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Versamenti ingiustificati e controlli sui conti correnti

18 Febbraio 2019
Versamenti ingiustificati e controlli sui conti correnti

Una errata gestione del conto corrente in determinate circostanze è causa di maggiori imposte. 

Chi non sa gestire bene il proprio conto corrente paga più tasse di chi invece è stato accorto. Potrebbe essere sintetizzata così la pronuncia con cui la Cassazione, lo scorso 30 gennaio [1], ha condannato un contribuente per non aver saputo giustificare i versamenti fatti sul proprio conto corrente. In tali ipotesi, infatti, il denaro la cui provenienza non può essere dimostrata viene tassato poiché si presume costituire reddito non dichiarato. E non importa se esso era già stato tassato in precedenza o se era esente: colpa del contribuente che non è stato prudente e accorto. L’unico vantaggio, in tutto questo, è che – sempre secondo la Cassazione [2] – non si può essere processati penalmente per evasione fiscale.

Se ti sembrano affermazioni iperboliche o giornalistiche, purtroppo resterai deluso: è la stessa legge che prevede tutto ciò. Per sapere come non rischiare anche tu una seconda tassazione ti tocca leggere le seguenti righe dedicate appunto ai versamenti ingiustificati e ai controlli sui conti correnti.

La presunzione di reddito dei versamenti sul conto

La legge, che mira a evitare che sul conto vengano fatte confluire somme derivanti da evasioni fiscali, chiede a tutti i contribuenti di conservare traccia della provenienza del denaro se di esso non vi è indicazione sulla dichiarazione dei redditi. Tre esempi faranno al caso nostro e lasceranno comprendere più agevolmente come stanno le cose.

Versamenti in contanti non giustificati

Immaginiamo che il sig. Rossi, lavoratore dipendente, ha un appartamento di proprietà che, ogni tanto, dà in affitto a nero. L’inquilino gli paga mensilmente i canoni in contanti. Questi soldi vengono poi depositati dal sig. Rossi sul proprio conto corrente. In questo caso il fisco – che tutto può ed è in grado di conoscere i movimenti sul conto corrente di ogni contribuente – si accorge di tali depositi di denaro; di essi però non trova traccia nella dichiarazione dei redditi del sig. Rossi. Sicché gli invia un accertamento fiscale, presumendo che si tratta di redditi evasi alle tasse. Difficilmente il contribuente potrà difendersi da un accertamento del genere.

Versamenti in contanti giustificati

Immaginiamo ora che il dott. Verdi, stimato dentista, dopo una cura durata due settimane, presenti al proprio cliente una parcella di 800 euro a fronte della quale emette regolare fattura. Incassato il compenso in contanti, il dentista versa i soldi sul conto. L’Agenzia delle Entrate, nel vedere tale accredito, rileva che di esso c’è traccia sulla dichiarazione dei redditi, essendo stata emessa una fattura di corrispondente importo; sicché non emette alcun accertamento nei confronti dell’accorto e prudente contribuente.

Versamenti da giustificare

Immaginiamo infine il sig. Bianchi, giovane disoccupato e senza reddito, che un giorno riceve sul proprio conto corrente diecimila euro. Si tratta di un regalo ottenuto dal padre, mosso a compassione dalle difficoltà economiche del ragazzo, che così facendo gli ha voluto dare un sussidio per aprire un’attività commerciale. I due hanno però firmato un atto di donazione, che hanno sottoposto a registrazione dandogli la data certa. L’Agenzia delle Entrate si accorge dell’ingresso sul conto di una cifra incompatibile con i redditi di Bianchi e così gli invia un accertamento presumendo che si tratti di un reddito evaso al fisco. Bianchi si oppone e mostra la scrittura che attesta la donazione: in questo modo l’accertamento viene annullato.

Versamenti da giustificare con prova scritta

Ciò che affermano legge e giurisprudenza è abbastanza chiaro: tutte le volte in cui un contribuente deposita del denaro contante sul proprio conto corrente (bancario o postale) o riceve un bonifico da parte di terzi, deve essere pronto a dimostrare a che titolo ha ricevuto tale denaro. Diversamente tali somme si presumono essere redditi e, pertanto, vengono tassati. In pratica il fisco presume, il contribuente deve dimostrare il contrario.

Non c’è bisogno di alcuna prova contraria se le somme sono state “denunciate” nella dichiarazione dei redditi: esse infatti vengono soggette a tassazione (è il caso del precedente esempio n. 2). Invece c’è bisogno di una prova scritta in tutte le altre ipotesi.

Se il contribuente è in grado di dimostrare – con una documentazione avente data certa – la giustificazione del denaro potrà vivere tranquillo. E in cosa consiste tale giustificazione? Egli deve provare alternativamente che:

  • tali somme depositate sul conto sono esentasse come nel caso delle donazioni dai genitori o i risarcimenti del danno;
  • oppure che sono state già tassate alla fonte come nel caso di vincite al gioco.

La Cassazione ha così ricordato che versamenti e prelevamenti ingiustificati risultanti dai conti correnti in assenza di prova contraria da parte del contribuente, si presumono essere “corrispettivi imponibili” e sottratti al fisco. Per cui vengono tassati.

Quindi, nel terzo esempio, se padre e figlio non fossero stati tanto accorti da redigere una scrittura con data certa, molto probabilmente l’accertamento sarebbe andato a buon fine.

Niente condanna penale per il conto corrente gestito non a regola

Fortunatamente il non saper dimostrare la provenienza dei soldi implica solo una tassazione del denaro ma non necessariamente un processo per evasione fiscale. Come detto stamane dalla Cassazione [2], il contribuente non può essere condannato per evasione fiscale solo sulla base di prelievi di cassa ingiustificati. Nel processo penale, infatti, serve molto di più rispetto alle presunzioni sufficienti ai fini dell’accertamento tributario.

Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati.


note

[1] Cass. ord. n. 2651/2019 del 30.01.2019

[2] Cass. sent. n. 7242/2019 del 18.02.2019.

[3] Artt. 32 del D.P.R. n. 600/73 e 51 comma 2 del D.P.R. 633/72.

Autore immagine uomo controlla Di igorstevanovic

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 30 ottobre 2018 – 18 febbraio 2019, n. 7242

Presidente Sarno – Relatore Gentili

Ritenuto in fatto

La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del 28 settembre 2017, ha confermato la sentenza del 10 marzo 2015 con la quale il Tribunale di Ciosenbza aveva dichiarato la penale responsabilità di G.F. , relativamente ai reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 2, limitatamente alla evasione dell’IRES quanto alla prima delle due imputazioni contestate, per avere egli, in esecuzione di un unico disegno criminoso, in qualità di legale rappresentante della Lairte Srl, indicato nelle dichiarazioni dei redditi della predetta Società nell’anno di imposta 2010 elementi passivi fittizi ed avendo omesso di indicare elementi attivi reali per un complessivo importo superiore al 10% degli elementi attivi indicati e per essersi avvalso, nella redazione della predetta dichiarazione dei redditi, di fatture relative ad operazioni passive oggettivamente inesistenti.

Per i reati di cui sopra, unificati sotto il vincolo della continuazione e concesse le circostanze attenuanti generiche, la Corte di Catanzaro ha confermato la pena già irrogata dal Tribunale bruzio nella misura di anni 1 e mesi 1 di reclusione, oltre accessori.

La Corte di appello ha, altresì, escluso sia di potere considerare il fatto di particolare tenuità, ai sensi dell’art. 131 bis c.p., sia di potere concedere il beneficio della non menzione, in considerazione della complessiva gravità delle condotte in contestazione.

Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione il prevenuto, articolando sette motivi di impugnazione.

Il primo motivo di impugnazione concerne il vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui è stata ritenuta la inesistenza di taluni costi indicati in deduzione nella dichiarazione presentata dal G. , sebbene la documentazione presente in atti abbia, al massimo, consentito di affermarne la indeducibilità per difetto di documentazione ma non per la loro inesistenza; ha altresì aggiunto il ricorrente che la circostanza che i rapporti sottostanti alle fatture passive ricevute dalla Lairte non abbiano una base documentale scritta è di scarsa rilevanza, ove si consideri che i rapporti in questione, sebbene la sommatoria degli importi relativi agli stessi sia di considerevole importo, hanno, singolarmente considerati, valori monetari non elevati.

Il secondo motivo di impugnazione attiene alla violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, nella sua attuale formulazione, ove è esclusa la rilevanza penale della non corretta classificazione in sede di dichiarazione dei redditi della deducibilità di elementi passivi reali, circostanza che si sarebbe verificata nel caso concreto, in quanto il ricorrente avrebbe portato in deduzione oneri non inesistenti, ma indeducibili.

Il terzo motivo riguarda la violazione di legge per non avere il giudice del gravame ritenuto di potere concedere il beneficio della non menzione, pur avendo affermato la non particolare gravità del fatto contestato.

Analoga censura è stata formulata con riferimento alla mancata qualificazione del fatto fra quelli di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen..

Il quinto motivo di impugnazione ha ad oggetto la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui sono stati ricondotti a reddito, sulla base di una presunzione tipica del diritto tributario, i prelievi di cassa operati dal ricorrente e nella parte in cui non sono stati considerati provati gli impieghi di essi come costi riferiti al ciclo produttivo della impresa.

Il sesto motivo riguarda la illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui sono state ritenute relative ad operazioni inesistenti le fatture emesse dalla Top Shop a nome della Lairte, sebbene l’esistenza dei sottostanti rapporti è stata documentata non solo attraverso le dichiarazioni del commissario liquidatore della Top Shop ma anche attraverso la dimostrazione della esistenza di un’azione giudiziaria di questa volta al conseguimento dei crediti da essa vantati verso la Lairte.

Il settimo motivo di ricorso riguarda la violazione di legge ed il vizio di motivazione per avere la Corte di appello confermato la sentenza di condanna, pur in presenza di elementi che avrebbero dovuto condurre alla assoluzione dell’imputato in considerazione della sussistenza quanto meno di un legittimo dubbio in ordine alla sua penale responsabilità.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato nei sensi di cui in motivazione.

Per evidenti ragioni di economia processuale ritiene il Collegio di dovere esaminare prioritariamente il quinto fra i motivi di ricorso dedotti dalla difesa del G. , riferito all’aver i giudici del merito considerato presuntivamente riferibili a ricavi, non dichiarati, i prelievi di cassa eseguiti dall’imputato.

Tale deduzione, tuttavia, si basa su una presunzione che, nella sua assolutezza risulta essere tipicamente riconducibile al solo diritto tributario e non può estendere il suo campo di azione anche all’accertamento penale dei reati.

Più volte, infatti, questa Corte ha affermato, confermato e ribadito il principio secondo il quale le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sè fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, potendo solamente essere fondamento di elementi indiziari atti a giustificare l’adozione di misure cautelari reali a carico del soggetto interessato (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 8 giugno 2018, n. 26274). Si tratta, infatti, come in altra occasione è stato precisato da questa Corte con riferimento alle risultanze derivanti dalla presunzioni previste dal diritto tributario (ed il richiamo era proprio alla riconduzione a ricavi o compensi dei prelevamenti operati dal contribuente), di elementi che non possono costituire di per sè fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 16 luglio 2015, n. 30890; idem 13 febbraio 2013, n. 7078).

Nel caso in esame non risulta che la Corte catanzarese abbia preso in esame, come indicato dalla giurisprudenza di questa Corte, ulteriori elementi di riscontro, essendosi basata esclusivamente, ai fini della affermazione della penale responsabilità del G. , sulla esistenza dei predetti prelievi di cassa.

La sentenza impugnata, stante la insufficienza motivazionale e la violazione di legge insita nella utilizzazione in ambito improprio della presunzione tipica del diritto tributario, deve essere annullata, con assorbimento dei restanti motivi di impugnazione.

Non vi è luogo ad annullamento con rinvio, considerato che i reati contestati al G. , sono oramai prescritti a decorrere dal 19 marzo 2018.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i reati sono estinti per prescrizione.


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5 Commenti

    1. Matteo i due rimedi principali per difendersi contro una cartella di pagamento che si ritiene ingiusta sono: il ricorso al giudice, attraverso l’impugnazione della cartella di pagamento; l’istanza in autotutela. Esistono anche altre vie, se non per annullare l’obbligo di pagamento, quanto meno per renderlo meno gravoso per il contribuente. Si tratta: della richiesta di sospensione della cartella di pagamento; dell’opposizione al pignoramento; della richiesta di rateizzazione; della richiesta di “concordato” all’Agenzia delle Entrate-Riscossione.

  1. C’è un modo per difendersi dai controlli del fisco? C’è un modo per annullare la richiesta di pagamento e per contestare il debito dovuto al fisco? Grazie

    1. Rino i controlli incrociati vengono eseguiti in automatico dai software dell’Agenzia delle Entrate; per cui non esiste contribuente che si salvi. Essi quindi vengono effettuati sia per la piccola che per la grande evasione. L’unico limite è ovviamente il termine di decadenza che ha l’Agenzia per eseguire i controlli: sette anni in caso di mancata dichiarazione dei redditi; cinque anni in caso di compensi non indicati nella dichiarazione dei redditi regolarmente presentata. Puoi trovare maggiori informazioni nel nostro articolo https://www.laleggepertutti.it/222939_controlli-incrociati-del-fisco-ecco-come-funzionano

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