Rinnovo del contratto a termine e cassa integrazione


L’ordinamento italiano predilige l’assunzione dei lavoratori attraverso contratti che diano stabilità al personale, tuttavia esistono ulteriori particolari tipologie che, proprio in virtù delle loro caratteristiche, sono sottoposte a rigido controllo.
Il lavoro rappresenta uno dei valori fondamentali della nostra Costituzione, trovando idonea tutela anche a livello sovranazionale, in particolare all’interno della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Attraverso il lavoro, infatti, il lavoratore forma la propria personalità e ottiene le risorse necessarie a condurre una vita libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia. Da questa considerazione derivano una serie di limiti che l’ordinamento prevede per l’assunzione di lavoratori con contratti precari. Tra questi limiti, ad esempio, si prevede l’impossibilità del rinnovo del contratto a termine e cassa integrazione.
Lo Stato, infatti, mette a disposizione delle imprese degli strumenti di ammortizzazione sociale in caso di crisi aziendale, ma esige che, in primo luogo, siano tutelati i lavoratori a tempo indeterminato ai quali sia stato chiesto un sacrificio in termini di orario di lavoro e di retribuzione.
Indice
Cos’è il contratto a termine?
Il nostro ordinamento, in linea con quanto prevedono le direttive europee, considera il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma normale di assunzione dei lavoratori [1]. Infatti, lo Stato, ritenendo il lavoro l’attività che più di ogni altra contribuisce a dare sicurezza al lavoratore e alla società nel suo insieme, favorisce l’assunzione dei dipendenti da parte dei datori di lavoro con contratti che siano in grado di garantire al lavoratore e alla sua famiglia stabilità e sicurezza nel tempo.
Per questo motivo, la possibilità di prevedere un termine al rapporto di lavoro, vale a dire una data finale raggiunta la quale il contratto di lavoro cesserà di produrre i propri effetti, è strettamente regolata dalla legge e sono stabiliti diversi limiti: si tratta, in queste ipotesi, del c.d. contratto a termine, o contratto a tempo determinato.
L’entità ed il grado di vincolatività dei predetti limiti ha subìto diverse modifiche nel corso del tempo. Si sono alternate, infatti, normative più restrittive e normative più permissive.
Nello specifico, il c.d. Decreto Dignità [2] ha reintrodotto una serie di limiti alla possibilità di apposizione del termine al contratto di lavoro che in precedenza erano stati superati dal Jobs Act, ed in ultimo, il più recente Decreto Lavoro 2023 [3] prevede nuove causali di prolungamento di tale tipologia di contratto.
Contratto a termine: la durata massima
Il principale limite alla possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro è rappresentato dalla durata massima del rapporto a tempo determinato.
Attualmente le parti possono liberamente prevedere un termine fino ad un massimo di 12 mesi, senza dover indicare la causale che rende necessaria l’apposizione dello stesso.
Il termine massimo consentito può essere esteso fino a un periodo di 24 mesi di durata del rapporto, ma in questo caso, essendo superata la soglia dei 12 mesi, è necessario indicare la causale che comporta la proroga o il rinnovo del contratto.
Le causali della precedente normativa riguardavano esigenze temporanee ed oggettive, per cui estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di lavoratori o connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Le causali introdotte dal nuovo decreto lavoro ricomprendono i casi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle RSA/RSU; quando sussistano esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, nonché in sostituzione di altri lavoratori.
Tuttavia, esse non trovano applicazione, per cui permane la precedente disciplina, in alcuni settori. Si tratta dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni; dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati dalle università private, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione; dei contratti stipulati da enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di trasferimento di know-how, di supporto all’innovazione, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione [4].
Una volta scaduti i 24 mesi di durata massima del rapporto, è possibile stipulare un altro contratto a termine di durata massima pari a 12 mesi solo innanzi all’Ispettorato territoriale del lavoro (c.d. deroga assistita) o una delle sedi delle commissioni di certificazione [5], in ogni caso non oltre i 36 mesi complessivi. I contratti collettivi nazionali di lavoro possono prevedere un diverso limite.
Il periodo di durata massima di 24 mesi del rapporto di lavoro si applica anche se le parti sottoscrivono una pluralità di rapporti di lavoro a tempo determinato, a patto che i contratti via via sottoscritti abbiano ad oggetto lo svolgimento delle medesime mansioni, con l’inquadramento del lavoratore nel medesimo livello di inquadramento e la medesima categoria legale.
Se il rapporto di lavoro dura, o con un singolo rapporto o con una pluralità di rapporti, più di 24 mesi, il lavoratore può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla data in cui è stato superato il limite massimo.
Per questo occorre prestare molta attenzione ai cosiddetti “contatori”, ossia, introdurre in azienda dei meccanismi che consentano di monitorare la durata massima dei singoli rapporti a termine.
Contratto a termine: il numero massimo
Oltre alla durata massima, un altro limite introdotto dal legislatore al rapporto di lavoro a tempo determinato è rappresentato dal numero massimo di dipendenti che possano essere impiegati con tale tipologia di contratto. La legge prevede che, in azienda, i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato non possano superare la percentuale del 20% dei lavoratori complessivamente assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato dal primo gennaio dell’anno di assunzione. La violazione comporta una sanzione amministrativa.
Quando il numero dei dipendenti, invece, risulta pari o inferiore a 5, è sempre possibile la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato.
Nel caso di compresenza di lavoratori assunti con contratto a tempo determinato e lavoratori inviati in missione da agenzie del lavoro con contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, il numero complessivo non può superare la percentuale del 30% dei lavoratori complessivamente assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato.
I contratti collettivi nazionali di lavoro possono prevedere delle percentuali massime diverse, sia con riferimento al numero massimo di lavoratori a termine che con riferimento al limite complessivo tra lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato e lavoratori operanti in azienda con contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato.
Contratto a termine: i divieti
In alcuni casi, l’ordinamento prevede un divieto assoluto di sottoscrizione di un contratto a termine.
In particolare, la stipulazione del contratto a tempo determinato è vietata:
- per la sostituzione di lavoratori che hanno esercitato il diritto di sciopero;
- presso unità produttive nelle quali, nel semestre precedente, siano stati effettuati licenziamenti collettivi;
- presso unità produttive nelle quali è in corso una sospensione o riduzione dell’attività di lavoro del personale con accesso alla cassa integrazione guadagni;
- da parte di datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi richiesta dalla normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Se, nonostante la sussistenza di una delle ipotesi vietate dalla legge, le parti sottoscrivono un contratto di lavoro a termine, il lavoratore può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dalla data di inizio della prestazione lavorativa.
Rinnovo del contratto a termine e cassa integrazione
Come abbiamo visto, la legge prevede un divieto assoluto di stipula di un contratto a tempo determinato presso le unità produttive nelle quali sia in corso un programma di riduzione o sospensione dell’attività di lavoro dei dipendenti, con accesso alla cassa integrazione guadagni.
Quest’ultima costituisce uno strumento di sostegno al reddito dei lavoratori in corso di rapporto, in particolare la cassa integrazione guadagni ordinaria (CIG) comporta l’intervento dell’INPS a copertura della retribuzione che i dipendenti abbiano perso nei periodi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, per crisi anche temporanee; la cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS), invece, consente al datore di lavoro di gestire l’eccedenza di personale sospendendo temporaneamente i dipendenti dal lavoro e consentendo loro di fruire del trattamento di integrazione salariale a carico dell’INPS.
Cosa accade, tuttavia, se, durante la fruizione della cassa integrazione, scade il termine del contratto di lavoro? Può il datore di lavoro prorogare o rinnovare il contratto a termine durante la fruizione della cassa integrazione? La risposta è negativa. In linea generale, infatti, il divieto di sottoscrizione di un contratto a termine riguarda anche il rinnovo e la proroga dei contratti a termine sussistenti al momento dell’accesso alla cassa integrazione. Infatti, durante la cassa integrazione, il trattamento salariale del lavoratore viene integrato con il pagamento di un trattamento di integrazione salariale a carico dello Stato.
La proroga o il rinnovo del contratto a termine, dunque, potrebbe essere disposta dalle parti solo al fine di consentire al lavoratore di fruire dell’indennità economica erogata dall’Inps. Ne consegue che, in linea generale, se un contratto a termine scade durante il periodo di fruizione della cassa integrazione, il rapporto di lavoro cessa senza possibilità di prorogarlo o di rinnovarlo.
Ma cosa si intende per proroga e per rinnovo?
La proroga richiede il consenso del lavoratore, deve risultare da atto scritto e può aversi quando la durata iniziale del contratto è inferiore a 24 mesi e, in ogni caso, per un massimo di 4 volte nell’arco dei 24 mesi stessi.
Il rinnovo, invece, può avvenire unicamente quando siano presenti delle specifiche causali per la sottoscrizione di un contratto a tempo determinato, risultante da atto scritto e nel rispetto di un intervallo di tempo intercorrente tra la sottoscrizione dei due contratti (c.d. stop and go), vale a dire di 10 giorni per contratti fino a 6 mesi e di 20 giorni per contratti di durata superiore a 6 mesi.
La intervalli minimi non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali e nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi.
In linea generale, nei casi di proroga e rinnovo, la violazione dei limiti comporta la conversione del contratto in indeterminato.
Tuttavia, al fine di gestire le conseguenze dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, sono state introdotte delle tipologie di cassa integrazione specifiche.
Durante l’iter di conversione in legge del decreto “Cura Italia” è stato previsto che [6], in deroga alle regole ordinarie, i datori di lavoro possono rinnovare e prorogare i contratti a termine anche durante la fruizione della cassa integrazione. Ciò in quanto, molto spesso, a causa dell’emergenza da Covid-19, l’azienda ha dovuto accedere all’ammortizzatore sociale poiché la propria attività è stata sospesa con provvedimento del governo, nell’ambito delle misure adottate per contenere la diffusione del contagio.
Impedire il rinnovo o la proroga dei contratti significherebbe, per molte aziende, disperdere il patrimonio umano costruito anno per anno e rappresentato da rapporti di lavoro consolidati nel tempo con personale di fiducia.
Contratto a termine e accesso alla cassa integrazione
Da quanto esposto emerge che, quando un’azienda decide di accedere alla cassa integrazione, anche i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato possono essere inclusi nel trattamento di integrazione salariale.
L’unico requisito richiesto dalla legge, infatti, è il possesso di un’anzianità di effettivo servizio presso l’unità produttiva per la quale l’azienda richiede l’intervento di integrazione salariale di almeno 90 giorni di lavoro effettivo.
Non rileva, invece, il fatto che il contratto di lavoro prevede un termine finale. La presenza di contratti di lavoro a tempo determinato deve essere presa in considerazione anche per verificare il numero di dipendenti occupati dall’azienda. Si tratta di un’informazione importante per le aziende che vogliono accedere alla cassa integrazione, in quanto le diverse tipologie si applicano anche in base al numero dei dipendenti occupati.
Ad esempio, l’azienda ha accesso al Fondo di integrazione salariale Inps solo se ha più di cinque dipendenti. Oppure, il tour operator ha accesso alla Cassa integrazione guadagni straordinaria solo se ha più di 50 dipendenti.
Come si computano i lavoratori a termine?
La regola generale prevista dal Codice dei Contratti è che, ogni volta in cui una legge fissa un determinato requisito dimensionale dell’impresa, i lavoratori a tempo determinato devono essere computati con riferimento agli ultimi 24 mesi dalla data in cui la soglia dimensionale deve essere verificata.
Non contano, dunque, solo i rapporti di lavoro a termine presenti alla data della domanda, ma la media dei rapporti di lavoro a termine degli ultimi due anni proporzionata alla durata dei rapporti stessi.
note
[1] Art. 1 D. Lgs. 81/2015.
[2] Art. 19 ss. D. Lgs. 81/2015.
[3] Art. 19 bis D.L. 18/2020.