Licenziamento volontario e pensione pubblico dipendente


Quando termina un rapporto di lavoro del dipendente pubblico con contratto a tempo indeterminato? Vediamo tutti i casi possibili.
In quali casi si interrompe e conclude definitivamente il rapporto di lavoro per il dipendente pubblico? Non solo per licenziamento volontario e pensione; oppure se perde il posto perché non gli spetta più, non gli viene mantenuto poiché è andato oltre il tetto di permessi, congedi e assenze (soprattutto per malattia) previsti e concessi dalla legge e dal contratto. Citiamo altri esempi:
- per compimento dell’età anagrafica massima prevista;
- per raggiungimento della maturazione degli anni di anzianità di servizio richiesti per legge;
- per licenziamento disciplinare;
- per perdita di cittadinanza;
- per dimissioni del dipendente stesso;
- per sua eventuale scomparsa;
- per inabilità permanente;
- se il dipendente supera il limite massimo di assenze per malattia previsto per legge.
Ora analizzeremo singolarmente ed entreremo nel dettaglio di ciascuno di questi otto casi riportati.
Indice
- 1 Estinzione del rapporto di lavoro con pensione per vecchiaia
- 2 La cosiddetta ‘quota 100’ e la ‘finestra mobile’
- 3 Altri casi tipo: esonero anticipato e risoluzione unilaterale
- 4 Dimissioni e preavviso del dipendente pubblico
- 5 Cessazione del rapporto di lavoro per grave malattia o inabilità permanente
- 6 Inidoneità psicofisica permanente, assoluta o relativa, e sospensione cautelare
Estinzione del rapporto di lavoro con pensione per vecchiaia
Il primo motivo per cui finisce un’esperienza lavorativa, per un dipendente pubblico con contratto a tempo indeterminato, è per aver raggiunto il limite di età anagrafica che permette l’accesso alla pensione. Per poter andare in pensione, nel biennio 2019-2020, in base alla nuova normativa [1] occorreranno: 67 anni di età, e non 65 come fino al 2012, + 20 anni di contributi per la pensione di vecchiaia appunto.
Mentre, per la pensione anticipata ci vorranno: 43 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e 3 mesi di contributi per le donne; in luogo – rispettivamente – dei 42 anni e 10 mesi e 41 anni e 10 mesi necessari finora. Infine, per i lavoratori precoci, i requisiti saranno: 41 anni e 5 mesi di contributi, invece dei 41 anni fissati sino a questo momento.
In sintesi, a partire dal 2019, si potrà andare in pensione con almeno 41 anni di servizio maturati o con 66 anni d’età compiuti. Per quanto riguarda, infine, la possibilità della cosiddetta finestra per accedere prima alla pensione, essa sarà la medesima e darà diritto a un anticipo di 21 mesi per la pensione di anzianità, in regime di totalizzazione, e a 18 mesi per ciò che concerne la pensione di vecchiaia. Infatti l’età anagrafica pensionabile è stata progressivamente innalzata nel tempo per equipararne il livello all’aspettativa di vita, seguendo il cambiamento e il mutamento sociale che c’è stato e si è susseguito man mano. Finora sarebbe stata, dunque, prolungata di ulteriori cinque mesi, un pochino più di quanto previsto inizialmente. Le prospettive di crescita parlavano di quattro mesi ogni tre anni fino al 2033, per poi aumentare di altri tre mesi (sempre per ciascun triennio) fino al 2052, quando si sarebbe dovuti arrivare a 69 anni di età per la pensione di vecchiaia. Fino al triennio 2013-2015, infine, i mesi di innalzamento erano stati solo tre.
La cosiddetta ‘quota 100’ e la ‘finestra mobile’
Attualmente, inoltre, è stata istituita dal Governo la cosiddetta quota cento. Quota 100, data dalla somma di 38 anni di contributi versati e maturati e di 62 anni di età. Si prevede che si potrà persino arrivare (forse nel lontano 2052) ad una quota 101, con 65 anni di età. Fino al 2012 vigeva la quota 96 (con 60 o 61 anni di età), poi era stata elevata – già a partire dall’anno successivo (nel 2013) – di un anno, pertanto sfiorando il limite di 61 o 62 anni di età. Dunque significava, per fare un esempio, che – fino al 2015 – un dipendente pubblico (donna in particolare) poteva richiedere e conseguire la pensione di anzianità con 35 anni di contributi e 57 di età.
Infatti, sia per la pensione di anzianità come per quella di vecchiaia, esiste quella che viene chiamata finestra mobile, ossia l’intervallo di tempo che passa tra il momento in cui si conseguono e maturano i requisiti necessari alla pensione e quello effettivo quando si inizia a percepire il trattamento pensionistico; di solito tale ‘finestra mobile’ equivale a circa dodici mesi, durante i quali il dipendente rimarrà comunque in servizio presso l’amministrazione, finché l’avvio della definita ‘finestra’ non gli permetterà di entrare definitivamente in pensione. Ma i mesi saranno 18 se la pensione verrà liquidata in regime di totalizzazione.
Inoltre c’è un’altra precisazione da fare. Ovvero che è possibile richiedere la pensione anticipata, ma essa avrà un costo. Il prezzo da pagare e scontare – per così dire – il lavoratore lo vedrà proprio sull’impatto conseguente che ci sarà sull’assegno pensionistico percepito stesso. Vi potranno essere variazioni (dal 5 al 30% anche) in proporzione al numero di anni di anticipo della pensione rispetto ai 67 previsti e obbligatori, richiesti per legge.
Altri casi tipo: esonero anticipato e risoluzione unilaterale
Infine, un’ulteriore nota merita un po’ di attenzione. Abbiamo prima parlato della finestra mobile, ma esiste un caso inverso, ossia in cui il dipendente pubblico abbia la possibilità per legge [2] di rimanere in servizio oltre il limite d’età previsto per la pensione di 65 anni (dal 2019 saranno 67 ricordiamo); tuttavia, potrà farlo solamente il lavoratore che abbia dato previa disponibilità personale in merito in anticipo, ossia almeno 12 o 24 mesi prima. Da parte sua l’amministrazione può accettare o meno tale ‘proposta’: accondiscendere, se ritiene che ciò recherà vantaggi all’efficienza dell’attività amministrativa; ma anche dissentire e rifiutare, senza bisogno di dare ulteriori chiarimenti o giustificazioni al riguardo.
C’è poi un altro caso, ovvero quello dell’esonero anticipato. Per legge [3] per i dipendenti di ministeri, enti pubblici non economici, agenzie fiscali, presidenza del consiglio, università, enti di ricerca, c’è la possibilità di richiedere, appena maturati i 35 anni di anzianità di servizio, quello che viene definito esonero anticipato; fino al raggiungimento dei 40 anni necessari al pensionamento e dunque per i cinque successivi a seguire. Ossia, durante questo arco di tempo, il lavoratore percepirà un salario pari al 50% di quello standard in servizio, oppure del 70% dello stipendio base per l’attività lavorativa se la svolge presso onlus, associazioni di promozione sociale, organizzazioni non governative (ong), nel campo della cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo.
Esiste tuttavia, anche la possibilità della risoluzione unilaterale del contratto. Una misura sperimentata inizialmente nel triennio 2009-2011 e poi prorogata successivamente. È rivolta sia a dipendenti pubblici che a dirigenti, anche di diversi campi; infatti ciò vale anche per i dirigenti medici e veterinari e dell’ambito della sanità (come: biologi, chimici, fisici, farmacisti, psicologi, dirigenti delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione e della professione di ostetrica) [4]. Si tratta della possibilità, in primis da parte delle amministrazioni, di risolvere (unilateralmente) il rapporto di lavoro con tutti i dipendenti che abbiano maturato già i 40 anni di servizio. O dei 65 anni di età anagrafica.
Ad ogni modo nulla vieta anche l’altra alternativa: ossia una proroga di tali termini, ovvero che il dipendente possa restare in servizio addirittura fino a 70 anni di età, senza però poter andare oltre tale requisito di vecchiaia. La condizione imprescindibile, per un’amministrazione, è solo che ciò non porti a un incremento dei dirigenti [5]. Tale opzione, però, è negata a: magistrati, professori universitari, dirigenti medici e di struttura complessa del Servizio sanitario nazionale, con responsabilità (quali: dirigenti delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e della professione di ostetrica).
Dimissioni e preavviso del dipendente pubblico
Comunque un rapporto di lavoro può concludersi anche per dimissioni da parte del lavoratore stesso. Tuttavia, in questo caso, il dipendente pubblico è tenuto a fornire il legittimo preavviso, se non vuole incorrere in una sanzione, ossia nella cosiddetta indennità di preavviso, in caso di mancato preavviso appunto. Quest’ultima equivarrà alla retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore durante quel periodo in cui non ha fornito il giusto preavviso.
Le dimissioni devono essere scritte innanzitutto. I termini per presentarla sono i seguenti:
- entro 30 giorni, per i dipendenti che hanno 5 anni di anzianità di servizio;
- entro 45 giorni, per i dipendenti che hanno 10 anni di anzianità di servizio;
- entro 60 giorni, per i dipendenti che hanno più di 10 anni di anzianità di servizio.
L’amministrazione non può mai rifiutare le dimissioni. Le deve sempre accettare. Può esimersi dall’accoglierle solo in due casi:
- se non è decorso il tempo di preavviso dovutole;
- se c’è un procedimento disciplinare a carico del dipendente pubblico, avviato prima della sua consegna di dimissioni.
Se il rapporto di lavoro è receduto senza dimissioni, ma per altre ragioni e in modi diversi, i termini del preavviso cambiano e diventano i seguenti:
- 2 mesi per i dipendenti pubblici con 5 anni di anzianità di servizio;
- 3 mesi per i dipendenti con 10 anni di anzianità di servizio;
- 4 mesi per i dipendenti con più di 10 anni di anzianità di servizio.
Le ferie, inoltre, non possono essere assegnate durante il periodo di preavviso. Pertanto c’è da tenere conto che, se il dipendente pubblico lavorerà durante il tempo di preavviso avrà diritto ad essere retribuito in modo equo. Poi occorre considerare che il periodo di preavviso verrà incluso nella maturazione dell’anzianità di servizio complessiva finale. Un’ulteriore precisazione la merita quella che è definitiva indennità sostitutiva del preavviso. Avevamo parlato dell’indennità di servizio, ora vediamo cosa si intende per indennità sostitutiva di preavviso; è quella che, in caso di morte del lavoratore, l’amministrazione darà ai suoi aventi diritto; infatti, in caso di licenziamento, il datore di lavoro deve avvertire di tale misura che intende attuare nei confronti del dipendente e ovviamente deve farlo con preavviso (alla stessa maniera di quanto è dovuto a rispettare il lavoratore stesso); se non lo fa è tenuto a versare al suo dipendente l’indennità sostitutiva di preavviso, anche se quest’ultimo ha già trovato un altro impiego.
Cessazione del rapporto di lavoro per grave malattia o inabilità permanente
Tuttavia possono subentrare gravi situazioni fisiche che impediscano al lavoratore di adempiere al suo dovere. L’amministrazione agirà di conseguenza, vediamo come. Innanzitutto bisognerà valutare il livello di inabilità del dipendente. Se quest’ultimo, comunque, si assenta per (grave e protratta) malattia per più di 36 mesi, perde il diritto alla conservazione del posto e, conseguentemente, l’amministrazione può decidere di elargirgli l’indennità sostitutiva del preavviso e procedere, così, pertanto al recesso del rapporto di lavoro. A tale proposito occorre ricordare che una delle ragioni per cui può scattare il licenziamento disciplinare è proprio la falsa attestazione di presenza a lavoro e il mancato ritorno al lavoro, dopo un’assenza prolungata, senza giustificato motivo nel momento concordato e stabilito.
Ciononostante vi sono altri due casi in cui c’è la risoluzione del rapporto di lavoro per permanente inidoneità psicofisica. Essa può essere assoluta o relativa e può riguardare tanto il pubblico dipendente quanto un dirigente; infatti sappiamo che, ad esempio, anche nel caso di licenziamento disciplinare esso può essere rivolto ad entrambi, in quanto sussiste anche la responsabilità dirigenziale. Vediamo di capire meglio cosa si intende con tali ‘diciture’. Per permanente inidoneità psicofisica assoluta, ci si riferisce a un’incapacità perenne del lavoratore di svolgere qualsiasi attività. Invece quando si parla di perenne inidoneità psicofisica relativa, ci si rivolge a un’impossibilità del lavoratore a svolgere solamente determinate attività o mansioni. Per attestare questo handicap, fisico e/o mentale ribadiamo, l’amministrazione (o il dipendente stesso) ovviamente può disporre una procedura di accertamento che attesti e verifichi l’effettiva presenza di un’inidoneità permanente psicofisica assoluta o relativa.
Inidoneità psicofisica permanente, assoluta o relativa, e sospensione cautelare
La procedura di accertamento dell’inidoneità psicofisica (relativa o assoluta) può essere avviata in tre casi. Sono i seguenti:
- Dopo che siano trascorsi 18 mesi di assenza del dipendente pubblico per malattia, prima di concedere i successivi 18 che gli spettano. Ovviamente il dipendente sarà informato della procedura a lui indirizzata.
Se verrà riconosciuta al lavoratore inidoneità psicofisica, entro un mese a partire da quando è pervenuto il certificato medico che la attesta, l’amministrazione può stabilire di risolvere il rapporto di lavoro, rilasciando l’indennità sostitutiva di preavviso:
- Se vi sono, da parte del dipendente, disturbi del comportamento evidenti e ripetuti;
- Se le condizioni fisiche o lo stato di salute del dipendente pubblico facciano pensare a o suppore un’eventuale inidoneità fisica.
In tali ultimi due casi, le soluzioni sono sempre due. Se la procedura di accertamento avviata in tale ragione porta a rilevare un’inidoneità fisica, si dovrà prima valutare se essa sia relativa o assoluta. Perché, nella prima circostanza, l’amministrazione trasferirà il dipendente, spostandolo a un altro settore, assegnandogli altre mansioni e diversi tipi di incarico che lui possa assolvere, in linea con le attività per cui non ha inabilità. Se, invece, quest’ultima è assoluta all’amministrazione non resta che risolvere il rapporto di lavoro, dando al pubblico dipendente la dovuta indennità sostitutiva di preavviso.
Tuttavia, come prima misura, l’amministrazione può decidere – in via precauzionale – di procedere con la sospensione cautelare (fino a un massimo di 180 giorni) dello stesso dipendente pubblico coinvolto, per ragioni di sicurezza (sia del pubblico, che dei colleghi, che per la sua medesima incolumità).
note
[1] A partire dal 1° gennaio 2019 infatti entrerà in vigore la circolare INPS n. 62/2018 del terzo aggiornamento ISTAT che è stato divulgato a fine 2017.
[2] Come sancito dall’articolo 16 del decreto legislativo n. 503 del 30 dicembre 1992.
[3] In base all’articolo 72 della legge 133/2008.
[4] Come previsto dalla legge n. 183/2010.
[5] Lo prevede la circolare n. 2 del 19 febbraio 2015, firmata dall’allora ministro per la semplificazione e Pubblica amministrazione, Marianna Madia.
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