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Il Coronavirus e il legame con l’agricoltura

15 Aprile 2020 | Autore:
Il Coronavirus e il legame con l’agricoltura

Uno degli studi più interessanti di questi giorni mostra come la malattia si diffonda di più in aree dove non si usano metodi di coltivazione tradizionali.

È uno degli studi più originali di queste settimane. Nel proliferare (e meno male…) di pubblicazioni scientifiche che, quotidianamente, provano a rivelarci qualcosa in più sul coronavirus, ne spicca una dell’università di Firenze. A condurre la ricerca, il laboratorio Cultlab della scuola di agraria dell’ateneo, in collaborazione con la segreteria scientifica dell’Osservatorio nazionale paesaggio rurale.

Il focus dello studio, di cui ci parla l’agenzia di stampa Adnkronos, è il legame tra il Covid-19 e l’agricoltura. Pare proprio, infatti, dai risultati della pubblicazione, che nelle aree in cui si applicano sistemi di coltivazione tradizionali, si registri una diffusione minore della malattia. Il virus sembra interessare maggiormente le aree agricole periurbane e ad agricoltura intensiva, specialmente quelle della pianura padana, del fronte adriatico dell’Emilia Romagna, della valle dell’Arno tra Firenze e Pisa, e nelle zone intorno a Roma e Napoli, dove c’è una maggior meccanizzazione, impiego della chimica e agroindustria e più interrelazioni con urbanizzazione e inquinamento.

Una pubblicazione che riscuote a maggior ragione interesse, considerando l’importanza del settore primario in una fase emergenziale come questa. Proprio per tale motivo, come ha spiegato all’Adnkronos il coordinatore del progetto Mauro Agnoletti, responsabile scientifico del programma della Fao per la tutela dei paesaggi agricoli di rilevanza mondiale, “è  importante capire il rapporto fra i modelli di agricoltura e la diffusione del virus anche in vista del ripensamento del modello di sviluppo passata l’emergenza”.

La ricerca considera quattro macrozone: aree agricole urbane e periurbane, aree ad agricoltura intensiva (come la pianura padana), aree con agricoltura a media intensità energetica (metodi tradizionali) e aree con agricoltura a bassa intensità energetica (zone di montagna del centro-nord, collina meridionale e alcune pianure del sud e delle isole). I dati parlano da soli: la media nazionale dei contagi è 47 ogni 100 chilometri quadrati, che diventano 94 nelle zone ad agricoltura intensiva e 32 in quelle dove si utilizzano metodi di coltivazione tradizionali, a parità di ampiezza.

Basti guardare ai numeri della pianura padana, che comprende anche le città di Milano e Bergamo, solo per fare i nomi di due delle zone più colpite in Italia dal virus. Nel territorio della pianura padana si concentra il 61% delle aree ad agricoltura intensiva italiane, con un 70% di malati sul totale nazionale.

Secondo Agnoletti, è possibile che il coronavirus imporrà un ripensamento delle tecniche agricole, in funzione della fase 2 di gestione del Covid-19 e, in generale, del futuro. Il coordinatore dello studio ritiene infatti che il tipo di organizzazione produttiva, economica e sociale delle aree agricole non intensive “potrebbe rappresentare un modello di sviluppo da cui ripartire una volta passata l’emergenza”.



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