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Posso chiedere di lavorare in un’altra sede?

6 Febbraio 2019
Posso chiedere di lavorare in un’altra sede?

La sede di lavoro è uno degli elementi fondamentali del contratto di lavoro. È possibile modificarla nel rispetto delle regole di legge.

L’azienda Alfa offre un posto di lavoro con mansioni di cameriere di sala in uno dei propri ristoranti ubicati in oltre 100 città italiane. È evidente che di fronte ad una simile offerta di lavoro il candidato a fare il cameriere presso l’azienda Alfa risulterebbe smarrito. Infatti, la sede di lavoro è uno degli elementi fondamentali che incide sull’interesse di un potenziale candidato per una posizione lavorativa o meno.

Per questo la legge prevede che il contratto di lavoro debba indicare in maniera chiara ed esplicita la sede di lavoro. Nel corso del rapporto di lavoro tale sede può essere modificata, anche in modo unilaterale da parte del datore di lavoro al ricorrere di determinate condizioni. Posso chiedere di lavorare in un’altra sede? Il dipendente può chiedere, ma ottenere il trasferimento non è affatto un diritto. Infatti, come vedremo, se è vero che in certe occasioni l’azienda può cambiare la sede di lavoro del dipendente a suo piacimento, non vale il contrario.

La sede di lavoro

Come abbiamo detto la sede di lavoro è un elemento fondamentale del rapporto di lavoro e della negoziazione tra azienda e lavoratore. La sede di lavoro è il luogo fisico nel quale il dipendente si impegna a svolgere la prestazione di lavoro in esecuzione del contratto di lavoro.

La sede di lavoro è un elemento fondamentale del contratto di lavoro il quale deve indicare la sede della prestazione lavorativa in maniera esplicita e precisa.

Di solito, nella lettera di assunzione, la sede di lavoro viene indicata così: “Lei svolgerà la prestazione di lavoro oggetto del contratto presso la sede della società sita in Roma, via XXX, n. X”.

L’indicazione specifica della sede di lavoro è particolarmente importante nelle società che hanno molte sedi e, spesso, hanno più sedi nella stessa città.

La sede di lavoro, al pari degli altri elementi del contratto di lavoro, è una clausola del contratto che deve essere, dunque, approvata con il consenso di entrambe le parti.

La legge, tuttavia, prevede la possibilità, in alcune occasioni, che la sede di lavoro venga modificata in maniera unilaterale dal datore di lavoro. In questo caso parliamo di trasferimento.

Il trasferimento del lavoratore

La legge [1] afferma che il lavoratore può essere trasferito da una unità produttiva ad un altra solo per comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative. Questa norma, di fatto, afferma che nonostante la sede di lavoro sia stata negoziata nel contratto di lavoro e sia stata voluta da entrambe le parti, in alcune occasioni, e cioè quando ci sono comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative, l’azienda può in modo unilaterale dire al dipendente che da un certo giorno in poi deve lavorare presso una nuova sede di lavoro.

La Cassazione afferma che il trasferimento del lavoratore non deve essere motivato. L’azienda può limitarsi a comunicare il trasferimento senza esplicitare le comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative che lo hanno reso necessario. L’indicazione dei motivi non è obbligatoria nemmeno quando il dipendente, ricevuta la lettera di trasferimento, chiede all’azienda di dire il motivo.

Questo obbligo sorge solo in un’eventuale causa di fronte al giudice del lavoro. Il dipendente, infatti, ricevuta la comunicazione del trasferimento, ha 60 giorni di tempo per impugnare tale decisione con una lettera inviata all’azienda. Entro 180 giorni dall’invio della lettera, il dipendente può fare ricorso al giudice del lavoro chiedendo che venga dichiarata l’illegittimità del trasferimento.

Solo in questa sede l’azienda deve obbligatoriamente indicare i motivi che hanno portato al trasferimento. Se non viene data adeguata prova di questo, il giudice può dichiarare illegittimo il trasferimento ordinando all’azienda di ripristinare la vecchia sede di lavoro.

Non facciamoci però strane illusioni. In caso di trasferimento, anche se il dipendente ritiene che il trasferimento sia illegittimo, è bene che il lavoratore si rechi nella nuova sede di lavoro ed obbedisca dunque alla direttiva che gli è stata impartita.

La giurisprudenza, infatti, ritiene che il lavoratore non possa opporsi al trasferimento del dipendente in modo unilaterale altrimenti rischia di subire un procedimento disciplinare. Infatti, se non si reca alla data stabilita nella nuova sede di lavoro, il lavoratore risulterebbe assente ingiustificato e potrebbe dunque subire sanzioni disciplinari, fino allo stesso licenziamento.

Sarà dunque opportuno obbedire e trasferirsi ma, al contempo, impugnare il trasferimento.

La modifica della sede di lavoro per mutuo consenso

In altri casi le parti del rapporto di lavoro si accordano per modificare una delle clausole del contratto di lavoro, ossia, la sede di lavoro. In questo caso non è l’azienda a disporre da sola lo spostamento del dipendente da una sede all’altra ma è la volontà delle parti a manifestarsi nel senso di cambiare sede di lavoro.

In questo caso sarà sufficiente che datore di lavoro e dipendente firmino un accordo di modifica della sede di lavoro con cui modificano ed integrano il contratto di lavoro, prevedendo la nuova sede di lavoro.

La richiesta di trasferimento del dipendente

Il dipendente può, senza dubbio, attivarsi e chiedere al datore di lavoro di essere spostato da una sede produttiva all’altra. L’interesse alla modifica della sede di lavoro può essere determinato da molti fattori, tra cui:

  • esigenze di ricongiungimento familiare;
  • desiderio di cambiare città;
  • esigenze di formazione professionale;
  • difficoltà ambientali nella sede di origine.

Occorre però fare subito una premessa. Il trasferimento del dipendente per esigenze produttive ed organizzative è l’unico caso in cui la sede di lavoro può essere modificata in maniera unilaterale da parte dell’azienda.

Questo significa che il dipendente può chiedere legittimamente di essere spostato ma non ha un diritto ad ottenere il trasferimento. La richiesta di trasferimento deve essere valutata dal datore di lavoro e, solo se l’azienda la condivide, la richiesta di trasferimento si tradurrà in una effettiva modifica della sede di lavoro.

Quella esposta è la situazione normale e generale. Possono, però, esserci delle aziende che decidono di dotarsi di regole interne: policy aziendali, regolamenti, ordini di servizio e altri provvedimenti interni possono prevedere, ad esempio, un termine entro cui i dipendenti possono chiedere di essere trasferiti da una sede all’altra, criteri per selezionare le domande e decidere quali accogliere, etc.

In assenza di regole interne valgono i criteri di correttezza e buona fede, parametri che devono sempre accompagnare l’esecuzione del contratto di lavoro. Ciò significa che l’azienda deve trattare i dipendenti in maniera equa e non fare disparità.

La mobilità nel pubblico impiego

Nel pubblico impiego, anche considerando la capillare articolazione dello Stato e delle pubbliche amministrazioni nel territorio nazionale, le possibilità di trasferimento sono maggiori.

Esiste, infatti, l’istituto della mobilità volontaria in base al quale il dipendente interessato a spostarsi da un’amministrazione ad un’altra, può partecipare ad un bando di mobilità in entrata indetto dall’ente di destinazione. In sostanza la cosa avviene così: l’ente ha bisogno di una risorsa di personale.

Prima di fare un concorso per assumere questa risorsa emana un bando di mobilità in entrata con il quale dichiara che valuterà dipendenti pubblici di altre amministrazioni che vogliono proporsi di entrare nell’ente. A quel punto si svolge un vero e proprio concorso pubblico basato di solito sulla valutazione dei titoli e sul colloquio con i candidati.

Di solito, i bandi di mobilità in entrata sono pubblicati dall’ente pubblico quando non sono disponibili graduatorie ancora vigenti e non scadute dalle quali poter attingere.

È importante ricordare che per poter partecipare al bando di mobilità in entrata indetto da un altro ente, il dipendente deve aver ottenuto il nulla osta dell’amministrazione di appartenenza. Questo può essere un ostacolo, soprattutto quando l’amministrazione non vuole privarsi di quel determinato dipendente.

Il comando

Un’altra modalità per modificare la sede di lavoro nel pubblico impiego è il comando. Si tratta di un accordo tra due amministrazioni. Un ente invia un proprio dipendente in comando presso un altro ente.

L’ente che riceve il dipendente rimborserà all’ente di appartenenza le spese legate alla risorsa, sia con riferimento allo stipendio che i contributi previdenziali ed assistenziali.

L’assegnazione del dipendente presso l’ente viene sempre disposta a tempo determinato e può essere riconosciuta al ricorrere di due distinte condizioni non cumulabili:

  • la presenza di “esigenze di servizio”;
  • oppure quando sia richiesta una speciale competenza.

L’accordo per comandare un dipendente da un ente ad un altro riguarda solo i due enti e non riguarda il dipendente.

Nel comando non c’è dunque alcuno spazio per la volontà ed il consenso del dipendente.

Il principio è stato affermato dalla Cassazione stessa secondo la quale “ai fini della legittimità del comando o distacco non vi è necessità né di una previsione contrattuale che lo autorizzi né dell’assenso preventivo del lavoratore interessato” [2].

Occorre ribadire che il comando, di per sé, non modifica il rapporto di lavoro né la sede di destinazione. Infatti, se non viene rinnovato, al termine del comando il dipendente comandato deve tornare a lavorare presso l’ente di appartenenza dove tornerà a ricoprire lo stesso ruolo e le stesse mansioni.

Da questo punto di vista il comando è una modifica solo temporanea della sede di lavoro che viene meno una volta scaduto l’accordo di comando tra le due amministrazioni che lo hanno stipulato.


note

[1] Art. 2103 cod. civ.

[2] Cass. civ. sez. lav. n. 14458 del 7.11.2000.


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