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Cessione del quinto ed errata definizione della rata

9 Febbraio 2019
Cessione del quinto ed errata definizione della rata

Esiste una sentenza della cassazione relativa alla nullità contrattuale della cessione del quinto (prestito regolato dal DPR 180/50) per avvenuto superamento della rata massima di 1/5? La rata calcolata dalla finanziaria, per tale prestito, è stata per eccesso, rispetto al netto mensile disponibile presente nel certificato di stipendio e consegnato nella fase di istruttoria preliminare alla finanziaria. Porto un esempio pratico: netto mensile del certificato di stipendio € 1.000; giusta rata massima mensile € 200; invece la rata applicata dalla finanziaria (in violazione DPR 180/50) € 300.

Dopo attenta ricerca su diverse banche dati (tra le quali De jure e Giurisprudenza italiana) non è stata trovata alcuna sentenza della Suprema Corte inerente alla nullità della cessione del quinto per errata definizione della rata. Le sentenze più quotate riguardano tutte la nullità della cessione del quinto per via dell’applicazione di tassi usurari (una su tutte, Cass., sez. III civile, sent. n. 5160/2018; ma anche Cass., sent. n. 8806/2017). 

Dal punto di vista della giurisprudenza di merito, si segnala la sentenza del Tribunale di Mantova (sent. 15 maggio 2012) con la quale si statuisce «Poiché l’art. 5 del d.p.r. 180/1950 fa divieto di cedere lo stipendio per importi superiori al quinto, deve ritenersi che l’art. 39 co. 1 del d.p.r. 180/1950 vada coordinato con il precedente art. 5 ed interpretato nel senso che non è consentito stipulare una nuova cessione di credito in relazione a contratti di durata fino a cinque anni e ciò al fine di non compromettere la possibilità da parte del debitore di disporre di adeguati mezzi di sostentamento stante la riconducibilità degli emolumenti retributivi (nella misura di 4/5) all’area dei diritti inalienabili della persona tutelati dall’art. 2 Cost.». 

Con quest’ultima decisione, l’art. 39 inerente al rinnovo della cessione viene rapportato al dettato dell’art. 5: da tanto si evince la capitale importanza di quest’ultima disposizione, vera e propria norma imperativa. Questo è molto importante per quanto si sta per dire. 

Al di là dei precedenti giurisprudenziali, la nullità di una cessione che violi il limite del quinto è, a parere dello scrivente, pacifica, attesa la disposizione generale civilistica secondo cui un contratto è nullo quando è contrario a norme imperative (art. 1418, primo comma, cod. civ.). Nello specifico, la nullità deriverebbe dal contrasto con gli artt. 5 e 52 del D.p.R. 180/50, i quali sanciscono, rispettivamente, che «Gli impiegati e salariati dipendenti dallo Stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell’art. 1 possono contrarre prestiti da estinguersi con cessione di quote dello stipendio o del salario fino al quinto dell’ammontare di tali emolumenti valutato al netto di ritenute e per periodi non superiori a dieci anni […]» e che «Gli impiegati e salariati delle amministrazioni indicate nel precedente articolo, assunti in servizio a tempo indeterminato a norma della legge sul contratto d’impiego privato od in base a contratti collettivi di lavoro, possono fare cessione di quote di stipendio o di salario non superiore al quinto per il periodo di cinque o di dieci anni […]». 

Pertanto, atteso che il caso specifico riguarda un calcolo sproporzionato della rata, la violazione con le succitate norme imperative appare lampante; d’altronde, anche qualora si volesse trovare delle eccezioni alla misura del quinto, queste non potrebbero comunque essere giustificate da un calcolo sbagliato della rata. 

Al limite, potrebbe essere invocata la norma sulla nullità parziale del contratto (art. 1419 cod. civ.), ad avviso dello scrivente comunque da escludere poiché l’entità della rata, all’interno di un contratto di cessione del quinto, è elemento essenziale del negozio giuridico. 

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Mariano Acquaviva 



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