Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 29 aprile – 6 giugno 2019, n. 15410
Presidente Tirelli – Relatore Lamorgese
Rilevato che:
P.N. ha chiesto la determinazione delle giuste indennità di espropriazione – disposta dal Comune di Roma, a beneficio della società Aga 2005, per la realizzazione di una complessa opera d’interesse pubblico, denominata “Nuova Fiera di Roma” – di un’area parte della quale era di sua proprietà, in (omissis) , costituita da un terreno di mq. 1600, delimitato da un muro di cinta, su cui insistevano un capannone, due rampe in cemento armato, un pozzo e alberi da frutto.
L’adita Corte d’appello di Roma, istruita la causa in via documentale e mediante una consulenza d’ufficio, l’ha decisa con ordinanza del 26 novembre 2012: ha qualificato l’area come non edificabile e agricola e ha ritenuto l’eventuale sanabilità del manufatto abusivo irrilevante e non incidente sulla destinazione urbanistica dell’area; ha stimato il terreno in Euro 141488,00, il manufatto non sanato in Euro 66530,00, i soprassuoli in Euro 21223,00, per un importo complessivo di Euro 229241,00, oltre interessi.
La società Aga 2005 ha proposto ricorso per cassazione, cui il Comune di Roma ha aderito; il P. ha resistito proponendo anche ricorso incidentale. Le parti hanno presentato memorie difensive.
Considerato che:
Il primo motivo del ricorso principale, il quale denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 37, per avere sovrastimato il terreno per un importo fuori mercato, appiattendosi sulle conclusioni del ctu, pur correttamente qualificandolo come inedificabile, è inammissibile, risolvendosi nella richiesta di una impropria rivisitazione di apprezzamenti di fatto, incensurabili in questa sede.
Il secondo motivo lamenta l’attribuzione dell’indennità di esproprio per il manufatto abusivo, in violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 38, comma 2, che prevede a tal fine che sia pendente un procedimento di sanatoria mediante presentazione di apposita domanda, corredata della documentazione comprovante l’avvenuto versamento dell’oblazione e degli oneri concessori, per l’accertamento della sanabilità ai soli fini della corresponsione dell’indennità, mentre nella specie l’opponente non aveva dato alcuna prova della definizione del suddetto procedimento.
Il suddetto motivo deve essere esaminato congiuntamente al primo motivo del ricorso incidentale di P. , il quale denuncia violazione di legge, per avere stimato il manufatto come immobile non sanato, in termini riduttivi rispetto al valore di mercato, con riferimento al mero valore della struttura calcolato sui prezzi dei materiali e di costruzione, e per avere ritenuto irrilevante la “sanabilità” del manufatto, in contrasto con il principio, emergente dal D.P.R. n. 327 del 2001, art. 38, comma 2 bis, introdotto dal D.Lgs. n. 302 del 2002, art. 1, secondo cui, ai fini della stima dell’immobile abusivo al valore di mercato, è necessario ma anche sufficiente che l’espropriante abbia accertato la sussistenza delle condizioni di sanabilità dell’immobile, come avvenuto nella specie, avendo il Comune di Roma (con nota del 10 maggio 2006) accertato la sanabilità, avendolo considerato come “una semplice tettoia”.
Entrambi i motivi sono fondati nei seguenti termini.
La sentenza impugnata ha affermato la irrilevanza e non incidenza della questione della sanabilità del manufatto (privo di concessione in sanatoria e quindi abusivo) ai fini della valutazione del manufatto ed ha riconosciuto l’indennizzo (per un importo che, tra l’altro, non è chiaro se calcolato in base al valore di mercato o al solo costo di costruzione e dei materiali), senza tenere conto del principio, di cui invece avrebbe dovuto fare applicazione nella fattispecie, secondo cui, in caso di espropriazione di area su cui insista una costruzione abusiva, ed alla stregua del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 38, comma 2 bis, il diritto all’indennità non è escluso dall’originaria abusività dell’edificazione, ove l’immobile, alla data dell’esproprio, sia stato fatto oggetto di una domanda di sanatoria non ancora scrutinata dalla P.A., dovendo, in tal caso, quest’ultima effettuare una valutazione prognostica circa la sua condonabilità; il cui esito, se positivo, impone di tenerne conto nella quantificazione dell’indennità, altrimenti restando la stessa rapportata non già alle caratteristiche oggettive del bene sottoposto ad esproprio, ma ad una circostanza affatto casuale ed insignificante, quale l’avere la P.A. deciso o meno sull’istanza di condono, anche se – per ipotesi – in violazione dei termini all’uopo previsti (Cass. n. 28694 del 2016, n. 3794 del 2019).
Il suddetto principio dovrà essere applicato dal giudice di rinvio, il quale dovrà esaminare anche le ulteriori deduzioni delle parti, in questa sede assorbite: quella della ricorrente principale, in ordine al rilievo estimativo della superficie coperta dalla tettoia e dei soprassuoli (pavimentazione esterna, recinzione, cancello) e quella del ricorrente incidentale, in ordine al rilievo della demolizione dell’immobile da parte del beneficiario dell’espropriazione una volta acquisito l’immobile in proprietà che, si assume, avrebbe precluso la conclusione del procedimento di sanatoria.
È fondato anche il secondo motivo del ricorso incidentale con il quale il P. denuncia violazione di legge (art. 1224 e 2697 2729 c.c.), per avere negato il riconoscimento del maggior danno, di cui al comma 2 dell’art. 1224 cit., richiesto nel giudizio di merito.
La Corte di merito si è limitata ad affermare che il maggior danno non era provato, senza confrontarsi con il principio – che dovrà quindi applicare in sede di rinvio – secondo cui, nelle obbligazioni pecuniarie, il maggior danno da svalutazione, di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, è in via generale riconoscibile, in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento, dovendo ritenersi superata l’esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate. La misura di questo maggior danno va individuata nell’eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell’art. 1284 c.c., comma 1. È fatta salva la possibilità per il debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata. Per converso, il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza, è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand’anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione (Cass. SU n. 19499 del 2008).
In conclusione, la sentenza impugnata è cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di merito, cui si demanda la liquidazione delle spese.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo e accoglie il secondo motivo del ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.