Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 giugno – 30 settembre 2019, n. 40014
Presidente Zaza – Relatore Scordamaglia
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 10 maggio 2018, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città, in data 13 dicembre 2016, di condanna di Ru. Lo. per i reati di lesioni personali aggravate dall’uso di un’arma impropria e dall’odio raziale e di porto ingiustificato di uno strumento atto ad offendere.
2. Il ricorso per cassazione nell’interesse dell’imputato consta di due motivi:
2.1. il primo deduce il vizio di motivazione, per essere quella ostesa a corredo della decisione sulla responsabilità del tutto inconferente, essendo stati addotti a sostegno di essa elementi probatori privi di significato dimostrativo pur in una loro valutazione globale: infatti, le lesioni subite dal Fo. non erano state refertate ed il coltello con le quali sarebbero state prodotte non recava tracce di sangue; donde, in assenza di prova certa circa la realizzazione delle lesioni con l’uso di un’arma, v’era pure da dubitare che il delitto di cui all’art. 582 cod.pen. fosse procedibile, non avendo la parte offesa proposto querela;
2.2. il secondo denuncia il vizio di motivazione quanto al riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 3 L. n. 205 del 1993, per la cui integrazione non sarebbe sufficiente il solo fatto dell’essere stato il reato, cui essa accede, commesso in luogo pubblico, come sostenuto dalla Corte di appello, essendo necessario dar conto delle finalità perseguite dal soggetto agente.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile.
1. Per l’unanime giurisprudenza di questa Corte, il reato di lesioni personali può essere dimostrato, per il principio di libero convincimento del giudice e per l’assenza di una gerarchia tra i diversi mezzi di prova, sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa di cui sia stata positivamente valutata l’attendibilità, anche in mancanza di un referto medico che attesti la “malattia” derivata dalla condotta lesiva (Sez. 3, n. 42027 del 18/09/2014, A., Rv. 260986).
Ne viene che la doglianza articolata dal ricorrente, circa la mancanza di prova in ordine al contestatogli delitto di lesioni personali aggravate dall’uso del coltello, di cui agli artt. 582 e 585 cod.pen., in ragione della mancanza di un referto medico attestante la “malattia” derivata dall’aggressione denunciata e l’assenza di tracce di sangue sul coltello trovatogli indosso, è priva di fondamento, posto che, del tutto correttamente, la sentenza impugnata ha valorizzato, ai necessari fini probatori, le dichiarazioni della persona offesa in ordine all’aggressione sferratagli dall’imputato, le dichiarazioni degli agenti di polizia giudiziaria che avevano osservato i tagli presenti sull’avambraccio sinistro della vittima e il rinvenimento nella disponibilità dell’imputato di un coltello a punta ed a lama del tutto compatibile con le ferite presenti sulla cute della vittima, a nulla rilevando l’assenza di tracce di sangue sulla detta arma impropria in considerazione delle circostanze di fatto di cui il giudice censurato ha dato puntualmente conto.
Apprezzandosi, pertanto, come completa e congrua la motivazione resa in punto di prova delle lesioni personali subite dalla parte offesa, siccome aggravate dall’uso dell’arma impropria, che l’imputato aveva portato con sé fuori dalla propria abitazione, e in quanto tali procedibili d’ufficio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 582, comma 2, e 585, comma 1, cod.proc.pen., i rilievi proposti al riguardo vanno disattesi perché generici.
2. Manifestamente infondato è il motivo che censura l’insussistenza dell’aggravante di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso.
La Corte territoriale, nel riconoscerla, perché l’imputato si era reiteratamente scagliato contro il soggetto passivo dell’aggressione, anche alla presenza delle Forze dell’Ordine, appellandolo con le espressioni: <>, si è attenuta alla linea ermeneutica tracciata da questa Corte regolatrice secondo cui: <> (Sez. 5, n. 7859 del 02/11/2017 – dep. 19/02/2018, Serafini, Rv. 272278; Sez. 5, n. 49694 del 29/10/2009, B. e altri, Rv. 245828). Donde occorre ribadire il principio di diritto secondo il quale l’aggravante di cui all’art. 3 D.L. n. 122 del 1993, conv. in legge n. 205 del 1993, è configurabile nel caso di ricorso ad espressioni ingiuriose che rivelino l’inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa (Sez. 5, n. 43488 del 13/07/2015, Macaoni e altri, Rv. 264825).
3. S’impone, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
All’alba del nuovo millennio è incredibile che ci si debba ancora imbufalire nel sentire che ci possa essere in giro ancora GENTAGLIA che si esprime in tale modo! SEMPLICEMENTE INAUDITOOOOOO… Dovrebbe ormai essere assodato che Il concetto di eguaglianza è indiscutibile; la responsabilità è sempre dell’individuo singolo!!!
Eguaglianza è una cosa essere inferiori è un’altra. Ormai in Italia il bianco inteso come Italiano per capirsi è meno rispettato del nero. Il nero può dirti uomo di merda o bianco di merda senza che nessuno dica che è razzista, se lo dice un bianco è razzismo meno male che qui il codice ci difende. Dire negro di merda è un’offesa certo ma lo è come dire uomo di merda o bianco di merda.