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Diritti dei lavoratori dipendenti

22 Febbraio 2023 | Autore:
Diritti dei lavoratori dipendenti

Dal diritto al lavoro alla retribuzione, dalle ferie alla parità di trattamento: cosa può rivendicare un dipendente nei confronti dell’azienda che lo ha assunto?

Si sente spesso invocare i sacrosanti diritti dei lavoratori dipendenti. Ma come mai se ne parla così tanto, visto che la Costituzione «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto»?

La fonte primaria dei diritti dei lavoratori è di certo, dopo la Costituzione, lo Statuto dei lavoratori: una legge del 1970 (la numero 300), adottata proprio per tutelare la parte più debole del rapporto di lavoro. Nonostante i suoi oltre 50 di anni di età, e alcuni recenti tentativi di ridimensionamento (come la legge Fornero del 2012 e il Jobs Act del 2015), lo Statuto dei lavoratori è oggi più che mai attuale, e si applica alla generalità dei rapporti di lavoro di tipo subordinato: la giurisprudenza ha un ruolo decisivo nell’attuarne le norme, perché molto spesso le vertenze per violazione dei fondamentali diritti dei lavoratori dipendenti si traducono in cause davanti al Giudice del Lavoro, istituito in ogni tribunale italiano.

La dimensione umana del lavoro

Quando avevo 24 anni ho fatto una lunga esperienza negli Stati Uniti lavorando a New York per diversi mesi. Dopodiché ho deciso di tornare in Italia. Questo perché ero un figlio di papà viziato e quel mondo competitivo e selettivo mi aveva spaventato. È vero: negli Stati Uniti, il più delle volte, se vali vai avanti; ma per farti valere devi rinunciare alla tua dimensione umana. 

Ecco: la dimensione umana del lavoro. È quella che innanzitutto la nostra Costituzione e la legge dopo vogliono tutelare quando parlano di diritto al lavoro: una realizzazione dell’uomo, per il benessere proprio e della società, ma che non può privare l’individuo della sua stessa esistenza, del contatto con la famiglia, con gli amici, con il tempo libero. Anche il tempo libero viene tutelato dalla nostra Costituzione che prevede il diritto alle ferie e al riposo quotidiano e ne rende garante il datore di lavoro su cui grava il relativo obbligo di rispettarne i tempi fissati dalla normativa. Né il dipendente vi può rinunciare in cambio di denaro: un patto del genere sarebbe nullo.

L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro «altrui», diceva una volta un comico. Un buon team di 7 persone è formato da una persona che comanda, una che dirige, una che controlla, un’altra che osserva e impara, un’altra che critica, un’altra che usufruisce dei permessi e, infine, una – e una sola – che davvero lavora.   Ironia a parte, di questi tempi chi sputa sul lavoro, bestemmia. Non per questo però il dipendente è un servo del datore. I suoi diritti sono scritti a chiare lettere. E allora, elenchiamoli ad uno ad uno.

Il lavoro è un diritto

L’articolo 4 della Costituzione stabilisce che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Questo non significa però che tutti abbiano diritto a un posto di lavoro e che se lo Stato non ce lo garantisce possiamo fargli causa ed ottenere magari il risarcimento. L’articolo 4 è solo una norma programmatica, ossia si limita a fissare un obiettivo, un principio del nostro Stato, che deve poi essere chiaramente realizzato nei limiti delle possibilità concrete, che sono condizionate, e spesso ostacolate, da vari fattori: economia di mercato, crisi occupazionali, disponibilità del bilancio dello Stato, e, ultimamente, anche rivoluzioni tecnologiche, guerre e pandemie.

Non si può invocare l’articolo 4 della Costituzione neanche se si chiede un’assunzione e il datore di lavoro la nega senza un valido motivo. Per alcune sentenze, però, la ragione del diniego dell’assunzione non può risiedere in discriminazioni come ad esempio l’essere omosessuali o donne non sposate. E il divieto di discriminazione è previsto sia nello Statuto dei lavoratori sia dal Codice delle pari opportunità, varato nel 1996 e potenziato nel 2021: leggi, ad esempio, cosa rischia chi non rispetta la parità di genere.

Il lavoro in nero: come difendersi

Non si può parlare di diritti dei lavoratori dipendenti se non si parla di lavoro in nero, forse la principale piaga del lavoro in Italia: chi si trova in questa triste situazione viene sottopagato, privato dei contributi previdenziali e degli altri diritti che esamineremo. Il datore di lavoro che non dichiara il dipendente non commette reato, se non supera determinate soglie, ma soltanto un illecito amministrativo, che comunque è sanzionato piuttosto pesantemente. Ci sono diversi modi per denunciare il lavoro in nero all’Ispettorato del lavoro e all’Autorità giudiziaria.

Oggi risulta assai rischioso avere una controversia con un lavoratore in nero, magari legata al suo licenziamento. Questi infatti può agire, fino a cinque anni dopo la cessazione del rapporto di lavoro, per il riconoscimento delle differenze retributive rispetto ai minimi previsti dal Ccnl, compresi gli straordinari, il Tfr, e soprattutto i contributi della previdenza. In più il datore di lavoro dovrà versare al dipendente in nero il risarcimento per via dell’illegittimo licenziamento che, come noto, deve essere sempre scritto: e di certo un lavoratore in nero non viene certo licenziato con una raccomandata, che costruirebbe la prova dell’irregolarità del rapporto.

Chi viene assunto senza regolare contratto ha svariati modi per dimostrare al giudice l’esistenza del rapporto di lavoro in nero e così ottenere tutte le somme previste dalla legge: può ad esempio filmarsi mentre svolge le attività o chiamare a testimoniare qualche amico, può esibire le email e gli sms che dimostrano l’esistenza del rapporto di lavoro, e così via.

Licenziamenti validi solo se motivati

Un tempo si diceva: «un lavoro dipendente è per sempre». Sappiamo tutti che oggi non è più così. Non per questo il datore può licenziare dalla sera alla mattina il proprio dipendente solo perché non gli ha portato il caffè o perché gli ha risposto in modo sgarbato in uno scatto d’ira perché non ha ancora ricevuto lo stipendio. 

Il licenziamento può avvenire validamente solo per due ragioni:

  • motivi disciplinari 
  • motivi legati all’organizzazione dell’azienda e alla produzione.

I motivi disciplinari sono quelli collegabili alle colpe del lavoratore. Si parla solo di colpe particolarmente gravi. Per i “peccati veniali” ci sono altre sanzioni come il richiamo scritto e la sospensione, secondo le previsioni dei contratti collettivi. 

Tra le colpe tali da provocare il licenziamento ci possono essere sia i comportamenti in malafede (ad esempio il dipendente insubordinato, quello che ruba o che non va a lavorare senza inviare il certificato medico), sia i comportamenti dovuti a colpa, imperizia o pigrizia (ad esempio il licenziamento per essersi addormentato sul lavoro, quello per scarso rendimento, ecc.).

Se la colpa è particolarmente grave, tanto da ledere in modo irrimediabile la fiducia che deve sussistere tra le parti, e dunque da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, il licenziamento è immediato, ossia in tronco, senza concessione del termine di preavviso. Si parla in questo caso di licenziamento per giusta causa. Se invece si tratta di una colpa meno grave ma ugualmente intollerabile, ci sarà il licenziamento con preavviso. Si parla a riguardo di licenziamento per giustificato motivo soggettivo (gmo).

La seconda categoria di licenziamenti è quella che avviene per motivi aziendali. Il classico caso è la crisi economica del settore, il calo delle commesse, delle vendite e dei ricavi, ma può trattarsi anche dell’innovazione tecnologica che renda obsoleto il lavoro manuale a favore dei robot, o di quello determinato da esigenze di riorganizzazione e ottimizzazione dei metodi di produzione.

Talvolta si può licenziare anche per una sopravvenuta invalidità del dipendente, ma attenzione: in questo caso, prima di licenziare, il datore deve verificare se il dipendente possa essere adibito ad altre mansioni di pari livello e, se ciò non dovesse essere possibile, dovrà accertarsi se, con il consenso del lavoratore, c’è possibilità di assegnargli mansioni di grado inferiore. Tutto questo per garantirgli la conservazione del posto. Solo in ultima istanza si potrà procedere al licenziamento. Leggi “Quando si può licenziare un invalido?

Contestazioni del licenziamento

Nel caso di licenziamento per motivi disciplinari il dipendente ha diritto a ricevere, in breve tempo rispetto alla commissione dell’illecito, una lettera di contestazione, con cinque giorni di tempo per difendersi per iscritto (eventualmente chiedendo un incontro di persona col capo). All’esito di questa fase l’azienda decide se licenziare o meno. E lo deve fare in breve tempo. Tale procedura di contestazione non è invece prevista per il licenziamento dovuto a motivi aziendali, che comunque deve essere concordato, nelle aziende di maggiori dimensioni, con le rappresentanze sindacali e con l’Ispettorato del lavoro.

In ogni caso il dipendente che vuol contestare il licenziamento deve farlo inviando una lettera raccomandata entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento e, se l’intimazione non ha esito positivo, nei successivi 180 giorni deve depositare il ricorso in tribunale, con l’assistenza di un avvocato. 

Attenzione: il licenziamento non può mai essere verbale. Se così fosse sarebbe nullo e il dipendente avrebbe diritto a tornare sul posto. Lo stesso diritto spetta quando il licenziamento avviene per motivi inesistenti. Quando invece l’azienda licenzia il dipendente per un fatto non tanto grave da poter comportare la risoluzione del rapporto di lavoro, il dipendente ha diritto solo a un risarcimento del danno, in forma di indennità commisurata alle mensilità di retribuzione globale di fatto, con un minimo di cinque: lo prevede l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che, dopo le modifiche apportate dal Jobs Act nel 2015, limita la reintegra nel posto a casi particolari.

Diritto al riposo

Il lavoratore ha diritto ad almeno 11 ore di riposo giornaliero consecutive ogni 24 ore. Si possono avere più rapporti di lavoro nello tesso tempo ma non possono andare ad incidere sul riposo minimo. Questo significa che una persona non può avere due contratti full time, perché altrimenti finirebbe per lavorare 16 ore al giorno e non potrebbe godere delle 11 ore di riposo.  

Il lavoratore ha diritto di fruire di un riposo settimanale ogni 7 giorni in misura almeno pari a 24 ore consecutive, da cumulare con le 11 ore di riposo giornaliero (quindi pari a 35 ore). Il periodo di riposo consecutivo non deve, comunque, essere tassativamente fruito ogni 7 giorni, ma può essere calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni.

Per approfondire leggi “Orario di lavoro: quando è illegale superarlo” e “Riposo settimanale negato ai dipendenti: quale tutela?”

Diritto alle ferie

Allo stesso modo, tutti i dipendenti hanno diritto a 4 settimane di ferie all’anno a cui non possono rinunciare neanche dietro pagamento. Nonostante le ferie siano solitamente concordate tra dipendente e datore di lavoro, è quest’ultimo ad avere il potere di decidere in quali giorni andare in vacanza: il codice civile, infatti, dispone che sia il datore di lavoro a stabilire il periodo annuale di ferie retribuite, possibilmente continuativo, nel rispetto del periodo minimo.

La legge dispone il godimento delle ferie, durante l’anno di maturazione, in misura pari ad almeno 2 settimane, possibilmente consecutive; le rimanenti 2 settimane devono essere godute nei 18 mesi successivi all’anno di maturazione. Per maggiori dettagli leggi “Ferie non godute: cosa fare?“.

Diritto alla busta paga e al Tfr

Il dipendente deve essere pagato per quello che fa. Quindi se il datore di lavoro gli fa svolgere dei lavori superiori alla propria qualifica gli deve una maggiorazione e, in alcuni casi, anche la promozione. Allo stesso modo c’è un limite minimo nel pagamento della retribuzione indicato dai contratti collettivi per ciascuna categoria, qualifica e livello di inquadramento.

La busta paga va versata a fine mese. Se il datore di lavoro ritarda di qualche giorno si può procedere a una diffida scritta rivolta all’azienda. Ma se il ritardo è periodico e mette in difficoltà il dipendente, questi può dimettersi per giusta causa e così ottenere l’assegno di disoccupazione dell’Inps. Per maggiori dettagli leggi l’articolo “Retribuzione non pagata: che fare?“.

Non esiste l’obbligo di dare a tutti i dipendenti la stessa paga, per cui il datore di lavoro può fare delle preferenze e remunerare alcuni più degli altri. Tuttavia a due condizioni: che rispetti i limiti fissati dai contratti collettivi e che tali differenze non siano dovute a discriminazioni basate sul sesso, la fede religiosa, l’orientamento sessuale, politico o sindacale.

Riprese sui luoghi di lavoro

Il dipendente non può essere oggetto di riprese audiovisive o di controlli da parte di detective mentre è in azienda e svolge le sue funzioni. Le riprese sono consentite solo se c’è un’esigenza produttiva (si pensi alla telecamera puntata sulla porta del negozio per vedere se entrano clienti) o di tutela dei lavoratori o del patrimonio aziendale (la telecamera su un macchinario pericoloso o per prevenire furti). In tali casi l’installazione della telecamera può avvenire solo a due condizioni:

  • ci deve essere prima l’accordo con i sindacati o, in mancanza, l’autorizzazione della Direzione Territoriale del lavoro;
  • la loro presenza deve essere comunicata ai dipendenti con appositi cartelli e avvisi. 

Fuori dall’orario di lavoro, però, il datore di lavoro può far pedinare i dipendenti da investigatori privati per verificare che questi non commettano illeciti che potrebbero danneggiare l’azienda (si pensi a chi riveli i segreti industriali; a chi, benché in malattia, svolga un secondo lavoro, ecc.).

Tutela del lavoratore e mobbing

Il datore di lavoro è tenuto in generale a preservare l’integrità fisica e morale del lavoratore, pena il risarcimento dell’eventuale danno, anche non patrimoniale. Egli deve anche preservare la personalità del lavoratore non attuando nei suoi confronti il famoso mobbing. 

Il mobbing consiste in comportamenti persecutori esercitati sistematicamente sul posto di lavoro da colleghi o superiori, che si possono concretizzare in violenza psicologica, emarginazione sociale o sabotaggio professionale. Tali condotte sono finalizzate a isolare il lavoratore, a mortificarlo e, infine, a indurlo a dare le dimissioni.

Perché si possa configurare il mobbing, deve esserci una serie di comportamenti unificati da un intento persecutorio, vessatorio o oppressivo, compiuti contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo; queste condotte possono essere messe in atto non solo dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici (il fenomeno prende il nome di bossing), ma anche da altri dipendenti (è il cosiddetto mobbing orizzontale), e tutto ciò deve causare un danno alla salute, alla personalità o alla dignità del dipendente, che dovrà essere risarcito. Per approfondire leggi “Cosa fare quando c’è mobbing sul lavoro“.



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