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Vessazioni psicologiche sul lavoro: è mobbing?

16 Luglio 2019 | Autore:
Vessazioni psicologiche sul lavoro: è mobbing?

Quando scatta il mobbing sul lavoratore dipendente: rilevano anche le condotte colpose e non solo quelle dolose. Irrilevante il clima già conflittuale.

Anche poche e semplici condotte ai danni di un dipendente, come le vessazioni psicologiche sul lavoro, è mobbing. A sancire l’irrilevanza del numero di azioni e dell’eventuale clima di conflittualità all’interno dell’azienda è una recente e assai interessante sentenza della Cassazione [1]. Secondo i giudici, semplici condotte vessatorie possono configurare un caso di mobbing. Questo perché il riconoscimento di condotte vessatorie poste in essere sul luogo di lavoro ai danni di un dipendente equivalgono a comportamenti destinati ad opprimere consapevolmente l’altrui persona, integrando di per sé un «palese coefficiente intenzionale».  

Cosa c’è di importante in quest’ultima pronuncia della Suprema Corte? Che il mobbing viene, innanzitutto, slegato dal danno fisico, potendo anche essere di natura psicologica. In secondo luogo, non viene richiesto il «dolo», ossia l’intenzionalità da parte del datore di lavoro di procurare tale danno, essendo sufficiente la semplice prova delle condotte reiterate, a prescindere poi dagli scopi perseguiti.

Ma procediamo con ordine e vediamo come delle semplici vessazioni psicologiche sul lavoro possono far scattare il mobbing.

Cos’è il mobbing

Il termine mobbing deriva dal verbo inglese, to mob, che significa ledere, aggredire, assalire in massa. Tale termine descrive quindi una modalità di relazione di tipo patologico all’interno di una determinata comunità (familiare, lavorativa, amicale), volta a sopraffare ed eliminare i soggetti estranei o non più conformi agli interessi del gruppo. 

Non esiste una legge che definisce cos’è il mobbing. Si tratta di un’invenzione della giurisprudenza che, tuttavia, trova accoglimento in tutti i tribunali. Detto in parole molto semplici, il mobbing è una serie di comportamenti vessatori nei confronti del dipendente sorretti da un unico scopo: quello di emarginare ed allontanare il dipendente stesso. 

Più tecnicamente, il mobbing può definirsi come un’attività persecutoria posta in essere da uno o più soggetti (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica, quindi anche dai colleghi di pari rango) volta a indurre il dipendente a rinunciare volontariamente ad un incarico ovvero a precostituire i presupposti per una sua revoca attraverso una sua progressiva emarginazione dal mondo del lavoro. Tale attività deve avere una durata di più mesi (normalmente almeno sei, secondo gli studi più accreditati), concretandosi in condotte e/o atti illeciti reiterati e si presenta come una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi (mobbing orizzontale) o dei datori di lavoro (mobbing verticale).

Leggi Quando scatta il mobbing.

Come si riconosce il mobbing?

Non c’è un atto tipico di mobbing, ma questo può esplicarsi con comportamenti di varia natura volte a leggere la professionalità e la dignità del lavoratore come, ad esempio, l’attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte da contratto o l’abuso di procedimenti disciplinari.

Le forme che può assumere ill mobbing sono, quindi, molteplici: dalla semplice emarginazione all’assegnazione di compiti dequalificanti; dalle continue critiche alla sistematica persecuzione, dall’abuso del potere disciplinare all’adozione di una serie di contestazioni magari del tutto pretestuose; sino al vero e proprio sabotaggio del lavoro altrui o alla realizzazione di condotte integranti reato. 

L’obiettivo è univoco, ossia eliminare una persona che è, o è divenuta, in qualche modo scomoda, sfinendola psicologicamente e sminuendone il ruolo sociale in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni. Il mobbing, quindi, inteso come comunicazione conflittuale sul posto di lavoro, non presenta un’azione tipica perché può essere realizzato mediante qualunque condotta impropria che si manifesti attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o psichica di una persona, di metterne in pericolo l’impiego o di degradare il clima lavorativo.

Mobbing psicologico

Alla luce di ciò, il mobbing può esercitarsi anche con semplici minacce, vessazioni psicologiche, offese continue, richiami per fatti insussistenti. L’obiettivo è univoco, ossia eliminare una persona che è, o è divenuta, in qualche modo scomoda, sfinendola psicologicamente e sminuendone il ruolo sociale in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni. Anzi, il mobbing è proprio definibile come un comportamento aggressivo di persecuzione psicologica a danno di un individuo che può avvenire all’interno di un ambiente di lavoro. 

Il mobbing, quindi, non presenta un’azione tipica perché può essere realizzato mediante qualunque condotta impropria che si manifesti attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o psichica di una persona, di metterne in pericolo l’impiego o di degradare il clima lavorativo.

Ecco alcuni esempi di mobbing psicologico:

  • sistematica attività ostile posta in essere da colleghi o da superiori nei confronti di un lavoratore, comportamenti che incidono sulla possibilità della vittima di “comunicare” adeguatamente in azienda (per esempio, ostacolare la comunicazione, sia con i colleghi che con il management , operare continui e sistematici attacchi e formulare critiche immotivate nei confronti del lavoro svolto, opporre silenzi ostinati rispetto a eventuali richieste di colloquio);
  • condotte che comportano significative difficoltà per la vittima di mantenere i contatti sociali in ambito lavorativo (per esempio, i colleghi non parlano più con la vittima, di loro iniziativa o su imposizione della direzione aziendale o dei superiori gerarchici, la vittima è confinata in un luogo isolato o, comunque, gli è reso impossibile avere contatti con i compagni di lavoro);
  • comportamenti lesivi della reputazione della vittima (come, per esempio, la diffusione di pettegolezzi o di iniziative di ridicolizzazione, talora legate anche a particolari caratteristiche fisiche, etniche, al modo di vestire, di parlare, di camminare, a eventuali handicap del lavoratore “preso di mira”);
  • iniziative pregiudizievoli della posizione occupazionale (per esempio, il graduale e progressivo svuotamento delle mansioni, la progressiva inattività coatta, la continua reiterazione di sanzioni disciplinari ingiustificate, le continue e ossessive visite mediche di controllo dello stato di malattia, anche in presenza di una patologia ripetutamente accertata e comprovata nella sua gravità);
  • iniziative pregiudizievoli della salute psichica (per esempio, la vittima è minacciata o molestata sessualmente, le sono assegnati incarichi pericolosi e insopportabili, sono pretesi risultati impossibili da realizzare nei modi e nei tempi indicati).

Mobbing psicologico: come tutelarsi

Il Codice civile [2] stabilisce che «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro», disposizione che sembrerebbe costituire, già da sé, il fondamento giuridico della responsabilità del datore di lavoro per i danni da mobbing alla persona del lavoratore.

Il dipendente può azionare una causa ordinaria o, meglio ancora, un ricorso in via d’urgenza. Quando le condotte integrano il reato è possibile procedere a una querela.

Leggi Come fare causa per mobbing.

Quali sono le vittime del mobbing

Non esiste una categoria di persone predestinata a diventare una vittima del mobbing. In tal senso, gli studi in materia hanno dimostrato che quattro tipi di persone corrono particolarmente il pericolo di divenire vittime del mobbing:

  • una persona sola: l’unica donna in ufficio di maschi;
  • una persona “strana”: qualcuno che non si confonde con gli altri, ma che è in qualche modo diverso. Possiamo pensare ad un particolare modo di vestirsi, ma anche a persone disabili o di nazionalità straniera. A volte, può bastare anche solo il fatto di essere nubile/celibe in un ufficio di sposati o viceversa. In particolare, una persona che appartiene ad una minoranza ha un’altissima probabilità di essere mobbizzata;
  • una persona che ha successo. È facile provocare la gelosia dei colleghi: una promozione, una lode del capo, un omaggio di un cliente e via ai pettegolezzi e al sabotaggio;
  • una persona nuova: la persona che in precedenza ricopriva quel posto era molto popolare o la persona nuova ha qualcosa in più degli altri (forse è più qualificata o semplicemente più giovane).

Mobbing: non è necessaria l’intenzione di danneggiare

Secondo la sentenza della Cassazione citata in apertura, ai fini del mobbing non è necessaria la sussistenza di un dolo specifico, ossia di un preciso progetto del datore di lavoro di emarginare il dipendete: rileva l’effetto concreto che hanno le sue condotte. Il riconoscimento di comportamenti “vessatori” implica la sussistenza di condotte destinate ad opprimere deliberatamente l’altrui persona, integrando di per sé un «palese coefficiente intenzionale». Anche una serie di condotte vessatorie desumibili dalla documentazione prodotta in causa, tenendo conto che anche inadempienti colposi ad obblighi datoriali suscettibili di danneggiare psicologicamente il lavoratore possono integrare la responsabilità per mobbing.

Mobbing: se c’è clima di tensione

Secondo la Corte si può avere mobbing anche in presenza di un conflitto reciproco (si pensi al dipendente che, dinanzi alle continue accuse del datore di lavoro, anziché tacere, risponde a tono). La Corte esclude che per la configurazione del mobbing sia necessario che non ricorra una conflittualità siffatta. Infatti, pur a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è legittimato ad attuare comportamenti vessatori, potendo comunque esercitare i suoi poteri direzionali e disciplinari nei limiti previsti dalla legge e in ogni caso rispettosi della altrui persona.


note

[1] Cass. sent. n. 18808/19 del 12.07.2019.

[2] Art. 2087 cod. civ.

Autore immagine: 123rf com

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 30 gennaio – 12 luglio 2019, n. 18808

Presidente Napoletano – Relatore Belle’

Fatti di causa

1. La Corte di Appello di Milano, riformando parzialmente la pronuncia del Tribunale di Sondrio, ha accolto, oltre all’impugnativa di licenziamento e quanto ad essa consequenziale, la ulteriore domanda di risarcimento a titolo di danno cagionato da comportamenti persecutori sul luogo di lavoro (mobbing) proposta da F.I. nei confronti del Comune di (…).

La Corte accoglieva l’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dall’ente solo rispetto al primo motivo di gravame e nel resto riteneva comprovato il verificarsi e la rilevanza a fini risarcitori dei comportamenti dannosi, liquidando il danno alla salute che ne era derivato.

2. Avverso la sentenza il Comune di (…) ha proposto ricorso per cassazione con sei motivi, resistiti da controricorso, contenente anche ricorso incidentale, della F. .

Ragioni della decisione

1. I primi quattro motivi di ricorso addotti dal Comune di (…) contengono censure di vario tenore rispetto al mancato accoglimento dell’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dall’ente in secondo grado, assumendosi la violazione da parte della Corte territoriale (art. 360 c.p.c., n. 3) dell’art. 434 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 2, per inosservanza dei criteri di proposizione del gravame (primo motivo) e dell’art. 111 Cost. (giusto processo), per contrasto dell’atto di appello con i principi di sinteticità e chiarezza imposti dalla norma costituzionale (secondo motivo), nonché ancora con gli artt. 342 e 434 c.p.c., per assenza di censure formulate rispetto alla mancata affermazione di responsabilità ex art. 2087 c.c. (quarto motivo) ed infine sostenendosi (terzo motivo) la violazione dell’art. 112 c.p.c., per essersi la Corte distrettuale pronunciata sulla questione di ammissibilità solo in relazione al primo motivo di appello e non rispetto ai restanti motivi da due a nove.

1.1 I motivi sono da disattendere.

1.2 Non può intanto riconoscersi la ricorrenza del vizio di omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità dell’appello (terzo motivo), valendo il consolidato principio per cui esso non sussiste allorquando “la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte” (Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191), il che palesemente è da ritenersi avvenuto nel caso di specie, visto che dopo l’accoglimento dell’eccezione rispetto al primo motivo di appello, vi è stata pronuncia nel merito sugli altri motivi, evidentemente ritenuti idonei a sorreggere il riesame in sede di gravame.

1.3 È poi palese (secondo motivo di ricorso), dal tenore della sentenza impugnata, ma anche da quanto esposto con il ricorso per cassazione, che la Corte territoriale in sostanza ha accolto il quarto ed ottavo motivo di appello (come si desume dal fatto che essa ha svolto un riesame, in senso favorevole all’appellante, delle prove orali e documentali di cui in essi si tratta), del quinto e sesto motivo (in cui si lamentava anche dal punto di vista giuridico – il mancato riconoscimento del mobbing) e del primo motivo (in cui si richiamavano le valutazioni del c.t.u., poi utilizzate dalla Corte d’Appello per motivare sul nesso causale e sulla quantificazione del danno). Mentre d’altra parte, a fronte di quanto appena riepilogato, è irrilevante il fatto che l’appellante potesse avere richiamato o meno l’art. 2087 c.c., in quanto la doglianza sul mancato riconoscimento del mobbing c’era ed il richiamo delle norme in ipotesi violate non è necessario, in quanto l’art. 434 c.p.c., n. 2, fa riferimento all’indicazione “delle circostanze da cui deriva la violazione della legge”, ma non in senso stretto delle norme, notoriamente rientranti nell’ambito della diretta valutazione giudiziale (iura novit curia).

Del resto non si vede come tali doglianze, pur così riassunte in via estrema sulla base di quanto esposto negli atti del presente giudizio di cassazione, potessero non essere intese se non quali censure al contrario avviso del primo giudice sul merito di quella parte del contendere.

Ne risulta pertanto rispettato il principio secondo cui “gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass., S.U., 26 novembre 2017, n. 27199).

1.4 Non diversamente, la possibilità stessa di sintesi dei motivi che si coglie sia dalla sentenza impugnata, sia dal tenore del ricorso per cassazione, rende sterile la censura (secondo motivo) con cui si assume la scarsa chiarezza dell’atto di appello.

1.5. In definitiva, già per quanto dei motivi di appello si desume in ragione delle stesse argomentazioni su di essi contenute nel ricorso per cassazione (che non riporta la trascrizione integrale di tali motivi, ma solo alcuni stralci e riepiloghi riassuntivi, per quanto sufficienti al ragionamento di cui supra) e nella sentenza impugnata, le censure processuali proposte risultano infondate.

2. Il quinto motivo censura la sentenza impugnata per avere mal apprezzato, in punto di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) la sussistenza del mobbing, in violazione dell’art. 2087 c.c., con riferimento al fatto che era stata la stessa F. ad avere contribuito ad alimentare il clima interno al Comune ed al rilievo per cui non potrebbe essere parlarsi di mobbing in presenza di un conflitto reciproco sul posto di lavoro, in quanto sarebbe necessaria ontologicamente l’unilateralità dell’aggressione datoriale o di un collega e dunque la reciprocità escluderebbe l’esistenza dell’illecito.

Il sesto motivo denuncia sostanzialmente i medesimi aspetti sub specie (art. 360 c.p.c., n. 5) di omessa valutazione di un fatto decisivo, individuato appunto nella conclamata reciprocità conflittuale.

2.1 I motivi possono essere esaminati congiuntamente, data la loro connessione, e sono anch’essi da disattendere.

2.2 La Corte milanese, pur muovendo dal presupposto giuridico per cui a configurare un danno ex art. 2087 c.c., derivante dai comportamenti tenuti dal datore in ambito lavorativo non sarebbe necessario il dolo, pone poi a fondamento dell’accoglimento in parte qua della domanda l’individuazione di una “serie di condotte vessatorie” che essa desume dall’istruttoria documentale e orale acquisita in causa. L’affermazione sul dolo non è necessariamente errata, essendo pacifico che, seppure ciò non integri la fattispecie tipicamente intenzionale del mobbing, anche inadempimenti colposi ad obblighi datoriali che influiscano dannosamente sull’ambito psichico dei lavoratori possano integrare la responsabilità ex art. 2087 c.c. (Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; Cass. 20 aprile 2018, n. 9901). Tuttavia, nel caso di specie, quell’affermazione è in realtà ininfluente, atteso che il riconoscimento di comportamenti qualificati come “vessatori” ha il significato di comportamenti destinati ad opprimere deliberatamente l’altrui persona, il che integra di per sé l’individuazione di un palese coefficiente intenzionale.

2.3 Quanto poi all’esistenza di conflittualità reciproca, l’assunto rispetto alla mancata considerazione di essa è generico, se visto sotto il profilo della deduzione di un difetto di motivazione, non essendo stato neppure indicato, nell’ambito dei motivi di ricorso in esame, in quali fatti concreti tale reciprocità, dal lato del lavoratore, si sia manifestata.

D’altra parte non è vero che per configurare il mobbing (o lo straining) quali comportamenti vessatori nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra conflittualità reciproca.

Infatti, pur a fronte (in via di mera ipotesi) di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori. Egli può infatti senza dubbio esercitare i propri poteri direzionali ex art. 2104 c.c., comma 2, come anche, nel caso, i poteri disciplinari, ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali. Canone che è certamente e comunque superato allorquando i comportamenti datoriali – ovverosia proprio della parte che nell’ambito del rapporto si pone in posizione di supremazia in quanto titolare del potere di dirigere i propri dipendenti – ricevano una qualificazione in termini di vessatorietà.

3. Con il ricorso incidentale la ricorrente sostiene, rubricando il motivo sub art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto che nei 44 mesi di invalidità stimati dal c.t.u. sarebbero ricompresi i 345 giorni di inabilità temporanea, riconoscendo quindi 975 giorni di “temporanea”; mentre secondo la F. il danno da “totale” sarebbe di 345 giorni, cui dovrebbero aggiungersi (“ulteriori”, si dice nel controricorso contenente il ricorso incidentale) 44 mesi nel periodo da agosto 2009 – marzo 2013.

3.1 Il motivo è complessivamente inammissibile.

3.2 La Corte d’Appello ha ritenuto, richiamando la c.t.u., che il danno totale abbia avuto la durata di 44 mesi (1320 giorni) che poi corrispondono al periodo dall’agosto 2009 al marzo 2013, sicché è del tutto logico, con soli dati matematici e di calendario, che essa abbia poi ritenuto, muovendo ancora dal richiamo ai risultati della c.t.u., di dover detrarre i 345 giorni di invalidità assoluta da quei 1320, residuando così 975 giorni di parziale.

Pertanto la censura mossa ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c., non coglie nel segno ed è mal posta, in quanto delle due l’una: o si assume che la Corte abbia erroneamente percepito il dato di durata dell’invalidità complessiva quale risultante dalla c.t.u. e da essa espressamente richiamato ed allora si tratterebbe di errore nell’acquisizione di un dato processuale incontroverso tra le parti, da far valere con azione revocatoria ex art. 395 c.p.c., n. 4, e non con ricorso per cassazione; oppure si ritiene che sussista un vizio motivazionale nell’apprezzamento della durata dell’invalidità, la cui deduzione potrebbe essere ammessa – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – solo sub specie di omessa considerazione di un fatto decisivo, controverso tra le parti e oggetto di dibattito, ma tale certamente non è il risultato peritale, visto che non solo la ricorrente, ma anche la Corte pone a base del proprio ragionamento il predetto dato, che quindi è da aversi per esaminato nella sentenza impugnata, sicché non è in questo senso (l’unico possibile rispetto a meri errori di valutazione motivazionale) che può efficacemente intendersi la censura dispiegata.

4. Vanno in definitiva respinti sia il ricorso principale, sia quello incidentale.

L’evidente minor impegno defensionale e la minore incidenza sotto il profilo del valore che caratterizzano il ricorso incidentale impongono di valutare più gravemente la soccombenza del Comune, che dunque va condannato alla rifusione delle spese in favore della controparte, salva la compensazione, nella misura di quarto, in ragione della reiezione del motivo addotto dalla F. .

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile l’incidentale. Compensa per un quarto le spese del giudizio di legittimità, condannando il ricorrente principale a rifondere alla controparte i restanti tre quarti, quota che liquida in Euro 4.500,00 per compensi ed Euro 150,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello rispettivamente dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

 


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