Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 17 settembre – 14 novembre 2014, n. 24295
Presidente Bianchini – Relatore Falaschi
Considerato in fatto
B.C. , proprietaria di due locali terranei presso il fabbricato A del condominio di Via (omissis) , entrambi con ingresso dal viale condominiale, negata dall’assemblea condominiale del 21-02-2005 l’autorizzazione dalla stessa richiesta per l’apertura di un ulteriore accesso per uno dei suddetti immobili nell’androne della scala B, con ricorso depositato il 21-03-2005 impugnava la relativa delibera assembleare, chiedendo: a) accertarsi preliminarmente il proprio diritto alla realizzazione della menzionata nuova entrata; b) l’annullamento della delibera de qua; c) la condanna del condominio convenuto al risarcimento dei danni sofferti. Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 827/2007, accoglieva le sole prime due domande attoree, rigettando la terza per difetto di prova in ordine all’esistenza dei danni asseritamente patiti.
Avverso tale decisione, con citazione notificata il 06-07-2007, il condominio di Via (omissis) interponeva appello per la totale riforma della sentenza impugnata.
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 2060/2012, rigettava integralmente il gravame proposto, per l’effetto confermando la sentenza di primo grado.
Per la cassazione di tale ultimo provvedimento, C.A.M. e S. , D.V. e C.M. , tutti in qualità di partecipanti al condominio di Via (omissis) , propongono ricorso affidato ai seguenti 2 motivi:
1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 81 e 112 c.p.c. e dell’art. 1137 c.c., in relazione all’art. 360, 1 comma, n. 3 c.p.c.; nonché vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, 1 comma, n. 5 c.p.c..
2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 cc, in relazione all’art. 360, 1 comma, n. 3 c.p.c.; nonché vizio di omessa e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, 1 comma, n. 5 c.p.c..
La B. resiste con controricorso.
Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c. proponendo il rigetto del ricorso.
Ritenuto in diritto
Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c. che di seguito si riporta:
“Con il primo motivo, i ricorrenti si dolgono innanzitutto della violazione dell’art. 81 c.p.c. e dell’art. 1137 cc, per aver il giudice a quo dichiarato inammissibile, ex art. 345, 2 comma c.p.c., l’eccezione di carenza di legittimazione di controparte sollevata dall’appellante. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, la mancanza in capo alla B. della qualità di condomina, necessaria ai fini dell’impugnazione delle delibere assembleari ex art. 1137 c.c., sarebbe desumibile dai criteri, indicati nel regolamento condominiale, di riparto delle spese di manutenzione degli androni delle scale. Proseguono, poi, i ricorrenti affermando che, pur volendosi ammettere il possesso di tale qualità da parte della resistente, ugualmente permarrebbe il difetto di legittimazione dell’intimata all’impugnazione della delibera assembleare de qua. Infatti, dai verbali della riunione dell’assemblea condominiale del 21-02-2005 risulterebbe che la B. si sia astenuta in sede di votazione, con conseguente impossibilità di attribuirle la qualità di condomina assente o dissenziente, costituente condizione necessaria per l’impugnazione delle delibere dell’assemblea di condominio ai sensi ancora dell’art. 1137 c.c.. Parte ricorrente, infine, censura la dichiarazione di inammissibilità dell’eccezione in esame anche sotto l’ulteriore profilo di omessa motivazione. Infatti, la corte partenopea, qualificando l’eccezione proposta, in quanto attinente all’effettiva titolarità del diritto controverso, come eccezione di merito non rilevabile anche ex officio dal giudice, e, pertanto, non proponibile per la prima volta in sede di gravame, non avrebbe tenuto minimamente in considerazione le argomentazioni contrarie sopra esposte, ponendo così in essere una motivazione del tutto apparente. Da tale vizio, inoltre, sarebbe ulteriormente derivata, sempre a parere dei ricorrenti, la violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancata pronunzia del giudice a quo su un’eccezione espressamente sollevata dall’appellante.
Con il secondo motivo, i ricorrenti continuano a denunciare, in primo luogo, un vizio di motivazione apparente della sentenza impugnata, con riferimento alla stessa eccezione e per le stesse ragioni esposte nel precedente motivo. Da tale vizio sarebbe inoltre discesa, ad avviso dei ricorrenti, anche la violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., giacché il giudice a quo, ritenendo l’apertura del nuovo accesso al locale terraneo della B. idonea a garantire anche agli altri condomini l’uso dell’androne della scala B, avrebbe in realtà costituito una servitù di ingresso sul menzionato androne in favore della resistente.
Appare opportuno, in ragione del rapporto di pregiudizialità-dipendenza sussistente tra le censure mosse, l’esame congiunto di entrambi i motivi di ricorso.
Essi parrebbero infondati.
Per quanto attiene all’asserita violazione degli artt. 81 e 112 c.p.c., è necessario ricordare che l’istituto della legittimazione ad agire o a contraddire in giudizio si ricollega al dettato della prima norma menzionata, ai cui sensi: Nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. Ciò comporta, trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza inutiliter data, la verifica, anche ex officio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito, circa la coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta (cfr. Cass., SS.UU., 09-02-2012, n. 1912). Ciò premesso, appare, però, altrettanto necessario menzionare il consolidato orientamento di questa corte secondo il quale la legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste effettivamente nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, ma mediante la indicazione di fatti in astratto idonei fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, cioè prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa. Al contrario, la titolarità della situazione giuridica sostanziale si configura come una questione che attiene al merito della lite, e rientra, pertanto, nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. La legittimazione ad agire costituisce, quindi, una condizione dell’azione, ossia una condizione per ottenere dal giudice una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa. In altri termini, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione dell’azione, si fonda sulla mera allegazione fatta in domanda, sicché una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea soltanto quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso. Appartiene, pertanto, al merito della causa, in quanto concernente la fondatezza della pretesa, l’accertamento in concreto se l’attore e il convenuto siano, dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari del rapporto fatto valere in giudizio. Ne consegue che l’eccezione relativa alla concreta titolarità di tale rapporto, attenendo appunto al merito, non è rilevabile d’ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti, che, per farla valere proficuamente, devono formularla tempestivamente (cfr., ex multis, Cass., 27-06-2011, n. 14177; Cass., 10-05-2010, n. 11284; Cass., 30-05-2008, n. 14468).
Nel caso di specie, i ricorrenti, dolendosi della declaratoria di inammissibilità, in sede di gravame, dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva della B. , sembrano in realtà contestare non il fatto che l’intimata abbia azionato, in nome proprio, un diritto di cui riconosceva l’altrui titolarità, bensì, piuttosto, l’effettiva titolarità del diritto controverso. Ciò premesso, appare evidente che l’eccezione in esame, alla luce della giurisprudenza richiamata, attiene al merito della lite, come correttamente affermato dal giudice a quo. Pertanto, essa, essendo rilevabile solo su istanza di parte, poteva essere sollevata dai ricorrenti nella comparsa di risposta di primo grado ex art. 167 c.p.c., e non per la prima, volta nell’atto di gravame, ostandovi il disposto dell’art. 345, 2 comma c.p.c., che vieta la proposizione in appello di eccezioni nuove non rilevabili anche ex officio dal giudice (c.d. divieto di nova in appello).
Alla luce di ciò, non appaiono di maggior pregio le contestuali censure di omessa motivazione e di violazione dell’art. 112 c.p.c.. Infatti, il vizio di omessa motivazione si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio. Tale vizio non può, invece, consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla, parte. È riservata, infatti, al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento. Alla Corte di Cassazione, invece, non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico, formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice o l’apprezzamento dei fatti (cfr., ex multis, Cass., 11-07-2007, n. 15489).
Nel caso di specie, la corte distrettuale ha ampiamente e coerentemente motivato circa la natura di merito dell’eccezione in esame e, quindi, sulla sua inammissibilità in appello, richiamando, oltretutto, proprio l’indirizzo giurisprudenziale sulla legitimatio ad causam precedentemente illustrato da questo relatore. Per la medesima ragione, quindi, non può imputarsi al giudice a quo neppure la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c., avendo la corte distrettuale pienamente risposto all’eccezione sollevata dal condominio appellante.
Da quanto appena esposto discende l’infondatezza anche delle doglianze concernenti l’asserita violazione degli artt. 1137 e 1102 c.c., in quanto logicamente dipendenti da quella concernente la violazione degli artt. 81 e 112 c.p.c.. Appare evidente, infatti, che dall’inammissibilità dell’eccezione di carenza di legittimazione della B. deriva, conseguentemente, il riconoscimento in capo all’intimata della qualità di condomina, costituente condizione necessaria ai fini dell’impugnazione della delibera assembleare del 21-02-2005 ex art. 1137 e. e, nonché dell’uso, in quanto bene comune ex art. 1102 c.c., dell’androne della scala B del condominio. Il giudice a quo, pertanto, non ha commesso alcun errore nell’interpretazione, ovvero nell’applicazione delle norme richiamate. Né il ricorrente può validamente invocare la giurisprudenza di questa corte relativa alla costituzione di servitù di passaggio su beni condominiali, in ragione della diversità tra la fattispecie concretamente verificatasi e quella prevista dall’orientamento in esame. Infatti, l’indirizzo de quo si riferisce all’ipotesi della costituzione di servitù di passaggio su beni condominiali per consentire un collegamento diretto tra distinti immobili di proprietà del medesimo privato (cfr., ex multis, Cass., 18-09-2013, n. 21395; Cass., 06-02-2009, n. 3035; Cass., 19-04-2006, n. 9036; Cass., 13-01-1995, n. 360). Al contrario, nel caso di specie l’intimata si è limi tata a chiedere l’apertura di un nuovo ingresso per il proprio immobile presso l’androne condominiale, cosi da realizzare unicamente un utilizzo più intenso di tale bene comune, senza, quindi, escludere gli altri condomini dall’uso del bene in questione. Ciò, del resto, appare pienamente in linea con il consolidato orientamento della Suprema Corte, secondo il quale, in tema di comunione, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest’ultimi. In particolare, per stabilire se l’uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell’art. 1102 cod. civ., non deve aversi riguardo all’uso concreto fatto della cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno. L’uso deve ritenersi in ogni caso consentito se l’utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dall’uso del bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene e sempre che detto uso non dia luogo a servitù a carico del suddetto bene comune (cfr. Cass., 27-02-2007, n. 4617; Cass., 30-05-2003, n. 8808; Cass., 01-08-2001, n. 10453; Cass., 12-02-1998, n. 1499).
Nel caso di specie, sembra logico ritenere che l’apertura nell’androne della scala B di una nuova entrata per il locale terraneo dell’intimata non impedisca agli altri condomini di fruire dell’androne per raggiungere i propri appartamenti. Né, tantomeno, si potrebbe ragionevolmente affermare che l’ingresso de quo sia idoneo ad alterare irreversibilmente la destinazione dell’androne. Al contrario, l’apertura del nuovo accesso all’immobile dell’intimata valorizzerebbe e potenzierebbe la funzione dell’androne in esame, ossia quella di facilitazione del transito dei condomini, e dei terzi, da e verso le singole unità abitative della scala”.
Gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, alla quale non sono state rivolte critiche di sorta, sono condivisi dal Collegio, e pertanto il ricorso va respinto.
Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione che liquida in complessivi Euro. 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese forfettarie ed accessori come per legge.