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Demansionamento: risarcimento danni e quantificazione

14 Ottobre 2018
Demansionamento: risarcimento danni e quantificazione

Spostamento delle mansioni del dipendente verso il basso: oltre al diritto alla conservazione della retribuzione, spetta il risarcimento dei danni patrimoniale e non patrimoniali ma la prova spetta al lavoratore.

L’azienda ti ha cambiato di mansioni. Il datore sostiene che, nell’ottica di una riorganizzazione del lavoro, è necessario che tu svolga altre attività visto che lì dove prima stavi non c’è più bisogno della tua opera. A tuo avviso però le nuove funzioni sono di livello più basso rispetto a quelle precedenti. Si tratta insomma di un demansionamento. La tua qualifica professionale, la formazione e l’esperienza acquisita in tutti questi anni vengono svilite. Anche lo stipendio ha subìto una sensibile diminuzione. Sicché ti decidi di contestare la decisione e di incrociare le braccia in attesa di un ripensamento. Il datore, al contrario, ti minaccia: a suo avviso se non vai a lavorare può licenziarti. A te sembra paradossale perdere il posto a causa di un comportamento illecito altrui. Così ti rivolgi a un avvocato perché agisca in tribunale. La Cassazione si è spesso occupata del problema del demansionamento, del risarcimento danni e della quantificazione di tale importo. È un argomento spesso dibattuto nei tribunali anche se ormai la giurisprudenza ha assunto un proprio filone interpretativo costante.

In questo articolo ti spiegheremo dunque quali sono i diritti e i doveri del dipendente che ha subito una modifica di mansione verso il basso: se può rifiutarsi di lavorare e se può chiedere il risarcimento del danno. Ma procediamo con ordine.

Cos’è il demansionamento?

Il demansionamento è una attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle pattuite contrattualmente. Vedremo qui di seguito che, in alcuni casi, è legittimo (si tratta di ipotesi eccezionali) mentre di regola è vietato e dà diritto al risarcimento dei danni. Danni però che il dipendente deve dimostrare in modo puntuale, non potendo essere presunti solo per il semplice fatto che questi ha subito un abbassamento delle attribuzioni lavorative. Di tanto parleremo più dettagliatamente qui di seguito. Iniziamo a vedere quando il demansionamento è legittimo.

Quando è possibile spostare un dipendente a mansioni inferiori

Il dipendente può essere adibito a mansioni inferiori (cosiddetto demansionamento) solo in due casi:

  • se c’è una modifica effettiva dell’assetto e dell’organizzazione dell’azienda, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso;
  • oppure se previsto dal contratto collettivo.

In entrambe le ipotesi le nuove mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento immediatamente inferiore nella classificazione contrattuale, a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.

Secondo il tribunale di Roma [1], con l’abrogazione del principio di equivalenza sostanziale e la nuova formulazione del codice civile [2], la legge non protegge più l’interesse del prestatore alla conservazione del bagaglio professionale come tale. Possono oggi essere attribuite al dipendente anche mansioni nettamente inferiori in termini qualitativi e quantitativi. Se la scelta del datore è illecita, va comunque provato il danno subito.

Fuori dalle due ipotesi appena indicate, il demansionamento è vietato. In particolare è illegittimo modificare i compiti del dipendente se questi viene adibito a mansioni inferiori, marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza (salvo che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza). Ad esempio, non costituisce demansionamento la conservazione di mansioni (non dirigenziali) proprie dell’addetto all’ufficio legale di una banca con la sola perdita del potere di firma degli atti di gestione dei rapporti giuridici sostanziali, modifica dovuta all’inserimento della banca in un’altra di più grandi dimensioni.

Quand’anche fosse disposto un demansionamento legittimo, il dipendente ha diritto a conservare lo stesso stipendio che aveva prima. È tuttavia escluso il mantenimento degli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.

Che fare in caso di demansionamento?

Se il demansionamento avviene in ipotesi diverse da quelle indicate è illegittimo. Il dipendente ha la possibilità di agire in tribunale per ottenere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta oppure, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto, sciogliersi dal contratto per giusta causa (e ottenere dall’Inps l’assegno di disoccupazione).

Il dipendente non può, in via di autotutela e in attesa che il giudice si pronunci, smettere di lavorare. Il suo comportamento – salvo quando giustificato da validi e urgenti motivi – è passibile di un procedimento disciplinare che potrebbe anche dar luogo a un licenziamento per giusta causa. Quindi il lavoratore demansionato non può incrociare le braccia ma deve continuare a svolgere le nuove mansioni anche se illegittime, in attesa che il giudice annulli il provvedimento aziendale.

Demansionamento e risarcimento del danno

La facoltà del datore di lavoro di modificare nel corso del rapporto le mansioni attribuite al dipendente al momento dell’assunzione, se non avviene correttamente, può comportare danni al lavoratore che, come tali, potrebbero ritenersi risarcibili.

Se il datore intende procedere unilateralmente a variazioni in questo senso, è chiamato dunque a prestare particolare attenzione, oltre che alle modalità di esercizio e di comunicazione al lavoratore, anche al fatto che con l’assegnazione delle nuove competenze il prestatore non sia oggetto, in particolare, di conseguenze dannose per la sua professionalità.

Il demansionamento può dar luogo a due tipi di danni:

  • danni patrimoniali, consistenti nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore, oltre che «nella mancata acquisizione di un maggior saper fare» [3] ed eventualmente a titolo di perdita di chance, nel caso in cui al dipendente siano precluse ulteriori possibilità di guadagno e potenzialità occupazionali.
  • danni non patrimoniali, consistenti in una lesione alla personalità o ai beni immateriali rientranti nella sfera della personalità del lavoratore e tutelati costituzionalmente (ad esempio, il diritto alla salute) [4].

Attenzione però: il semplice fatto che il dipendente sia stato adibito a mansioni inferiori non implica in automatico il diritto al risarcimento. Egli infatti deve prima dimostrare di aver subìto un danno. Come chiarito dalla Cassazione [5], il danno da demansionamento è una conseguenza possibile, ma non necessaria, della violazione delle norme lavoristiche in tema di divieto di mobilità verso il basso. Il lavoratore, ai fini del risarcimento, deve fornire la prova del pregiudizio derivante dal demansionamento, oltre che del nesso causale tra il comportamento del datore e il danno subito, e questo può avvenire anche attraverso indizi (giuridicamente si chiamano “presunzioni”).

A chi spetta dimostrare il danno?

Abbiamo appena detto che il datore non è sempre chiamato a rispondere in caso di demansionamento; egli deve risarcire i danni solo se il lavoratore dimostra di aver subìto un nocumento. Quest’ultimo non può cioè limitarsi a richiamare l’inadempimento contrattuale del titolare, ma ha l’onere di fornirne una idonea dimostrazione e di allegare in modo specifico «la natura e le caratteristiche del pregiudizio» subito.

Insomma, in caso di demansionamento, il risarcimento del danno non è automatico.

Afferma infatti la Corte che in materia di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che ne deriva, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale,  non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Occorre infatti distinguere tra violazione degli obblighi contrattuali e produzione del danno da inadempimento.  Quest’ultimo non necessariamente scaturisce sempre da un inadempimento, essendo infatti necessario individuare un effetto della violazione su di un determinato bene affinchè si possa configurare un danno e procedere di conseguenza alla sua liquidazione.

Già le Sezioni Unite si sono pronunciate in tema di demansionamento e di dequalificazione [7], affermando che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio e dalla prova dell’esistenza del danno stesso e del nesso di causalità, che per il danno esistenziale può risultare anche in via presuntiva.

In tema di demansionamento e di dequalificazione – ha ribadito la Corte – affinchè venga riconosciuto il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che ne deriverebbe, non si può prescindere da una specifica prova, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Per ciò che concerne il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica accertabile da un medico, mentre il danno esistenziale (da intendere come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno) va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento.

Ed ancora la Corte ha detto che [8] in tema di demansionamento e dequalificazione, il lavoratore non ha automaticamente il diritto al risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale dovendo egli allegarne specificatamente i presupposti nel ricorso introduttivo del giudizio. In altre parole, il lavoratore deve dedurre «l’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno». Non è dunque sufficiente in tal senso la dimostrazione della mera potenzialità lesiva della condotta della controparte, dovendo comunque il lavoratore fornire la prova del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.

Quantificazione del danno da demansionamento

La giurisprudenza è molto elastica nel definire le modalità per la quantificazione del danno da demansionamento. In particolare rilevano una serie di variabili come le caratteristiche, la durata, la gravità, la conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro dell’avvenuta dequalificazione professionale. Sarà necessario anche verificare se le aspettative di progressione professionale del lavoratore – che si assumono lese – siano precise e ragionevoli e, in concreto, siano state oggetto di frustrazione. Bisogna eventuale provare anche eventuali «effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto» [9].

  


note

[1] Trib. Roma, sent. del 2.02.2018

[2] Art. 2103 cod. civ.

[3] Cass. sent. n. 330/2018. «Il demansionamento del lavoratore può produrre una serie di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale, sia non patrimoniale, che possono consistere nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore, oppure nella perdita di ulteriori possibilità occupazionali o di possibilità di guadagno. In ogni caso, chi ha subito il danno deve provarlo con precisi oneri di allegazione e prova».

[4] Cass. sent. n. 22288/17: «Il danno non patrimoniale patito dal lavoratore in seguito a demansionamento va risarcito ogniqualvolta siano lesi alcuni diritti inviolabili costituzionalmente garantiti. Il datore di lavoro risponde a titolo di responsabilità contrattuale, quando il dipendente ne offra una dimostrazione, anche tramite presunzioni semplici, sulle quali il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento».

[5] Cass. sent. n. 13484/2018 del 29.05.2018.

[6] Cass. sent. n. 25071/18.

[7] Cass. S.U. sent. n. 6572/06; cfr. anche Cass. sent. n. 29832/2008.

[8] Cass. sent. n. 17978/18.

[9] Cass. sent. n. 17976/2018: «Dal demansionamento possono derivare pregiudizi al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, ma non si tratta di danni configurabili in re ipsa. Il lavoratore che si assume danneggiato deve fornirne idonea prova e può ricorrere all’uso di presunzioni, purché alleghi la natura del pregiudizio e dimostri circostanze diverse e ulteriori rispetto al mero inadempimento del datore».

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 luglio – 10 ottobre 2018, n. 25071

Presidente Napoletano – Relatore Leo

Fatti di causa

La Corte territoriale di Napoli, con sentenza depositata il 18.5.2012, respingeva l’appello interposto da I.L. , nei confronti di Poste Italiane S.p.A., avverso la sentenza del Tribunale di Benevento che aveva accolto il ricorso, “per quanto di ragione”, con il quale la I. , dipendente della predetta società, assunta con mansioni riconducibili alla IV qualifica funzionale, chiedeva che fosse ordinato alla datrice di lavoro di inquadrarla nell’Area Operativa del CCNL 1994/1997, con decorrenza dal 13.12.1995 e nel corrispondente livello C del nuovo CCNL dall’1.1.2004, con conseguente condanna della società al pagamento delle differenze retributive a far data dal 13.12.1995, nonché al risarcimento del danno professionale e di quello biologico subiti in conseguenza del dedotto demansionamento.

Per la cassazione della sentenza ricorre la I. articolando tre motivi cui resiste Poste Italiane S.p.A. con controricorso.

Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1226 e 2697 c.c. ed in particolare, si lamenta che i giudici di merito avrebbero erroneamente ritenuto che i dedotti danni, professionale e biologico, fossero sforniti di prova e che non avrebbero considerato che, sino al 2002, epoca in cui la società datrice aveva consentito alla dipendente di svolgere, di fatto e con precisi ordini di servizio ben scadenzati, mansioni rientranti nell’Area Operativa, la I. era stata costretta a svolgere mansioni inferiori a quelle per cui era stata assunta; dalla qual cosa sarebbe derivato il danno professionale derivante dall’impoverimento della capacità professionale ovvero dalla perdita di chances, a causa dell’ingiusta permanenza per più di sette anni nell’Area di base. Tale evidente danno, a parere della ricorrente, avrebbe dovuto essere risarcito ai sensi dell’art. 1226 c.c..

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., per “contraddittorietà della motivazione sulla domanda di risarcimento del danno professionale e del danno biologico conseguenti al declassamento” e si assume che il demansionamento si sia protratto per oltre sette anni, essendo solo di fatto cessato nel 2002, ed altresì che, in quanto consistente nell’assegnazione della lavoratrice a mansioni rientranti nell’Area di base prevista dall’art. 42 del CCNL 1994/1997 (cui si accedeva con diploma di licenza media inferiore e che comprendeva attività semplici richiedenti conoscenze elementari), avrebbe inevitabilmente inciso negativamente sulla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa acquisita nella qualifica funzionale di appartenenza corrispondente all’Area Operativa (cui si accede con titolo di studio di livello superiore).

3. Con il terzo mezzo di impugnazione si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103, 2043, 2056, 1226, 2087, 2697 c.c. e 1 e 2 della Costituzione ed ancora si lamenta che i giudici di prima e di seconda istanza non abbiano accolto la domanda di risarcimento del danno professionale e di quello biologico perché non sarebbe stata allegata alcuna circostanza, se non un mero declassamento, idonea a dimostrare il pregiudizio patito, specificandone la natura e la tipologia. E ciò, a parere della ricorrente, non può che configurare la violazione delle norme innanzi citate, poste a tutela del lavoratore, in quanto i giudici di merito avrebbero dovuto desumere dal demansionamento l’esistenza del relativo danno in base agli elementi di fatto relativi alla durata della qualificazione e ad altre circostanze del caso concreto, potendo procedere ad un’autonoma valutazione equitativa del danno.

4. I motivi, da trattare congiuntamente, stante l’evidente connessione, non sono fondati.

Invero, i giudici di seconda istanza sono pervenuti alla decisione impugnata in questa sede, uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali, in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass. n. 5237/2011).

Pacificamente, infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c. è necessario individuare un effetto della violazione su di un determinato bene perché possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi ha chiarito (v. sent. n. 372/1994) che neppure il danno biologico è presunto, perché se la prova della lesione costituisce anche la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato.

Nello stesso senso questa Corte ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016; 691/2012).

Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonché il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013; 14158/2011; 29832/2008).

Facendo corretta applicazione dei principi enunciati, i giudici di merito hanno motivatamente disatteso le pretese della lavoratrice, perché sfornite di prova, ritenendo correttamente non sufficiente al fine della liquidazione del danno biologico e di quello professionale, la sola dequalificazione dedotta dalla I. .

5. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

6. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.


Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 marzo – 9 luglio 2018, n. 17978

Presidente Napoletano – Relatore Tricomi

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Genova rigettava le domande proposte da I.E. , volte alla condanna dell’Agenzia delle entrate – Direzione regionale della Liguria – a risarcirle il danno patrimoniale, da perdita di chance, biologico, esistenziale e morale.

Ciò, come prospettato dalla lavoratrice, in ragione della condotta vessatoria posta in essere, in violazione degli articoli 2087 e 2103 del codice civile, dal datore di lavoro.

Tale condotta era iniziata nel giugno 2000, quando la lavoratrice era stata demansionata mediante assegnazione al cosiddetto team legale, in posizione subordinata rispetto a un funzionario di qualifica inferiore, e con compiti di livello quantitativo inferiore rispetto a quelli precedenti.

Tale condotta era proseguita per averle l’Amministrazione negato per quasi due anni la fornitura di un computer, per averla collocata in una stanza di anguste dimensioni, condiviso con altro collega.

2. La Corte d’Appello di Genova in riforma della sentenza del Tribunale accoglieva l’impugnazione affermando che risultava provato che a partire dal giugno 2000 l’appellante aveva subito un demansionamento vietato dall’articolo 2103 del codice civile.

Risultava quindi provata la menomazione della capacità professionale della lavoratrice e trattandosi di danno patrimoniale per quanto detto certo nell’an, esso poteva essere liquidato avendo riferimento ai parametri che le stesse parti collettive hanno stabilito per la remunerazione delle maggiori responsabilità connesse al coordinamento e al controllo riservati ai funzionari preposti ai vari team in cui è strutturata l’agenzia.

Tale danno, quindi, andava a ristorare anche la perdita dell’indennità di particolare posizione di cui la lavoratrice aveva goduto sino al 30 giugno 2000, in qualità di Capo reparto.

Quindi l’Agenzia delle entrate veniva condannata a risarcire il danno patrimoniale per l’accertata violazione dell’art. 2103 cod. civ., nella misura di Euro 4,31 per tutti i giorni di effettiva presenza al lavoro cadenti nel periodo 1 giugno 2000- 31 dicembre 2000 e di Euro 6,20, per tutti i giorni di effettiva presenza al lavoro cadenti nel successivo periodo sino al 31 dicembre 2007. Gli importi andavano maggiorati degli interessi legali dalla maturazione al saldo.

La Corte d’Appello affermava che non potevano essere liquidati ulteriori danni di natura non patrimoniale nei vari profili dedotti biologico, esistenziale e morale.

Si trattava di danni che non possono ritenersi in re ipsa, per cui non potevano essere liquidati in via equitativa, occorrendo specifica allegazione e prova, che nella specie era mancata.

3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre sia la lavoratrice prospettando tre motivi impugnazione, sia l’Agenzia delle entrate che propone ricorso incidentale articolato in quattro motivi.

4. La lavoratrice ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso la lavoratrice censura la sentenza per non avere la Corte d’Appello riconosciuto il danno non patrimoniale, e deduce la violazione degli articoli 2103 e 2697 del codice civile, nonché degli articoli 112 e 115 del codice di procedura civile, assumendo il vizio di violazione di legge.

La Corte d’Appello, riconoscendo il danno patrimoniale diretto avrebbe violato: l’articolo 112 cod. proc. civ., non avendo pronunciato su tutta la domanda, l’articolo 115 cod. proc. civ., non avendo posto a fondamento della decisione le prove proposte dalla ricorrente, e l’articolo 2697 cod. civ., non avendo accertato che la prova fosse stata raggiunta.

2. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass., n. 29047 del 2017).

La Corte d’Appello ha affermato, in ragione di una articolata valutazione delle risultanze probatorie, che la ricorrente non aveva fornito la prova degli ulteriori danni; dalle testimonianze raccolte in prime cure non era emerso alcun deterioramento delle relazioni in ambito lavorativo, sociale o familiare, a cui ricollegare un pregiudizio obiettivamente apprezzabile e causalmente derivante dai comportamenti denunciati.

Era risultato smentito che alla condotta di demansionamento, e a quelle ulteriori quali la mancata assegnazione di una stanza o di un computer, fosse conseguito alcun danno all’integrità psicofisica dell’appellante.

La consulenza medico legale svolta in appello aveva concluso nel senso della insussistenza di elementi probanti il nesso di causa tra le condotte inadempienti e il disturbo di tipo depressivo ansioso allegato dall’appellante.

Il CTU rilevava, in particolare, che il disturbo dell’adattamento, nel quale veniva inquadrata la patologia della lavoratrice, ha nella maggior parte dei casi durata transitoria, precisando che la diagnosi di detto disturbo richiede che lo stesso sorga e si manifesti entro tre mesi dall’evento traumatico.

Nel caso di specie, pur facendosi riferimento ad un demansionamento iniziato già negli anni 2000-2001, la prima certificazione che indicava una sofferenza psicologica era del 2007 e il riferimento della stessa a difficoltà dell’ambiente lavorativo era di natura meramente amnestica.

Inoltre, non vi erano periodi significativi di assenza dal lavoro, mentre il disturbo in questione si traduce di regola nell’incapacità di rendere la prestazione lavorativa.

Il CTU, inoltre, rispondeva alle osservazione del CT di parte, il quale intendeva spiegava l’assenza di documentazione in ragione della negazione della patologia come reazione psicologica di difesa della paziente, affermando che ciò era una mera congettura posto che la mancanza di certificazioni coeve al manifestarsi dei sintomi, indispensabili per la diagnosi di un disturbo di natura psichica, rende evidente la mancata soddisfazione sia del criterio cronologico che quello della continuità fenomenologica.

La Corte d’Appello condivideva le risultanze della CTU non solo perché immuni da vizi tecnico-scientifici, ma perché coerenti con le prove orali e documentali assunte, non potendosi riferire con il necessario grado di certezza imposto dall’art. 2697 cod. civ. a stress lavorativo né qualificarsi come sintomatici del medesimo, i disturbi di natura cardiaca, pure attestati da certificazioni mediche, stante la familiarità della lavoratrice con la patologia in esame. Analoga considerazione veniva svolta per i disturbi gastrici perché mancava ogni elemento probatorio che ne consentisse un collegamento all’attività lavorativa, soprattutto laddove le assenze dal lavoro erano state del tutto fisiologiche, mentre quelle più prolungate e coeve all’attività di demansionamento risultavano ascrivibili a cause diverse, quale frattura della tibia, intervento al ginocchio.

La statuizione della Corte d’Appello che ha pronunciato sulle domande risarcitorie, accogliendo quella relativa al danno patrimoniale, correttamente quantificandolo con riferimento al parametro della indennità di posizione, rigettando le altre, ha fatto corretta applicazione delle norme invocate dalla ricorrente con riguardo all’onere della prova e al rilievo delle risultanze istruttorie, esaminando e valutando queste ultime in aderenza al principio enunciato da questa Corte secondo cui l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., n. 19011 del 2017, 16056 del 2016).

Anche con riguardo alla CTU, la Corte d’Appello ha operato una ragionata valutazione, conforme ai principi sopra richiamati, che si sottrae a censure.

Pertanto, atteso che la Corte d’Appello ha correttamente applicato le norme di cui si adduce la violazione, e il motivo non censura lo specifico percorso motivazionale del giudice di secondo grado, sopra richiamato, in relazione ai motivi di appello che erano stati proposti, e prospetta tra l’altro, quali profili di censura, le allegazioni difensive del ricorso introduttivo del giudizio, senza dedurne la riproposizione in appello e senza fame discendere una critica circostanziata alla sentenza impugnata, va disatteso.

3. Con il secondo motivo di ricorso si afferma la natura retributiva dell’indennizzo liquidato, con la conseguenza che lo stesso avrebbe dovuto ricomprendere somme afferenti 13 mensilità, riliquidazione indennità di buonuscita e riliquidazione pensione, da attribuirsi insieme agli importi riconosciuti a titolo di remunerazione delle maggiori responsabilità connesse all’attività di controllo e coordinamento.

Si richiama l’art. 77 del CCNL Agenzie 2002-2003 la cui rubrica reca “Struttura della retribuzione”.

4. Il motivo non è fondato atteso che si verte in ipotesi di risarcimento del danno quantificato assumendo come parametro il compenso aggiuntivo che veniva riconosciuto (per ogni giorno di effettiva presenza) per la remunerazione delle maggiori responsabilità ai funzionari preposti ai team. Pertanto non possono trovare applicazione istituti inerenti la retribuzione.

5. Con il terzo motivo è censurata l’esclusione del danno biologico in ragione della CTU, con violazione art. 116 cod. proc. civ..

6. Il motivo è inammissibile in quanto, pur denunciando il vizio di violazione di legge, si sostanzia in una critica di merito alla CTU e non censura in modo adeguato e circostanziato la puntuale e articolata valutazione delle risultanze istruttorie e della CTU stessa che la Corte d’Appello, facendo corretta applicazione dei principi richiamati nella trattazione del primo motivo di ricorso, ha posto a fondamento della statuizione di rigetto di parte della domanda della lavoratrice.

7. Il ricorso principale deve essere rigettato.

8. Può passarsi ad esaminare il ricorso incidentale articolato in quattro motivi.

9. Con il primo motivo del ricorso incidentale è dedotta, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ., 56, comma 2, 3 e 4, del d.lgs. n. 26 del 1993 e dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001.

Violazione e falsa applicazione degli artt. 18 e 19 del CCNL Ministeri 19982001. Violazione e falsa applicazione del CCNL Agenzie fiscali 2002 – 2005, in vigore dal 29 maggio 2004.

Assume l’Amministrazione la erroneità della statuizione di appello, secondo cui la subordinazione del lavoratore ad lavoratore di qualifica immediatamente inferiore nella medesima area implica demansionamento.

Ciò, in ragione della lettura delle mansioni corrispondenti alle qualifiche C2 e C3, che pongono in luce come la possibilità di coordinare unità organizzative anche a rilevanza esterna sussista per entrambe.

Dunque, il mancato affidamenti dell’incarico di capo team non dava luogo a demansionamento della lavoratrice, tenuto conto tra l’altro delle esigenze di riorganizzazione dell’Ufficio legale e delle conoscenze richieste, con particolare riguardo alle imposte dirette di maggiore rilievo contenzioso qualitativo e quantitativo, che determinavano l’assegnazione dell’incarico ad altra lavoratore.

La Corte d’Appello aveva sostanzialmente affermato il principio erroneo secondo cui per i funzionari amministrativi C3 vi era diritto all’attribuzione di compiti di direzione e coordinamento, atteso che questi ultimi sono solo alcune delle relative mansioni equivalenti.

Invece, per il personale appartenente alla IX qualifica funzionale non esiste alcun diritto soggettivo ad ottenere il coordinamento di unità organizzative di livello non dirigenziale.

9. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata, ai sensi dell’art. 360, n.3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro. Mancata applicazione del CCNL Agenzie fiscali 2002-2005, in vigore dal 29 maggio 2004.

Con il nuovo contratto Agenzie fiscali 2002-23005 era stato superato il rigido mansionario e si era passati ad un modello di equivalenza delle mansioni nell’ambito della medesima area, con una differenziazione retributiva collegata alle accresciute capacità e competenze che si acquisiscono nel tempo.

In particolare, l’Amministrazione richiama l’allegato A del suddetto CCNL secondo cui i dipendenti collocati nella terza area svolgono funzioni che si caratterizzano per il loro levato contenuto specialistico.

La I. , svolgendo attività relativa al contenzioso tributario, era appunto impegnata in funzioni di alto contenuto specialistico coerenti all’area funzionale di appartenenza, con la conseguenza che non era stato attuato alcun demansionamento.

10. 1 suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

Gli stessi non sono fondati.

Va considerato che quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 cod. civ., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass., 4211 del 2016).

Ancora, si osserva che allorché si tratti di individuare, ai fini dell’accertamento di un eventuale demansionamento, la pertinenza delle mansioni svolte in concreto, rispetto ad una determinata posizione funzionale, il procedimento logico-giuridico non può prescindere da tre fasi successive, costituite dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, nonché dal raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda (Cass., n. 7123 del 2014).

Inoltre, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (Cass., n.19547 del 2017).

Con accertamento di fatto che fa corretta applicazione dei suddetti principi e si sottrae pertanto a censure, e il cui esito costituisce la ratio decidendi della sentenza impugnata, la Corte d’Appello ha rilevato che la ricorrente inquadrata nella IX qualifica funzionale, area C3 del CCNL del Comparto ministeri, sin dal 1992 era stata preposta alla direzione dell’Ufficio successioni, con funzioni di capo reparto, e che dal 5 novembre 2010 era stata inserita nel team legale, in posizione di subordinazione gerarchica rispetto a persona di livello inferiore VIII qualifica funzionale area C2, cui ne era affidato il coordinamento, come da ordine di servizio. Dalle risultanze testimoniali, nonché della documentazione prodotta dalla Amministrazione, era emerso che le mansioni in concreto affidate alla lavoratrice, quale addetta al team, non erano rispondenti ai contenuti di responsabilità ed autonomia gestionale propri della qualifica, per cui perdevano rilievo le deduzioni, comunque ad avviso della Corte non condivisibili, da un lato relative alla equivalenza delle mansioni che potevano essere svolte da un IX livello, come la I. e da un VIII livello, come il Capo team; dall’altro relative all’equivalenza tra le mansioni svolte in precedenza come Capo reparto e quelle svolte presso il team legale e poi il team integrato dalla I. .

Inoltre, correttamente Corte d’Appello escludeva l’equivalenza dell’area C3 e C2, atteso che lo stesso art. 24 del CCNL Ministeri considerava mansioni immediatamente superiori quelle svolte dal dipendente all’interno della stessa area in profilo appartenente alla posizione di livello economico immediatamente superiore a quella in cui egli è inquadrato. Esclude, altresì, l’equivalenza delle mansioni svolte nel tempo dalla ricorrente atteso che la IX qualifica funzionale comprendeva l’assegnazione di mansioni di direzione e coordinamento, che le risultanze istruttorie avevano escluso.

11. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., il vizio di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. È censurata la statuizione che ha ritenuto che le mansioni in concreto affidate alla lavoratrice non erano risultate rispondenti ai contenuti di responsabilità ed autonomia gestionale propri della qualifica.

Tale affermazione confermava l’errato principio della sentenza di appello che il fatto oggetto della subordinazione rappresentasse demansionamento.

La Corte d’Appello, inoltre, ometteva l’esame della documentazione allegata alla memoria di costituzione di primo grado e alla memoria difensiva autorizzata in primo grado, con cui si documentava che la ricorrente aveva continuato a svolgere mansioni altamente specializzate e coerenti con la qualifica e mansioni di riferimento.

12. Il motivo è inammissibile. È applicabile alla fattispecie l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente V omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte che la rafia del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, -in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza della motivazione”, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi. Inoltre l’Amministrazione nel riprodurre nel motivo ampi stralci degli atti difensivi di primo grado, assumendone l’omesso esame da parte della Corte d’Appello, non riproduce le difese di appello in cui avrebbe riproposto tali argomenti all’attenzione del giudice di secondo grado.

13. Con il quarto motivo è prospettata in relazione all’art. 360, n. 3, la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ..

Si afferma che la Corte d’Appello sarebbe andata ultra petita perché il risarcimento era stato chiesto in relazione al periodo 16 giugno 2000 (ricorso di primo grado) mentre il giudice di secondo grado aveva considerato il 1 giugno 2000.

14. I1 motivo è inammissibile in quanto il ricorrente incidentale non trascrive la domanda proposta dalla lavoratrice con l’atto introduttivo del giudizio, limitandosi a richiamare l’atto.

15. Il ricorso incidentale deve essere rigettato.

16. In ragione della reciproca soccombenza le spese di giudizio tra le parti sono compensate.

17. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Non può trovare applicazione nell’ipotesi d’impugnazione, anche incidentale come nella specie, della amministrazione pubblica, la disposizione, di cui al d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla legge n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (Cass., n. 23514 del 2014, Cass. S.U., n. 9938 del 2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Compensa tra le parti le spese di giudizio.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, all’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.


Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 aprile – 3 luglio 2018, n. 17365

Presidente Nobile – Relatore Arienzo

Fatti di causa

1. Con sentenza del 28.11.2012, la Corte di appello di Cagliari – sez. distaccata di Sassari – in riforma della decisione del locale Tribunale, condannava la società Camporosso a r. l. al risarcimento, in favore di P.A. , del danno da demansionamento, liquidato in complessivi Euro 1054,00 per danno patrimoniale, Euro 500,00 mensili dall’ottobre 2005 alla data di restituzione della mansioni e dell’orario, ivi inclusi i periodi i malattia, Euro 12.000,00 per danno biologico permanente, tutti al valore attuale.

2. La Corte rilevava che, con riguardo al dedotto immotivato mutamento dell’orario lavorativo, con sei ore di pausa ed impossibilità del lavoratore di recarsi alla propria abitazione, distante dal luogo di lavoro, si era verificata un’illegittima condotta datoriale e che l’adibizione a mansioni meramente manuali, con privazione di un apporto collaborativo nel contesto aziendale, senza più inserimento nei turni dei manutentori a partire dal 2007 configurava anch’essa un comportamento illegittimo, attesa la pacificità dei fatti e la conferma avutane dai testi quanto all’affidamento al P. di compiti semplici rispetto ad un inquadramento di operaio specializzato.

3. Osservava la Corte che, fermo restando il potere imprenditoriale quanto all’organizzazione del lavoro, era onere dell’imprenditore fornire una ragione delle proprie scelte, specie laddove le modifiche avessero riguardato un solo dipendente, nella specie facente parte di un gruppo di manutentori, ed avessero comportato, dal punto di vista dell’orario lavorativo, una prestazione più gravosa, con preclusione di ogni altra attività e, quanto ai compiti affidatigli, un declassamento rispetto ai precedenti lavori di manutenzione elettrica. Premesso che tali comportamenti illegittimi avevano causato al P. una malattia, accertata da c.t.u. e ritenuta in dipendenza casuale con il dedotto mutamento delle condizioni di lavoro, la quantificazione del pregiudizio veniva effettuata nella misura, equitativamente determinata, di 500,00 Euro al mese, dalla modifica dell’orario al momento di restituzione delle mansioni originarie e degli orari precedentemente osservati.

4. Di tale decisione domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a cinque motivi, cui ha resistito, con controricorso, il P. , che ha illustrato le proprie difese nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, è denunziata insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’orario di lavoro, sostenendosi che la Corte di Sassari, senza ragionevole motivazione, abbia ritenuto che la condotta datoriale di modifica dell’orario lavorativo, pur se astrattamente legittima, era trasmodata in arbitrio finalizzato a vessare e discriminare il lavoratore.

2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione a dedotta inversione dell’onere della prova, per essere stato ritenuto che incombesse all’imprenditore fornire una ragione della sua scelta di modificare l’orario lavorativo per sottrarsi all’onere risarcitorio, con ciò richiedendosi una prova, di segno negativo, dell’insussistenza di una condotta illegittima a carico del datore.

3. Il terzo motivo ascrive alla sentenza impugnata violazione o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 414, n. 4, c.p.c., per avere la Corte, facendo propri i motivi di censura dell’atto di gravame, affermato, in assenza di ogni riscontro probatorio, l’avvenuta umiliazione (demansionamento) del lavoratore.

4. Col quarto motivo, ci si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., con riferimento alla condanna al risarcimento in relazione ad un asserito pregiudizio, in assenza di elementi atti alla sua individuazione e di ogni prova di demansionamento. Si richiama Cass. a s.u. n. 6572/2006, che nega ogni automatismo tra demansionamento e danno.

5. Con il quinto motivo, si deduce omessa, insufficiente motivazione in relazione alla quantificazione del danno, effettuata, asseritamente, senza esplicitarne il sotteso ragionamento, in assenza di allegazioni della parte sulla natura e caratteristiche del danno.

6. Il primo ed il quinto motivo risultano mal prospettati in relazione al nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., applicabile alle sentenze pubblicate, come quella qui impugnata, dopo il 12.9.2012.

7. Il secondo motivo è infondato. È, invero, sufficiente richiamare, per disattenderne le ragioni, riferite alla denunciata inversione dell’onere probatorio quanto al ravvisato demansionamento della lavoratrice, i principi affermati da Cass. 18.1.2018 n. 1169, secondo cui, quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esatto adempimento del proprio obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (cfr., tra le altre, oltre alla richiamata Cass. 1169/2018, anche Cass. 3 marzo 2016, n. 4211; Cass. 6 marzo 2006, n. 4766).

Nel rispetto dell’illustrato principio di diritto, la Corte del merito ha quindi operato una valutazione probatoria in ordine alla mancata dimostrazione da parte del datore di lavoro di compiti coerenti con il bagaglio tecnico di cui era dotato il lavoratore, destinato a generiche incombenze ritenute prive di attinenza con le precedenti mansioni svolte nel campo della manutenzione elettrica. Tale valutazione è evidentemente insindacabile per le ragioni dette.

8. Quanto alla prova del demansionamento e del pregiudizio conseguitone, la motivazione dell’avvenuta dequalificazione è svolta con richiamo anche a deposizioni di testi ed al concreto mutamento in peius dei compiti lavorativi seppure già di modesto contenuto e specializzazione.

9. Peraltro, una violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. non può dipendere o essere in qualche modo dimostrata dall’erronea valutazione del materiale probatorio. Al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 cod. proc. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge o abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici, ma tale situazione non quella rappresentata nel quarto motivo, sicché la relativa doglianza è mal posta. Nella specie, la violazione della norma denunciata è tratta, in maniera incongrua e apodittica, dal mero confronto con le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito. Di tal che la stessa – ad onta dei richiami normativi in essi contenuti – si risolve nel sollecitare una generale rivisitazione del materiale di causa e nel chiederne un nuovo apprezzamento nel merito, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione.

10. Sul danno e sulla sua quantificazione, si è fatto riferimento in sentenza anche alla patologia sofferta dal P. in periodo prossimo al mutamento delle condizioni lavorative ed al contenuto di C.t.u. che ne aveva accertato la riconducibilità causale e, in termini più generali, con riferimento ai criteri giuridici applicabili in relazione alla valutazione da compiersi in tema di demansionamento è sufficiente il richiamo ai principi affermati da ultimo, da Cass. 10.1.2018 n. 330, secondo cui, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., inoltre, ex plurimis, Cass. 18.8.2016 n. 17163, Cass. 1.3.2016 n. 4031, cass. 4.2.2015 n. 2016, Cass. 26.1.2015 n. 1327, Cass. 19.3.2013 n. 6797, Cass. 23.3.2012 n. 4712).

11. Nella specie i principi suesposti hanno trovato corretta applicazione nell’esame compiuto dal giudice del merito, che ha evidenziato la sostanziale diversità dei nuovi compiti affidati al lavoratore quali indicati nella parte narrativa della presente decisione, ritenuti inidonei a consentire il mantenimento del bagaglio di competenze tecniche acquisito.

12. Le esposte considerazioni conducono al rigetto del ricorso della società.

13. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente società e sono liquidate in dispositivo in favore del P. .

14. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis, del citato D.P.R..


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