Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 maggio – 13 settembre 2018, n. 22387
Presidente Manna – Relatore Bellè
Fatti di causa
1. V.G. ha agito nei confronti del proprio ex datore di lavoro Intesa S. Paolo, già S. Paolo Imi, esponendo di avere ottenuto, in ragione di un distacco dalla sede di Padova a quella di Vicenza, un contributo mensile per le spese di viaggio. Cessato il distacco e venute meno le esigenze di viaggio, proseguiva il ricorrente, la banca aveva ciononostante continuato a riconoscergli quell’emolumento, dal settembre 2004 fino alla cessazione del rapporto nel marzo 2008, sicché egli chiedeva che si tenesse conto di esso nel calcolo del t.f.r. ed al fine del risarcimento da lui contestualmente domandato in ragione del mancato computo nella determinazione della pensione integrativa aziendale.
2. La Corte d’Appello di Torino, riformando con sentenza n. 1164/2012 la contraria pronuncia del Tribunale della stessa sede, ha respinto tali richieste, accogliendo al contempo la domanda riconvenzionale con cui Intesa S. Paolo chiedeva la restituzione dei pagamenti eseguiti, in quanto indebiti.
La Corte d’Appello riteneva che il pacifico venir meno del titolo per il quale era stato previsto quel contributo, rendeva ex se fondata l’azione di ripetizione dell’indebito, spettando al lavoratore dimostrare il sopravvenire di un nuovo titolo che giustificasse le erogazioni e la considerazione di esse per i fini dedotti in giudizio. Prova che non poteva essere ravvisata negli elementi presuntivi indicati dal Tribunale (durata del pagamento per 43 mesi; sua esecuzione nonostante una nota datoriale escludesse trattamenti economici aggiuntivi in favore del ricorrente; corresponsione del rimborso a forfait anche quando vi erano trasferte, spese a parte; successivo recupero del pagamento omesso, rispetto ad un mese in cui non vi era stata la corresponsione) in quanto essi, secondo la Corte, avrebbero al più consentito di ritenere dimostrato che il datore di lavoro conoscesse o fosse in grado di conoscere il fatto che stava corrispondendo al dipendente un trattamento non dovuto, dato da cui non derivava però l’accertamento positivo della debenza, né che l’erogazione fosse collegata agli accordi di cui era menzione nel ricorso introduttivo. Infine non poteva farsi riferimento, secondo la Corte distrettuale, ai capitoli di prova testimoniale dedotti, in quanto generici o non conferenti.
3. Il V. ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, resistiti da controricorso di Intesa S. Paolo. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2033, 2099 e 2697 c.c., nonché degli artt. 49 e 51 del d.p.r. 917/1986, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto automaticamente indebite tutte le somme erogate al dipendente il cui titolo o la cui imputazione, imposte dal datore di lavoro, non corrispondeva alla realtà dei fatti.
Con il secondo motivo si afferma, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c, la violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. per avere ritenuto che egli fosse tenuto ad allegare e provare una fonte di debito alternativa che, una volta esclusa la sussistenza del titolo cui il solvens aveva imputato il pagamento, giustificasse l’erogazione delle corrispondenti somme.
Con il terzo motivo si lamenta ex art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione degli artt. 115, 116, 244 e 420 c.p.c. per non avere la Corte distrettuale ammesso i tre capitoli di prova testimoniale finalizzati a dimostrare l’accordo per il mantenimento ad altro titolo dell’indennità oggetto di causa.
Con il quarto motivo la sentenza impugnata è censurata, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., sul presupposto che siano stati violati gli artt. 2727, 2729 c.c. e 116 c.p.c., essendosi fondata, l’esclusione della ricorrenza di elementi indiziari favorevoli alla sussistenza di un accordo di mantenimento del trattamento ad un diverso titolo, su un ragionamento presuntivo illogico ed inadeguato.
Il quinto ed ultimo motivo afferma infine la violazione degli artt. 1428, 1429, 1431 e 2033 c.c., sotto la rubrica ancora dell’art. 360 n. 3 c.p.c., per non avere la Corte riportato la vicenda alla disciplina dell’errore negoziale, così omettendo di richiedere la necessaria prova dell’essenzialità e riconoscibilità per l’accipiens, quale controparte del pagamento asseritamente non dovuto.
2. Il primo e secondo motivo sono fondati ed assorbenti.
3. È pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che spetti al solvens che agisca per ripetizione di indebito dimostrare l’assenza di causa debendi (Cass. 10 novembre 2010 n. 22872; Cass. 13 novembre 2003, n. 17146; Cass. 23 agosto 2000, n. 11029), il che è ineludibile conseguenza della evidente presunzione di giuridicità, in sé, del pagamento, quale effetto del fatto stesso che esso sia avvenuto.
In punto di fatto, rispetto al caso di specie, è altrettanto pacifico e ripetuto più volte da entrambe le parti, che la causa originaria del pagamento, cui nelle buste paga ha continuato ad imputarsi l’erogazione dell’indennità in questione, ovverosia il contributo mensile per spese di viaggio, era venuta meno dal 1.9.2004.
Ciò non può però significare che, per i pagamenti intervenuti successivamente, mese per mese, fino alla cessazione del rapporto in data 31.3.2008, spetti all’accipiens dimostrare una diversa causa debendi.
Se infatti è vero che quel titolo originario era venuto meno, è altrettanto vero che l’erogazione è proseguita costantemente per anni.
D’altra parte il principio menzionato dalla banca nelle proprie difese, secondo cui “al solvens compete determinare la causa di ciascun pagamento e, anzi la configurazione di questo in riferimento ad un determinato (…) obbligo conforme”, sicché “nella successiva azione di ripetizione il solvens deve dimostrare l’inesistenza solo di quella causa da lui stesso individuata all’atto del pagamento, incombendo allo accipiens la dimostrazione di un’eventuale altra fonte di debito” (Cass. 28 luglio 1997, n. 7027), se può essere condiviso rispetto a singoli pagamenti in sé considerati, mal si attaglia al caso, come quello di specie, in cui le erogazioni di cui si assume la natura indebita si inseriscono nell’ambito di un rapporto di durata ed assumono conformazione identica a quella delle obbligazioni pecuniarie tipiche di esso. Determinandosi, in tale diverso contesto, la necessità che la regula iuris si adegui rispetto agli affidamenti che in tal modo necessariamente si creano all’interno del rapporto stesso.
Conclusione che del resto appare coerente con il parallelo e più generale principio, secondo cui la corresponsione continuativa di un assegno al dipendente è generalmente sufficiente a farlo considerare, salvo prova contraria, come elemento della retribuzione (Cass. 9 maggio 2003, n. 7154).
Deve allora affermarsi che va presunta la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell’ambito di un rapporto di lavoro, spettando al solvens dimostrare l’insussistenza di essa. Quindi, non potendo la dimostrazione che fare leva su elementi contrari rispetto all’esistenza di quel titolo, dovrebbe provarsi l’effettivo e concreto verificarsi di un errore oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che la stessa controparte in concreto abbia addotto quale fondamento della persistente attribuzione retributiva.
Il ragionamento della Corte territoriale secondo cui, essendo pacifico il venir meno dei presupposti, di fatto e diritto, che avevano precedentemente giustificato quell’erogazione aggiuntiva, spetterebbe al lavoratore dimostrare un nuovo titolo per la sua attribuzione, è quindi errato e viola gli artt. 2697 e 2033 c.c.
4. L’accoglimento dei primi due motivi comporta l’assorbimento dei restanti, in cui si muovono critiche rispetto al fatto che i mezzi istruttori su cui aveva fatto leva il lavoratore non fossero stati ammessi (prova testimoniale) o non fossero stati adeguatamente valutati (prova presuntiva).
Il venire meno dell’impostazione di fondo, rispetto al riparto degli oneri probatori, su cui si è basata la sentenza impugnata determina infatti la necessità di un nuovo apprezzamento del materiale istruttorio, su corrette basi giuridiche, in sede di rinvio. Resta infatti senza sostegno l’affermazione, da cui muove la motivazione del rigetto pronunciato dalla Corte territoriale rispetto alle pretese del V. , secondo cui il lavoratore non avrebbe assolto l’onere della prova dell’esistenza di un titolo alternativo: infatti le circostanze di causa vanno apprezzate muovendo dall’opposto principio, per cui si deve viceversa presumere che vi sia il titolo retributivo, onde valutare se sia dimostrato o meno ciò che il datore di lavoro, per contrastare un’attribuzione di tale natura, è onerato di provare.
5. Non diversamente, la questione sulla riconoscibilità dell’eventuale errore commesso nel pagamento, sollecitata con il quinto motivo, postula evidentemente la prova che sbaglio vi sia stato, il che, stante la presunzione di sussistenza della causa debendi retributiva, in tanto potrà essere affermato, in quanto nel prosieguo del giudizio si concluda appunto per il verificarsi dei pagamenti in questione a causa di un (provato) errore da parte del solvens. Anche da questo punto di vista vi è quindi assorbimento del relativo motivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione.