Trasferimento come sanzione disciplinare


Il cambiamento della sede di lavoro può comportare gravi disagi nella vita del dipendente.
Conoscere in quale posto sarà chiamato a svolgere il proprio lavoro è un elemento fondamentale che ogni lavoratore valuta attentamente prima di accettare una proposta di lavoro. Anzi, in alcuni casi è uno degli elementi dirimenti che induce un lavoratore ad accettare o meno una certa occupazione. Per questo, la sede di lavoro rappresenta uno degli elementi più importanti del contratto di lavoro. Intorno alla sede di lavoro, infatti, il dipendente organizza la vita propria e della sua famiglia. Il trasferimento del dipendente in un’altra sede di lavoro è possibile, se ci sono motivi validi, ma può l’azienda adottare il trasferimento come sanzione disciplinare? Come vedremo questa possibilità è molto limitata.
In linea generale, infatti, il cambiamento della sede di lavoro deve essere dettato da esigenze organizzative e non da motivi disciplinari. Tuttavia, ci sono dei casi in cui i contratti collettivi prevedono questa possibilità.
Indice
Si può cambiare la sede di lavoro?
La scelta del lavoro è un mix di cuore e di testa, di sentimenti e di razionalità. Tutti noi abbiamo una predilezione naturale per certi tipi di lavoro, ma poi dobbiamo anche fare i conti con le esigenze di vita, con la nostra famiglia, con la necessità di essere vicini ai propri cari, etc. Per questo, anche se si trattasse del lavoro dei propri sogni, quando viene proposto ad un lavoratore un lavoro a molti chilometri di distanza da casa spesso il candidato rifiuta.
Possiamo, dunque, dire che la sede di lavoro è uno degli elementi fondamentali del contratto di lavoro ed è uno degli aspetti principali che induce un lavoratore ad accettare o meno una certa proposta di impiego. La sede di lavoro fa parte integrante del contratto di lavoro nel quale viene indicato l’indirizzo esatto dell’unità produttiva presso la quale il dipendente dovrà svolgere la prestazione di lavoro oggetto del contratto.
Il contratto di lavoro, al pari di qualsiasi contratto tra due parti, è frutto della volontà di entrambe le parti: dipendente e datore di lavoro.
Pertanto, chiariamo subito che, come regola generale, le parti possono sempre, consensualmente, modificare la sede di lavoro prevista originariamente nel contratto e prevederne una diversa. E’, però, necessario il consenso sia del dipendente che dell’impresa.
In alcuni casi, invece, è il datore di lavoro che può in modo unilaterale, e cioè senza dover ottenere il consenso del dipendente, disporre la modifica della sede di lavoro.
Se la modifica è momentanea parliamo di trasferta.
Tizio viene inviato per conto dell’azienda a partecipare ad un convegno in una città diversa da quella in cui lavora.
Se, invece, la sede di lavoro viene cambiata in modo definitivo parliamo di trasferimento del dipendente.
Tizio dovrà svolgere la prestazione di lavoro non più nella sede di lavoro originariamente prevista nel contratto ma nell’unità produttiva nella quale è stato trasferito.
Trasferimento del dipendente: quando è legittimo?
Il trasferimento del dipendente che, come abbiamo detto, viene disposto in modo unilaterale dal datore di lavoro, senza la necessità di sincerarsi circa il consenso del dipendente, può produrre nella vita del lavoratore delle conseguenze molto significative. Ciò, in particolare, accade quando il trasferimento viene disposto non in una unità produttiva vicina a quella originaria ma in una nuova sede che dista molti chilometri da quella di origine. In questi casi, al dipendente si impongono delle scelte di cambiamento radicale: cambiare città, cambiare casa, allontanarsi dai propri affetti, dalla propria vita sociale e di relazione, etc.
Per questo, la legge [1] esige che alla base di un simile provvedimento vi siano comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive dell’impresa. E’, infatti, necessario bilanciare in modo equo le necessità aziendali con la tutela dei diritti del dipendente.
Il datore di lavoro che trasferisce un dipendente deve, dunque, essere in grado di dimostrare, eventualmente anche in un giudizio di fronte al giudice del lavoro avente ad oggetto la legittimità del trasferimento intimato, la sussistenza delle comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive dell’impresa e in particolare:
- che le competenze di quel dipendente, e non di altri, erano indispensabili nella sede di destinazione;
- che non era possibile soddisfare l’esigenza aziendale in altro modo;
- che il trasferimento è funzionale e soddisfare le finalità per cui è stato disposto.
Il dipendente che riceve il trasferimento, dopo aver chiesto all’azienda di indicare i motivi tecnici ed organizzativi che lo hanno reso necessario, può infatti impugnare il trasferimento asserendo che lo stesso è nullo perché non fondato sui motivi tecnico-organizzativi richiesti dalla legge. In caso di accoglimento della domanda del dipendente, il giudice dichiarerà nullo il trasferimento e condannerà l’azienda a riadibire il dipendente alla originaria sede di lavoro nonché al risarcimento degli eventuali danni di cui viene offerta la prova causati dal trasferimento illegittimo.
Trasferimento come sanzione disciplinare: è possibile?
Certe volte, accade che il dipendente ricolleghi il trasferimento in altra sede ad un fatto che egli ha commesso e che potrebbe essere stato considerato dall’azienda un inadempimento contrattuale.
Tizio arriva tardi al lavoro per due giorni consecutivi senza giustificazione del ritardo. Dopo pochi giorni, la società lo trasferisce in una sede di lavoro molto distante da quella originaria. A domanda di Tizio, la società afferma che il dipendente era ormai incompatibile con gli altri colleghi e che si è, dunque, reso necessario un trasferimento per incompatibilità ambientale. Cosa può fare Tizio?
Prima di risolvere questa questione occorre fare un passo indietro.
Se un dipendente commette un fatto che può essere considerato un inadempimento contrattuale e che può ledere la fiducia dell’azienda, il datore di lavoro ha la possibilità di infliggergli una sorta di punizione, la cosiddetta sanzione disciplinare.
Uno dei principali poteri del datore di lavoro è, infatti, il potere disciplinare, ossia, la facoltà di infliggere al dipendente che commetta una infrazione disciplinare una sanzione commisurata alla gravità dell’inadempimento [2].
Tuttavia, onde evitare che questo potere degeneri e che i lavoratori possano essere sanzionati senza contraddittorio, la legge [3] ha introdotto uno specifico procedimento da seguire prima di infliggere la sanzione: il procedimento disciplinare.
Le fasi da seguire nel procedimento disciplinare sono tre:
- consegna al dipendente della contestazione disciplinare con l’indicazione tempestiva e dettagliata del fatto che, ad avviso del datore di lavoro, rappresenta un illecito disciplinare;
- difesa del dipendente che, entro cinque giorni dal ricevimento della contestazione disciplinare o nel maggior termine previsto dal Ccnl applicato, può giustificarsi per iscritto o chiedere di essere ascoltato oralmente;
- valutazione delle giustificazioni e decisione finale: se l’azienda accoglie le giustificazioni il procedimento si chiude. Se non le accoglie può infliggere una sanzione disciplinare.
Nella scelta della sanzione disciplinare da adottare, il datore di lavoro non gode di ampi margini. In primo luogo, come abbiamo detto, la sanzione disciplinare deve essere, a seguito di un giudizio di proporzionalità, commisurata alla gravità dell’inadempimento.
In secondo luogo, i Ccnl contengono una elencazione dei possibili inadempimenti dei dipendenti e delle relative sanzioni applicabili. Nell’esempio che abbiamo fatto, se il Ccnl applicato al rapporto di lavoro di Tizio prevede una specifica sanzione disciplinare per il dipendente che arrivi reiteratamente in ritardo al lavoro senza giustificazione, l’azienda dovrebbe applicare la sanzione prevista dal contratto collettivo.
Infine, si sottolinea che il datore di lavoro non può inventarsi una sanzione disciplinare liberamente: non è, infatti, possibile infliggere una qualsiasi sanzione disciplinare non “nominata” a causa del noto principio di tipicità delle sanzioni disciplinari [4].
In base a questo principio, le sanzioni disciplinari applicabili ai lavoratori sono solo quelle indicate dalla legge e/o dalla contrattazione collettiva.
Venendo al trasferimento come sanzione disciplinare, innanzitutto occorre notare che tra le sanzioni disciplinari di legge (ammonizione orale, ammonizione scritta, multa, sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, licenziamento disciplinare) non c’è il trasferimento della sede di lavoro.
Resta, dunque, la possibilità di usare il trasferimento come sanzione disciplinare solo nel caso in cui il Ccnl applicato al rapporto di lavoro preveda la modifica della sede di lavoro come una delle possibili sanzioni disciplinari.
Infatti, l’autonomia collettiva (ossia i contratti collettivi stipulati dalle parti sociali) è abilitata ad individuare nuove e diverse sanzioni disciplinari rispetto a quelle tipiche di legge. Ne consegue che non ci sono ostacoli ad ammettere l’eventuale norma di un Ccnl che prevede il trasferimento come sanzione disciplinare.
La legge, infatti, esige che le sanzioni disciplinari, ad eccezione del licenziamento, abbiano carattere conservativo. Ebbene, il trasferimento del dipendente ha carattere conservativo e non determina un mutamento definitivo del rapporto di lavoro, modificando solamente il luogo di adempimento della prestazione lavorativa.
Al di fuori di questo caso, e dunque in assenza di una norma del Ccnl che individua il trasferimento come sanzione disciplinare, se la modifica della sede di lavoro è, di fatto, un provvedimento di natura disciplinare lo stesso sarà illegittimo e il dipendente potrà impugnarlo chiedendo al giudice di dichiararlo nullo.
Infatti, in base alla legge, il trasferimento deve rispondere ad esigenze tecnico-organizzative e non a finalità di disciplina.
note
[1] Art. 2103 cod. civ.
[2] Art. 2106 cod. civ.
[3] Art. 7 L. n.300/1970.
[4] Cass. n. 359 del 1996.