Divisa e abiti da lavoro: chi deve provvedere ad acquisto e lavaggio


In molte professioni è richiesto al dipendente di indossare una particolare divisa o abito dal lavoro: quali sono gli obblighi in merito?
Carabinieri, poliziotti, finanzieri, infermieri, medici ospedalieri, giudici togati, vigilanti, addetti alle pulizie, camerieri, baristi, hostess e molti altri. Potremmo continuare a lungo nell’elencare tutte le professioni ed i mestieri per lo svolgimento dei quali viene richiesto al lavoratore di indossare un particolare vestiario o divisa da lavoro.
E’, dunque, più che legittimo chiedersi, nel caso in cui per lavoro si debba indossare divisa e abiti da lavoro: chi deve provvedere ad acquisto e lavaggio?
Si tratta di un profilo molto importante in quanto, quando si inizia un nuovo lavoro, ogni dipendente deve essere al corrente di quali sono i suoi compiti e i suoi doveri. Infatti, occorre sempre tenere conto che quando un dipendente disattende un obbligo posto a suo carico può rischiare di ricevere delle sanzioni disciplinari ed è, dunque, opportuno conoscere i propri doveri per non avere problemi nel rapporto di lavoro.
Indice
Il vestiario del dipendente: decoro o sicurezza?
Sono moltissimi i posti di lavoro nei quali viene fatta esplicita richiesta ai dipendenti di portare un certo tipo di vestiario da lavoro per conformarsi allo stile aziendale.
Occorre, tuttavia, considerare che ci sono, in questo ambito, delle differenze notevoli e che tali differenze comportano anche una diversità di disciplina con riferimento all’obbligo di acquistare, lavare e effettuare la manutenzione di abiti e divise da lavoro.
La prima ipotesi si ha quando l’azienda richiede al personale, ad esempio addetto presso gli uffici, di indossare un vestiario sobrio ed elegante. In questo caso, non viene richiesto ai dipendenti di mettersi una vera e propria divisa o abito da lavoro, che reca in sè anche i tratti distintivi dell’azienda. Si chiede, piuttosto, al dipendente, anche in vista del ruolo che ricopre all’interno dell’azienda, della eventuale presenza di clienti, riunioni, etc. di vestirsi con i propri indumenti e a suo piacimento, ma nel rispetto di un certo stile.
In altri casi, invece, indossare una specifica divisa o abito da lavoro fa parte di una strategia di marketing e, con questa strategia, l’azienda intende rafforzare il brand aziendale. Ci sono numerosi ristoranti, catene di negozi, supermercati, etc. in cui tutti i dipendenti indossano uno stesso abito o divisa da lavoro, magari con i relativi marchi aziendali. In questo caso, non siamo di fronte ad una mera indicazione del datore di lavoro relativa allo stile da tenere in azienda ma siamo di fronte ad un vero e proprio abito o divisa aziendale che i dipendenti sono chiamati ad indossare.
La terza ipotesi riguarda il caso in cui al dipendente viene richiesto di indossare un certo tipo di indumenti per finalità di prevenzione e di protezione nei confronti degli infortuni sul lavoro o delle malattie professionali. In questo caso, al lavoratore si richiede di indossare i cosiddetti dispositivi di protezione individuale (i cosddetti dpi) che servono ad eliminare o quantomeno a ridurre il rischio per la salute e la sicurezza dei dipendenti. Rientrano in questa nozione indumenti come il casco protettivo, i guanti, le scarpe antinfortunistica, etc.
Tale richiesta del datore di lavoro al dipendente fa parte, più in generale, del cosiddetto obbligo di sicurezza che grava, per espressa previsione di legge, su ogni datore di lavoro [1] vale a dire l’obbligo di porre in essere tutte le misure necessarie a tutelare la salute e la sicurezza dei prestatori di lavoro.
Divisa ed abiti da lavoro: chi provvede ad acquisto e lavaggio?
La distinzione che abbiamo appena illustrato produce effetti profondamente diversi nella disciplina dell’acquisto e del lavaggio degli abiti o divise aziendali.
Per quanto riguarda il primo caso, ossia l’ipotesi in cui l’azienda si limita ad indicare al dipendente uno stile da seguire coerente con lo stile aziendale e con le mansioni di lavoro cui è addetto il dipendente, in tale ipotesi acquisto e lavaggio degli indumenti è a carico del dipendente. Infatti, l’azienda non richiede di indossare una propria divisa ma unicamente di uniformarsi ad un certo stile. E’ evidente che il dipendente, in ogni caso, un qualche indumento deve pur indossarlo per andare al lavoro.
Ebbene, nella scelta del vestiario, egli dovrà tenere conto dello stile richiesto. Se non si adegua, almeno in teoria, l’azienda potrebbe ritenere il comportamento del dipendente una forma di inadempimento rispetto ad una direttiva che gli era stata fornita. Ne consegue che il dipendente potrebbe ricevere una lettera di contestazione disciplinare [2] ed essere dunque destinatario di un provvedimento disicplinare. Per questo si consiglia sempre di attenersi allo stile prescritto purchè lo stesso sia ragionevole anche in relazione al lavoro svolto.
Per quanto riguarda il secondo caso, e cioè l’ipotesi dell’azienda che prescrive ai dipendenti di indossare un certo abito o divisa da lavoro per rafforzare il brand e il proprio marchio, sarà l’azienda stessa a dover provvedere all’acquisto, al lavaggio ed alla riparazione degli abiti. Ovviamente, sarà compito del dipendente avere cura degli abiti e non danneggiarli. Se dovesse emergere una particolare negligenza nella cura degli abiti da parte del dipendente, lo stesso potrebbe essere chiamato a risarcire il danno. Questa disciplina si applica anche in tutte le ipotesi di divisa di lavoro, come nel caso delle Forze Armate, forze di polizia, etc.
Nel caso dei dispositivi di protezione individuale, la normativa relativa alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro [3] prevede l’onere in capo al datore di lavoro di fornire ai lavoratori i cosiddetti dpi, poichè tali dispositivi servono a proteggere il dipendente dai rischi che ne minaccino la sicurezza o la salute durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Il datore di lavoro, oltre ad acquistare e fornire i dpi, deve, anche assicurare la loro efficienza ed il loro adeguato funzionamento. E’, infatti, di tutta evidenza che i dpi devono essere funzionali alla protezione del dipendente non solo nel momento della loro consegna ma per tutta la durata della prestazione di lavoro. Se tali dispositivi si rompono o danneggiano devono quindi essere riparati o sostituiti.
Allo stesso modo, il lavaggio degli indumenti di protezione, come chiarito dalla giurisprudenza [4], compete al datore di lavoro essendo proprio lui il soggetto al quale la legge affida l’onere di tutelare la sicurezza dei dipendenti.
Vestiario da lavoro: chi paga il tempo tuta?
Un altro tema da chiarire, sempre connesso al vestiario ed agli indumenti di lavoro, concerne la retribuzione del cosiddetto tempo tuta, ossia, il diritto o meno del dipendente di essere retribuito nel tempo necessario a cambiarsi e ad indossare gli indumenti di lavoro, prima dell’avvio della prestazione lavorativa e dopo la fine della stessa.
Senza dubbio, rientra tra le direttive che il datore di lavoro può legittimamente imporre ai propri dipendenti, nell’esercizio del proprio potere direttivo quella di utilizzare, durante lo svolgimento della prestazione di lavoro, uno specifico abbigliamento per finalità utili all’impresa. Ciò può derivare, come detto, dalla volontà di diffondere un’immagine di omogeneità in azienda, dall’obiettivo di rafforzare il proprio brand, dal fatto che la mansione di lavoro rientra in un corpo contraddistinto da divise e altri segni distintivi.
Se è pacifico che l’azienda può richiedere e pretendere che i dipendenti indossino un certo vestiario è altresì evidente che questa legittima richiesta, che rientra nel potere del datore di lavoro di organizzare come ritiene l’attività produttiva, non può tradursi in un danno per i lavoratori. Non si può dunque pretendere che i lavoratori sostengano il costo per l’acquisto di questi indumenti nè debbano provvedere al relativo lavaggio.
Seguendo lo stesso ragionamento, il datore di lavoro non può pretendere che i dipendenti si mettano e si tolgano gli indumenti di lavoro al di fuori dell’orario di lavoro. Mettersi la tuta, infatti, è una precisa richiesta datoriale ed è, dunque, il datore di lavoro che deve remunerare il tempo necessario alle operazioni di vestizione e svestizione della tuta di lavoro.
Questa conclusione deriva da un principio fondamentale nel rapporto di lavoro secondo il quale il dipendente è soggetto alle direttive del datore di lavoro solo ed esclusivamente all’interno dell’orario di lavoro previsto dal contratto.
Fuori dell’orario contrattuale di lavoro, il dipendente non è tenuto a svolgere attività che gli sono state richieste dal datore di lavoro.
Ne deriva che l’azienda può imporre di indossare la divisa solo all’interno dell’orario di lavoro e non è ammissibile che il dipendente debba spendere il proprio tempo libero per svolgere un’attività che gli è stata espressamente richiesa dal datore di lavoro.
Tempo tuta: cosa fare se non viene pagato?
Il ragionamento fatto ci porta a concludere che il cosiddetto tempo tuta è, a tutti gli effetti, tempo di lavoro. Ne consegue che questo tempo – come affermato dalla giurisprudenza [5] – deve essere retribuito, attraverso la normale retribuzione oraria corrisposta al lavoratore e genera altresì contributi previdenziali.
Se il dipendente si trova nella condizione per la quale gli viene richiesto di procedere alla vestizione ed alla svestizione della tuta da lavoro al di fuori dell’orario lavorativo, egli può chiedere formalmente all’azienda la remunerazione del tempo tuta ed è bene precostituirsi la prova del tempo materialmente impiegato, giorno per giorno, per procedere a questa operazione.
In caso di diniego da parte dell’azienda, il lavoratore potrà agire per vie legali presentando un ricorso al giudice del lavoro con il quale venga richiesto di accertare il proprio diritto alla remunerazione del tempo tuta e venga condannata l’azienda al pagamento della retribuzione maturata dal dipendente nel tempo impiegato per indossare e togliere il vestiario da lavoro.
note
[1] Art. 2087 cod. civ.
[2] Art. 7 L. n. 300/1970.
[3] Artt. 74 e ss., D.Lgs. 81/2008.
[4] Cass. sent. n. 22922/05; Corte d’Appello di Milano, 18.10.2007.
[5] Cass. sent. n. 3763/98 e n. 19273/06.