“Si sospetta che…” non è diffamazione: assolto giornalista di Report


Il diritto di critica del giornalista d’inchiesta, anche se espresso in forma di dubbio, prevale rispetto al diritto all’immagine dell’azienda.
“Senza giri di parole si sospetta proprio della più grande raffineria italiana di Monopoli: abbiamo girato la domanda al presidente”: è stata questa la frase che ha fatto scattare l’accusa per diffamazione nei confronti di un giornalista della trasmissione televisiva “Report”.
Non sono stati però di questo avviso né i Tribunali di primo e di secondo grado, né soprattutto la Cassazione [1].
È salvo, dunque, il diritto di critica del giornalista d’inchiesta, che non deve essere soggetto a “censure a priori”. La regola che si può evincere da queste pronunce, infatti, è che la denuncia di “situazioni oscure”, se è fatta in una forma lessicale dubitativa (“si sospetta che”), è lecita purché:
– il sospetto non sia del tutto assurdo;
– vi sia un interesse pubblico all’oggetto dell’indagine giornalistica.
In questi casi, dunque, riceve maggiore tutela l’autore del servizio giornalistico che l’interesse dell’operatore economico su cui ricade il sospetto. Il giornalista ha diritto ad esprimere il proprio pensiero, denunciando sospetti di illeciti (ciò coincide, del resto, col diritto della collettività a essere informata non solo sulle notizie di cronaca, ma anche su temi sociali). Questa libertà di espressione non può essere censurata a propri, ma va valutata caso per caso, in relazione alle modalità concrete con cui essa viene manifestata.
note
[1] Cass. sent. n. 9337 del 27.02.2013.