Coronavirus, contratti e debiti: quali regole


Pagamenti e adempimento delle prestazioni durante l’emergenza Covid-19: i criteri adottati dalla Cassazione per garantire l’equilibrio tra creditori e debitori.
La crisi economica provocata dalla pandemia di Coronavirus ha sconvolto il mondo dei rapporti contrattuali. Molte prestazioni sono state rese impossibili a causa del lockdown, in molti altri casi le difficoltà economiche e la carenza di liquidità hanno impedito l’adempimento delle prestazioni.
Come regolarsi in questi casi? Esistono alcune regole che delineano l’adempimento dei contratti ed il pagamento dei debiti in tempo di Coronavirus.
Ora, la Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, ha messo a punto un vademecum [1] di criteri giurisprudenziali che tengono conto sia dei consueti principi civilistici (che, come vedremo, rimangono i cardini regolatori della materia) sia della normativa emergenziale emanata dal Governo con i Decreti Cura Italia, Liquidità e Rilancio.
Ne emerge un quadro variegato, in base al quale il fenomeno Coronavirus in linea generale non legittima l’inadempimento, ma l’osservanza delle prescrizioni sanitarie e delle misure anti-Covid può in taluni casi giustificarlo e attenuarne le conseguenze divenute troppo gravose.
Così la posizione del debitore può essere alleggerita, riducendo o addirittura eliminando alcuni pagamenti o altri tipi di prestazioni: in tempo di Coronavirus e fino a quando la pandemia farà sentire i propri effetti, c’è un nuovo equilibrio giuridico da garantire, e le conseguenze economiche dell’emergenza vanno equamente ripartite tra il creditore ed il debitore.
Indice
La crisi Covid e la normativa emergenziale
La Cassazione parte da una considerazione: «il legislatore non si è inventato nuovi rimedi alle tensioni proiettate dal lockdown sulla solvibilità dei debitori e sull’esecuzione dei loro rapporti contrattuali».
Valgono sempre, cioè, le consuete regole civilistiche che disciplinano il legame tra le rispettive prestazioni alle quali le parti si sono impegnate nel contratto.
Questo legame – osservano gli Ermellini – «è essenziale poiché qualora una delle prestazioni venga a mancare, l’altra diviene sproporzionata, vanificando il senso dell’operazione programmata».
Dunque, possono esserci fattori esterni che creano uno squilibrio dopo che il contratto è stato sottoscritto; queste “perturbazioni”, come l’emergenza Covid, si verificano quando le prestazioni dovrebbero essere eseguite. Questi eventi hanno rilievo: «sono suscettibili di ripercuotersi sulla sorte del contratto».
Il Governo, dal Decreto Cura Italia in poi, ha emanato «una trama fitta di norme emergenziali e transitorie», che di volta in volta hanno concesso moratorie, come nel caso dei mutui, o hanno sospeso i termini di adempimento della prestazione o della controprestazione.
In particolare, il Decreto Cura Italia varato a marzo [2] ha stabilito che «il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti».
Quando la prestazione diventa impossibile
Il codice civile [3], come il Decreto Cura Italia ha ricordato richiamando alcune norme, prevede espressamente la possibilità di risolvere i contratti per impossibilità assoluta della prestazione, per fatti che esulano dalla sfera di controllo e dalle possibilità di intervento del debitore.
Quando ciò accade, il legame contrattuale si scioglie e le prestazioni non sono più dovute; se una delle due parti, nel frattempo, ha già eseguito la propria prestazione, ha diritto a pretenderne la restituzione.
Nel caso del Covid, la Cassazione rileva che questo rimedio «sembra avere agio solo quando l’emergenza epidemiologica rende la prestazione dedotta in negozio completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile».
Secondo la Cassazione, infatti, rimane valido il principio base secondo cui «spetta al debitore dimostrare di aver fatto uso della ordinaria diligenza per rimuovere gli ostacoli creati all’esatta esecuzione degli impegni contrattualmente assunti»: l’emergenza Coronavirus non può mai diventare una scusa per non adempiere.
Il pagamento di somme di denaro
Un criterio restrittivo, dunque, anche perché – rilevano i giudici della Suprema Corte – «le obbligazioni pecuniarie impossibili non divengono mai»: infatti il denaro è per sua natura un bene fungibile e a ben vedere il pagamento di una somma monetaria resta comunque eseguibile, pur potendo subire «una soggettiva inattuabilità, connessa all’indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa», vale a dire una crisi di liquidità come quella che affligge molti soggetti durante il periodo emergenziale.
Perciò – osserva la Corte – «in linea di massima le prestazioni oggi irrealizzabili potranno tornare ad essere concretamente possibili alla cessazione dell’emergenza».
Concerti ed eventi annullati
Questo significa che il pagamento di una somma di denaro dovuta al creditore non potrebbe essere annullato per effetto dell’emergenza Covid; ma ci sono dei temperamenti, come nel caso dei contratti che debbano essere eseguiti entro un termine tassativo, stabilito come essenziale dalle parti o insito nella natura stessa della prestazione, come nel caso di convegni, eventi o concerti annullati a causa della pandemia e delle misure di contenimento.
In questi casi, la Cassazione ritiene applicabile un’altra norma del Codice civile [4], secondo cui il debitore non è responsabile del ritardo per tutto il tempo in cui la prestazione è temporaneamente impossibile, ma «l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla».
Anche in queste ipotesi, si verifica per legge l’estinzione dell’obbligazione e si applica le norma che abbiamo visto poc’anzi sulla sopravvenuta impossibilità della prestazione, in base alla quale la parte liberata non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta»; vale a dire, ad esempio, che se il concerto è stato pagato in anticipo, la somma va restituita.
Quando l’impossibilità è parziale
Ci sono, però, molti altri casi in cui non è possibile risolvere drasticamente l’intero contratto: ciò accade quando la prestazione diventa «solo parzialmente o provvisoriamente impossibile». In tali casi, secondo la legge [5] e ad avviso della Cassazione, non può determinarsi l’estinzione dell’obbligazione.
A tal proposito, gli Ermellini fanno l’esempio «dei contratti ritardati dalle misure di contenimento e dalla sospensione delle attività produttive e commerciali non essenziali, rispetto ai quali rimanga però inalterato l’interesse delle parti all’esecuzione dell’accordo».
Può essere il caso di un contratto di fornitura di merci ma anche di prestazioni lavorative, che durante il lockdown e anche successivamente sono state rese in smart working, dunque con un’importante modifica che ha consentito la prosecuzione del rapporto senza rendere necessaria la presenza fisica del lavoratore in azienda o nell’ufficio.
In queste eventualità, quando non è possibile adottare una soluzione efficace d’intesa tra le parti, il contratto non si risolve, ma il creditore della prestazione non eseguita e divenuta parzialmente impossibile ha – spiega la relazione del Massimario – «ben tre opzioni:
- ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione che a sua volta la grava;
- può recedere dal contratto allorché non abbia interesse all’adempimento parziale;
- in ogni caso, a fronte della prestazione temporaneamente impossibile può sospendere l’esecuzione di quella da lui dovuta».
Vacanze cancellate
Un’applicazione concreta di questi criteri è quella dei pacchetti vacanze (con viaggi e soggiorni in strutture alberghiere) annullati a causa della pandemia di Covid o anche per altre eventualità, come una malattia o il decesso improvviso di uno dei partecipanti o di un suo stretto familiare.
Già prima dell’insorgere del Coronavirus la Cassazione [6] aveva rilevato che «l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione».
I contratti di affitto
Quanto ai contratti di locazione – sia abitativi sia ad uso commerciale – e alla possibilità di eliminare, ridurre o sospendere il pagamento dell’affitto, la Cassazione pone un limite ed osserva che «la prestazione di concessione in godimento rimane possibile e continua a essere eseguita quand’anche per factum principis (un’ipotesi eccezionale di forza maggiore, ndr) le facoltà di godimento del bene risultino momentaneamente affievolite».
Perciò – prosegue la relazione – «la prestazione del locatore continua ad essere resa benché l’utilità che il conduttore ne ricava sia allo stato depressa. Fare perno sulle disposizioni in materia di impossibilità sopravvenuta per smarcare in tutto o in parte il locatario dal pagamento del canone vuol dire correggere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale, dislocando una porzione delle conseguenze finanziarie del Covid da una parte all’altra del contratto, ma sulla base di una considerazione che appare ispirata al buon senso, più che al rigore giuridico».
Quando adempiere diventa troppo oneroso
Qui però – come in generale per tutti i contratti a esecuzione continuata o periodica (c.d. contratti “di durata”) secondo la Cassazione può richiamarsi un altro rimedio civilistico [7], quello dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.
Questo principio consente di risolvere il contratto quando la prestazione, per il verificarsi di «avvenimenti straordinari e imprevedibili», è diventata per una delle parti »eccessivamente onerosa», cioè l’equilibrio di scambio con la controprestazione si è significativamente alterato rispetto al momento dell’originaria pattuizione.
Soprattutto le misure di contenimento del Covid potrebbero – osserva la Cassazione – «sbilanciare, in via definitiva, l’economia del negozio» e questo apre la strada alla «tradizionale stanza di compensazione nell’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta».
Diventa possibile, perciò, in via eccezionale, derogare al principio di vincolatività delle prestazioni e dunque invocare la risoluzione del contratto, con effetto retroattivo tra le parti e salve le prestazioni già eseguite [8].
La difficoltà di pagare a causa del Covid
Occorre, però, che vi sia – precisa la Corte – «un evento esterno alle parti contrattuali, straordinario sul piano oggettivo, improcrastinabile e inevitabile su quello soggettivo, in quanto estraneo a qualsiasi ragionevolezza previsionale, non risolvendosi esso nel quadro delle oscillazioni di valore delle prestazioni e delle normali fluttuazioni del mercato, ma travalicandole».
Perciò, deve trattarsi di un evento imprevedibile al momento della conclusione del contratto e – avvertono gli Ermellini – «non è sufficiente una mera difficoltà rivelatasi esclusivamente nella sfera del singolo, occorrendo una situazione operante presso qualsiasi debitore e tale da modificare il valore di mercato della prestazione».
Ma per la Cassazione «l’impotenza finanziaria», anche quando deriva dalle difficoltà legate all’emergenza – come il drastico abbassamento del fatturato provocato dal calo dei consumi – non giustifica l’inadempimento: «il concetto di impossibilità della prestazione non ricomprende, infatti, la c.d. impotenza finanziaria, per quanto determinata dalla causa di forza maggiore in cui si compendia l’attuale emergenza sanitaria».
Così il debitore rimane comunque obbligato a pagare il dovuto, anche perché – rileva la Relazione – «la difficoltà monetaria causata dai rischi che ciascun debitore si è facoltativamente assunto non si diffonde sulle sfere economico-giuridiche dei suoi creditori, giacché qualora a costoro fosse preclusa l’esazione di quanto attendono, essi diverrebbero debitori a propria volta e ambirebbero, in una sequenza infinita e imponderabile di pretese e ribaltamenti, a liberarsi del danno finanziario occorso».
Perciò su questo punto l’orientamento dei giudici è rigoroso: «l’eventuale crisi di liquidità del debitore è un rischio posto a carico dello stesso, anche laddove derivi dall’altrui insolvenza o da una crisi di mercato, in quanto aspetti rientranti nella sfera organizzativa individuale che egli, in piena libertà e secondo diligenza, è tenuto a gestire al meglio al fine di onorare i debiti assunti».
Come agire per annullare o risolvere il contratto
La Cassazione però è consapevole che il campo applicativo è sterminato: «Nei più disparati settori, che vanno dall’energia alla sanità, dai trasporti al turismo, dagli alimentari al terziario, pare evidente che dall’emergenza sanitaria, economica e sociale accesa su scala mondiale dal Covid-19 stia germinando conseguenze che esondano dagli argini della congiuntura finanziaria sfavorevole; dette conseguenze finiscono per riportare nei casi concreti tratti di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tanto marcati ed eloquenti da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto squilibrato, tanto in ragione dell’inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. “eccessiva onerosità diretta”), quanto a causa della speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d.“eccessiva onerosità indiretta”)».
In altri termini, la valutazione dovrà compiersi caso per caso e, quando risulteranno sussistenti i criteri che abbiamo descritto, si potrà agire in giudizio per risolvere il contratto o quantomeno per ridurne le conseguenze divenute eccessivamente gravose per una delle parti, normalmente il debitore.
Il percorso non sarà agevole: la Cassazione avverte che «la parte che patisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per sciogliere il vincolo e solo purché non abbia già eseguito la propria prestazione. La parte fragile non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni contrattuali, né può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle concordate».
Inoltre, sul piano pragmatico i giudici di legittimità considerano che «l’emergenza non si tampona demolendo il contratto. L’obiettivo precipuo del contraente sfavorito non è lo smantellamento del rapporto, ma la sua messa in sicurezza sul crinale di un riequilibrio reciprocamente appagante delle prestazioni»; sicché «più che la liberazione del debitore-imprenditore dall’obbligazione, cruciali appaiono l’attenuazione o il ridimensionamento del contenuto di questa, ove il suo adempimento sia ostacolato o reso sfibrante dalle misure di contenimento su approvvigionamenti, circolazione di merci, organizzazione aziendale, vieppiù ove si consideri che dette misure sono turbinosamente adottate a vari livelli (nazionale, regionale, comunale) nell’ottica di contrastare il dilagare del contagio».
Un invito a cercare un ragionevole accordo con la controparte, quindi, prima di intraprendere la lunga e difficoltosa strada giudiziale, che comunque, alla stregua degli ampi chiarimenti forniti dalla Corte suprema, chiamata a svolgere una fondamentale funzione di interpretazione uniforme e chiara delle leggi, adesso appare dotata di una importante “bussola” interpretativa che potrà aiutare a dirimere, o meglio ancora a prevenire, i casi controversi.
note
[1] Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Relazione tematica n. 56 del 8 luglio 2020 “Novità normative sostanziali del diritto emergenziale anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale“.
[2] Art. 91 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18
[3] Art. 1463 Cod. civ.
[4] Art. 1256 Cod. civ.
[5] Art. 1464 Cod. civ.
[6] Cass. sent. n. 18047 del 10 luglio 2018.
[7] Art. 1467 Cod. civ.
[8] Art. 1458 Cod. civ.