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Si può rifiutare un cambio orario di lavoro?

5 Febbraio 2020
Si può rifiutare un cambio orario di lavoro?

Cambio di turno non comunicato e non accettato: si può smettere di lavorare?

Il tuo datore di lavoro ti ha cambiato il turno senza prima consultarti. Ti ha inviato l’ordine di servizio in cui sono indicati i nuovi orari. Il tutto è avvenuto unilateralmente, senza alcun confronto per verificare se, da parte tua, c’è disponibilità a lavorare in una diversa fascia della giornata. 

Ritieni però che la scelta sia lesiva dei tuoi diritti e, così, per tutta risposta, hai deciso di non recarti in azienda finché non verrà revocata la decisione. Poiché temi che tale comportamento potrebbe costituire la scusa per un licenziamento, prima di agire, intendi assumere le dovute informazioni da un legale. Dopo aver telefonato al tuo avvocato, gli chiedi: si può rifiutare un cambio di orario di lavoro?

La questione è stata, di recente, affrontata dalla Cassazione [1]. Ecco qual è l’orientamento dei giudici supremi, un orientamento che, anche se non fa legge, può dirsi ormai stabile e seguito da tutti i tribunali. Dunque, se avrai tempo per leggere queste istruzioni, potrai sapere con certezza come comportarti in un’ipotesi del genere. 

L’azienda può cambiare il turno di lavoro?

Il cambio di turno deciso solo dal datore di lavoro, senza quindi alcun accordo con il dipendente, non è mai consentito nel lavoro part-time, a meno che siano state previamente pattuite le cosiddette «clausole elastiche» (clausole cioè che consentono la variazione o l’aumento dell’orario lavorativo). In questo caso, quindi, prevale l’interesse del dipendente a programmare il proprio tempo libero; egli, infatti, potrebbe essersi già impegnato con un altro datore di lavoro per un’attività supplementare. 

Viceversa, nel lavoro full-time, il cambio di turno può essere imposto solo quando vi sono oggettive esigenze organizzative, tecniche o produttive dell’impresa.

Leggi Turno di lavoro: può essere cambiato? 

Il datore di lavoro deve rispettare il dovere di buona fede e correttezza nell’adempimento del contratto lavorativo e, di certo, la variazione del turno non supportata da esigenze imprenditoriali, è contraria a tali principi.

Il dipendente può rifiutare il cambio di turno?

Anche se il datore di lavoro decide un cambio di turno orario del dipendente senza che sia giustificato da obiettive ragioni organizzative, tecniche o produttive, il dipendente non può, di proprio arbitrio, interrompere la prestazione lavorativa e incrociare le braccia. Non può cioè smettere di lavorare se prima non interviene un ordine del giudice a dichiarare illegittimo il provvedimento aziendale. Quindi, dovere del lavoratore è quello di continuare a recarsi sul posto di lavoro e, nel frattempo, promuovere una causa contro il proprio datore. Solo all’esito di questa, in caso di accoglimento della domanda e, quindi, a seguito della decisione del giudice, si può rifiutare un cambio di orario di lavoro.

Cosa rischia il dipendente che non va a lavorare perché rifiuta il cambio di turno?

Secondo la Cassazione, è legittimo il “licenziamento disciplinare” del lavoratore, ritenuto colpevole di “grave insubordinazione” perché non accetta il cambio di turno e, per questo, decide di non andare a lavoro. 

La giusta causa di licenziamento scatta per via del comportamento integrato dal rifiuto volontario ed ingiustificato di sottoporsi alle direttive aziendali.

Per i giudici del ‘Palazzaccio’ è evidente l’abuso compiuto dal dipendente, che “volontariamente e senza alcuna giustificazione rifiuta le direttive aziendali”, così “contestando nella sostanza i poteri del datore di lavoro”.

In questa vicenda, si è appurato che “il dipendente si era sottratto all’indicazione datoriale, giustificata da esigenze organizzative, di un cambio turno” che “avrebbe determinato solo una variazione della squadra di lavoro e del relativo capogruppo e non anche dell’orario di lavoro”. E in questo contesto hanno avuto un grosso peso anche “le modalità oggettive di manifestazione del rifiuto, espresso in modo irrispettoso, e di quelle soggettive, evidenziate attraverso il riferimento al disinteresse, da parte del dipendente, di ricercare un compromesso con il suo datore”, senza dimenticare, poi, “l’intensità dell’elemento volitivo di sottrazione al comando” con “esplicita ed inequivocabile volontà di non adeguarsi al comando del proprio datore di lavoro”.


note

[1] Cass. ord. n. 2515/20 del 4.02.2020.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 9 ottobre 2019 – 4 febbraio 2020, n. 2515

Presidente Curzio – Relatore Marchese

Rilevato che:

la Corte di appello di Ancona, con sentenza nr. 452 del 2017, rigettava l’appello avverso la sentenza del Tribunale di Ancona (nr. 413 del 2016) che, a sua volta, aveva rigettato la domanda di impugnativa del licenziamento disciplinare, intimato per «grave insubordinazione», proposta da Em. Ol. nei confronti della VALMUS SRL, ai sensi dell’art. 414 cod.proc.civ.;

in estrema sintesi e per quanto qui solo rileva, i giudici di merito riconoscevano la sussistenza della giusta causa di licenziamento nel comportamento contestato al lavoratore ed integrato dal rifiuto volontario ed ingiustificato di sottoporsi alle direttive aziendali, manifestato con modalità del tutto irrispettosa del datore di lavoro (nello specifico, il lavoratore avrebbe rifiutato il cambio del turno di lavoro, in termini di inserimento in un’altra squadra di lavoro, con sottoposizione ad un diverso capogruppo, per meri e non giustificati motivi personali);

avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, affidato ad un unico ed articolato motivo;

ha resistito, con controricorso, la società VALMUS Srl;

entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis, comma 2, cod.proc.civ.; la parte ricorrente ha, altresì, depositato delibera di ammissione, in via provvisoria, al beneficio del patrocinio a spese dello Stato;

Rilevato che:

con un unico ed articolato motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 cod.civ., 1 della legge nr. 604 del 1966, artt. 9 e 10, titolo VII CCNL Metalmeccanici nonché vizio di motivazione per errata qualificazione dell’insubordinazione come grave e conseguente sproporzione tra il fatto addebitato e la sanzione espulsiva irrogata;

si assume l’erronea ricostruzione fattuale operata dai giudici di merito, per effetto di una non corretta valutazione delle dichiarazioni testimoniali nonché per l’omesso esame di tutti gli elementi necessari ai fini di un adeguato apprezzamento, in concreto, della reale gravità dell’addebito;

il motivo va, nel complesso, rigettato;

difetta di specificità la denuncia di violazione delle norme collettive; queste ultime, genericamente richiamate nella rubrica del motivo, non risultano né trascritte in ricorso (v. Cass. nr. 25728 del 2013; nr. 2560 del 2007; nr. 24461 del 2005 ), né ritualmente prodotte in giudizio (con deposito integrale della copia del contratto collettivo, cfr. Cass., sez.un. nr. 20075 del 2010, o con indicazione della sede processuale di rinvenimento del testo, Cass, sez.un., nr. 25038 del 2013);

la valutazione delle prove raccolte costituisce attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e sindacabile in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.) nei ristretti limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ., tempo per tempo vigente;

nella fattispecie in esame, la denuncia del vizio di motivazione è, in radice, impedita, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 348 ter, comma 5, cod.proc.civ., a tenore del quale, allorquando la sentenza d’appello conferma la decisione di primo grado, il ricorso per Cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1-2-3 e 4 del primo comma dell’articolo 360 cod.proc.civ.; la disposizione è applicabile ratione temporis ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dall’11 settembre 2012 ( articolo 54 co.2 DL 83/2012) e, dunque, al presente giudizio ove l’atto di appello risulta iscritto nel 2017;

in ogni caso, la denuncia di omesso esame «di tutti gli elementi» necessari ai fini dell’apprezzamento, in concreto, della reale gravità dell’addebito esula dal perimetro del motivo di cui all’art. 360, comma 1, nr. 5, cod. proc. civ., come delimitato da Cass., sez.un., nn. 8053 e 8054 del 2014 (i cui principi risultano costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici);

infondata è la denuncia di violazione dell’art. 2119 cod.civ.;

l’accertamento della gravità delle infrazioni poste a base di un licenziamento ( e quindi pure della «gravità» dell’insubordinazione), in quanto necessariamente mediata dalla valutazione delle risultanze di causa, si risolve in un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità in termini di violazione di legge se non con la specifica denuncia di un contrasto tra il giudizio in tal senso espresso dal giudice di merito (di gravità, appunto) ed i principi dell’ordinamento quali delineati dalla giurisdizione di legittimità o gli «standard» valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i principi medesimi, a comporre il diritto vivente (v. Cass. nr. 25743 del 2007; Cass. nr. 4369 del 2009);

nel caso di specie, alcun errore di diritto è imputabile alla Corte territoriale; quest’ultima ha accertato la sussistenza dell’infrazione contestata, sussumibile, anche per espressa previsione collettiva, sotto la specie della giusta causa di recesso («grave insubordinazione»), in quanto integrata dalla condotta del lavoratore che, volontariamente e senza alcuna giustificazione, ha rifiutato le direttive aziendali (cfr., in argomento, Cass. nr. 19689 del 2003), così, nella sostanza, contestando i poteri datoriali; nello specifico, il dipendente si è sottratto all’indicazione datoriale, giustificata da esigenze organizzative, di un cambio turno (che avrebbe determinato, secondo l’accertamento contenuto in sentenza, solo una variazione della squadra di lavoro e del relativo capogruppo e non anche dell’orario di lavoro);

la Corte di appello ha, poi, dimostrato di procedere alla successiva verifica imposta dalla domanda del lavoratore, indagando la ricorrenza, in concreto, della sussistenza della giusta causa di licenziamento; a tale riguardo, ha valorizzato le modalità oggettive di manifestazione del rifiuto, espresso in modo irrispettoso, e di quelle soggettive, evidenziate attraverso il riferimento al disinteresse, da parte del dipendente, di ricercare un compromesso con il suo datore ed all’intensità dell’elemento volitivo di sottrazione al comando («esplicita ed inequivocabile volontà di non adeguarsi al comando del proprio datore»);

in tal modo si coglie il controllo che è richiesto al giudice di merito, investito della domanda di invalidazione d’un licenziamento disciplinare: in primo luogo, la verifica della riconducibilità astratta della condotta contestata sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; quindi, all’esito, positivo, di tale delibazione, l’apprezzamento, in concreto, della gravità dell’addebito, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all’intensità dell’elemento soggettivo dell’agente ( in argomento, ex plurimis, Cass. nr.5019 tfe/2011);

in base alle svolte argomentazioni il ricorso va, dunque, rigettato, con le spese liquidate secondo soccombenza;

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.


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