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Assegno di mantenimento per coppie non sposate

14 Aprile 2020
Assegno di mantenimento per coppie non sposate

Quanti soldi deve versare il convivente di una coppia di fatto in caso di rottura dell’unione? Quali sono i criteri di calcolo degli alimenti?

Tempo fa hai iniziato una convivenza con un uomo. Avete vissuto a lungo sotto lo stesso tetto comportandovi proprio come se foste una normale famiglia, al pari cioè di una coppia sposata. Senonché è arrivata anche per voi la crisi e avete così deciso di separarvi. 

Grazie allo stipendio del tuo ex compagno avete potuto sino ad oggi far fronte a tutte le necessità economiche: avete pagato le bollette, l’affitto e fatto la spesa quotidianamente. Tu invece, ti sei presa cura del ménage domestico, lo hai aiutato in alcune attività, hai badato all’appartamento e a tutti i bisogni della famiglia. A fronte di ciò ti sei accontentata di lavori saltuari, quasi tutti precari. 

Non avendo ora di che vivere, ti chiedi se esista un assegno di mantenimento per coppie non sposate. Cosa prevede la legge per i partner conviventi? È previsto un sussidio, una forma di alimenti o qualsiasi altro sostegno economico che consenta, alla parte economicamente più debole della coppia, di tirare avanti almeno per i primi anni? Cerchiamo di fare il punto della situazione.

Coppie non sposate: esiste il mantenimento?

Per le coppie non sposate non esiste alcun diritto al mantenimento nei confronti dell’ex compagno o compagna. Ciò che infatti è previsto per marito e moglie, dove il coniuge con il reddito più elevato deve garantire all’ex l’autosufficienza economica, non vale invece per le coppie di fatto. 

L’unico dovere di mantenimento è nei confronti dei figli delle coppie non sposate per i quali sussistono gli stessi obblighi previsti per le famiglie tradizionali, ivi compresa la tutela penale. E difatti, il reato di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento dei figli si configura anche in caso di violazione degli obblighi di natura patrimoniale nei confronti di figli minori nati da genitori non legati dal vincolo formale del matrimonio [1].

A ben vedere non esiste neanche l’obbligo di restituzione delle spese sostenute nell’interesse della famiglia in quanto inquadrate come adempimento di un normale dovere di solidarietà, implicito anche nelle coppie non sposate. Solo eventuali costi sostenuti per la costruzione o la ristrutturazione della casa andranno restituiti nei limiti del 50% e sempre che si siano conservate le relative fatture. 

Se uno dei due conviventi dovesse eseguire in favore dell’altro una donazione di non modico valore (ad esempio una casa, un conto in banca, ecc.), l’altro sarebbe tenuto a versargli gli alimenti nel caso in cui questi dovesse trovarsi in condizioni di estrema miseria. Tale obbligo però si riferisce a qualsiasi tipo di donazione, anche tra parenti o estranei, non solo quindi ai partner. Gli alimenti peraltro non sono equiparabili al “mantenimento”. Innanzitutto scattano solo se il donante è in condizioni di estremo disagio, dettato dall’impossibilità oggettiva di lavorare e procurarsi un reddito (si pensi a una persona gravemente malata o anziana); in secondo luogo l’ammontare è ridotto alle sole necessità di vita (vitto e alloggio).

Insomma, quando finisce una «unione di fatto» – così come le chiama la legge – non è dovuto alcun assegno di mantenimento. Salvo però in un solo caso che vedremo qui di seguito.

Assegno di mantenimento per coppie non sposate

Come anticipato, esiste un solo caso in cui il partner di una coppia non sposata può rivendicare l’assegno di mantenimento e ciò avviene solo se i due hanno firmato un cosiddetto patto di convivenza. Si tratta di un vero e proprio contratto che, invece, alle coppie sposate non è consentito (visto che la legge vieta i cosiddetti “patti prematrimoniali”).

I conviventi possono regolare nel contratto i rapporti di natura patrimoniale relativi alla convivenza come ad esempio:

  • modalità di uso della casa;
  • spese durante la convivenza: i conviventi possono stabilire in quale modo e misura ciascuno di essi partecipa alle spese derivanti dalla convivenza o dall’attività lavorativa domestica ed extradomestica;
  • regime patrimoniale: i conviventi potrebbero ad esempio applicare il regime della comunione legale tra coniugi;
  • mantenimento del convivente: il contratto può prevedere un’obbligazione di mantenimento reciproca o di un convivente a favore dell’altro. Ad esempio uno dei partner potrebbe obbligarsi a versare una somma di denaro (in un’unica soluzione o periodica) o a trasferire beni (immobili, mobili o titoli) o diritti prevedendo che l’altro convivente si obblighi, da parte sua, a determinate attività o a determinati servizi (ad es. conservazione e pulizia dell’abitazione, assistenza medica).

È possibile anche regolare le conseguenze dell’inadempimento di tale obbligo con una clausola risolutiva espressa, o disciplinando la diffida ad adempiere o fissando una penale a carico dell’inadempiente.

Quanto al mantenimento, i conviventi potrebbero prevedere il pagamento di una somma di denaro a titolo di mantenimento dell’altro convivente privo di reddito adeguato. Il contratto può stabilirne l’ammontare, le modalità di pagamento (ad esempio in un’unica soluzione o a rate), la durata (ad esempio per un periodo pari a quello di durata della convivenza) e le modalità di effettuazione (ad es. assegno circolare o bonifico bancario).

Insomma, tutto è rimesso alla volontà delle parti. 

Il contratto non deve essere necessariamente firmato prima dell’inizio della convivenza ben potendo essere sottoscritto in qualsiasi momento, anche successivo all’avvio della convivenza.

Per stipulare un patto di convivenza le parti possono recarsi da un notaio o da un avvocato. La legge infatti stabilisce che tale accordo va redatto con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Il professionista che ha ricevuto l’atto deve provvedere, nei successivi 10 giorni, a trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.


note

[1] Cass. sent. n. 44695/19 del 4.11.2019.

Autore immagine: it.depositphotos.com


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