza) il licenziamento in tronco da essa intimato a D.M. il 17.7.15 ai sensi dell’art. 68 del c.c.n.l. di categoria (che prevedeva la massima sanzione in caso di condanna penale per reati infamanti, nella specie applicato per spaccio di sostanze stupefacenti avvenuto fuori dell’ambiente di lavoro e presso la sua abitazione).
Con sentenza depositata il 27.9.16, la Corte d’appello di Milano rigettava il reclamo ritenendo legittima una diversa valutazione dei fatti da parte del giudice dell’opposizione, stante l’autonomia di tale fase del procedimento di primo grado così come disciplinato dalla L. n. 92/12, e rilevando che trattavasi di fatti completamente estranei all’attività lavorativa, inidonei ad incidere sul rapporto di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’AMSA, affidato a quattro motivi, cui resiste il D. con controricorso.
Considerato che:
1.-Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 30, comma 3, L. n.183/10, 18 comma 4 L. n. 300/70 in relazione all’art. 68 commi 1 e 3 del c.c.n.l. di categoria, lamentando in sostanza che la sentenza impugnata escluse che il Tribunale fosse incorso in contraddizione per aver valutato differentemente i fatti rispetto alla fase sommaria, peraltro senza nessuna nuova acquisizione di materiale probatorio.
Il moti, o è infondato essendo pacifico (in tal senso anche la sent. n. 78/15 della C. Cost. che ha evidenziato il carattere sommario della prima fase, di coi ai commi 48 e 49 dell’art. 1 L. n. 92/12, rispetto a quella a cognizione piena della fase di opposizione; cfr. altresì Cass. n. 25046/15), che il giudice dell’opposizione possa giungere a conclusioni diverse non sole in base ad ulteriori elementi probatori ma anche a seguito ulteriore (e necessaria) valutazione delle circostanze di causa; la reclamante lamenta inoltre la violazione dell’art. 30, comma 3 della L. n. 183/10 secondo cui il giudice deve tener conto, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei c.c.n.l.; anche tale doglianza è infondata avendo la sentenza impugnata valutato la disciplina collettiva e ritenuto innanzitutto che il concetto di condanna per reati infamanti non era specificato dal c.c.n.l. e che esso doveva comunque ritenersi strettamente collegato ad una mancanza relativa ai dover propri del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro, sicché la condanna in questione, per riguardare fatti assolutamente estranei al rapporto di lavoro, non potesse in alcun modo essere riconducibile al concetto di giusta causa previsto dalla legge, in conformità della giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex aliis, Cass. n.1978/16).
2.-Con secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione delle norme di ermeneutica contrattuale relativamente all’art. 68, co.1, lett. f) del c.c.n.l. di categoria, nonché dell’art. 2119 c.c. circa la sussistenza di una giusta causa di licenziamento anche in ipotesi, pur denegata, di marcata previsione della condotta contestata tra quelle legittimanti il licenziamento.
Il motivo è in parte improcedibile per la mancata produzione del c.c.n.l.; comunque infondato, alla luce delle considerazioni svolte sub 1), ove si è rilevato che la giusta causa di licenziamento per fatti extralavorativi deve comunque incidere sull’elemento fiduciario correlato all’attività lavorativa svolta ed alle mansioni affidate al lavoratore.
3. Con il terzo e quarto motivo la ricorrente denuncia sempre la violazione degli artt. 2119 c.c., 30, comma 3, L. n.183/10, 18 comma 4 L. n. 300/70 in relazione all’art. 68 commi 1 e 3 del c.c.n.l. di categoria, evidenziando che la sentenza impugnata aveva dato rilievo a circostanze (detenzione di non meglio identificate sostanze stupefacenti, e di non meglio identificata quantità, nel box della propria abitazione, senza accertamento di attività di spaccio, tanto meno nell’ambiente di lavoro, e l’assenza di precedenti penali), che non avevano trovar adeguato riscontro nel processo.
I motivi congiuntamente esaminabili stante la loro evidente connessione e che non contestano la veridicità delle circostanze evidenziate corte di merito, sono inammissibili, mirando nella sostanza ad una diversa valutazione dei fatti di causa rispetto a quella operata dal giudice di merito, tenuto peraltro ad esaminare tutte le caratteristiche del caso concreto (cfr., ex aliis, Cass. n. 8826/17, Cass. n. 24809/15, Cass. n. 5280/13, etc. secondo cui la valutazione in ordine legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente).
4.- Il ricorso deve pertanto rigettarsi.
Le spec di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese dei presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi; Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.