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Lucro cessante: calcolo

10 Dicembre 2020 | Autore:
Lucro cessante: calcolo

Danno patrimoniale, lucro cessante e danno emergente: come si quantificano? Cos’è il lucro cessante?

Quando è in gioco un risarcimento del danno, le voci da indennizzare sono di vario tipo. C’è innanzitutto la componente patrimoniale, ossia il danno economico patito dal danneggiato, sia in termini di spese sostenute che di mancati guadagni. Poi, c’è la componente non patrimoniale, costituita dalle menomazioni fisiche, temporanee o definitive che siano (il cosiddetto danno biologico) e dalla sofferenza interiore conseguente all’evento (il cosiddetto danno morale).

Quando si parla di lucro cessante ci si riferisce a una delle voci del danno patrimoniale. Una recente sentenza della Cassazione [1] ha spiegato come debba avvenire il calcolo del lucro cessante, almeno quello relativo a un danno che abbia comportato un’invalidità. 

Cerchiamo di fare il punto della situazione sull’intero argomento, in modo pratico e semplice. 

Cos’è il lucro cessante?

Quando si parla di lucro cessante ci si riferisce al mancato guadagno causato da un fatto illecito. Il caso tipico è quello di chi, a seguito di un incidente stradale, sia stato costretto a una lunga degenza tra casa e ospedale e, in ragione di ciò, non abbia potuto lavorare perdendo quindi il relativo lucro. L’impossibilità di svolgere l’attività lavorativa, quando non retribuita nonostante la malattia (come nell’ipotesi del lavoratore dipendente) implica quindi un danno che deve essere risarcito dal responsabile dell’illecito (o, nel caso di incidenti stradali, dalla sua assicurazione).

Un altro esempio di lucro cessante è quello conseguente all’inadempimento di un contratto di investimento: esso si concretizza nel guadagno che la parte avrebbe realizzato se la controprestazione fosse stata regolarmente eseguita (si pensi alla mancata realizzazione, nei tempi sperati, di un capannone industriale).

Il lucro cessante è quindi una componente del danno patrimoniale che si aggiunge al cosiddetto danno emergente che, invece, è rappresentato dalle spese sostenute a seguito del fatto illecito. Rientrano, ad esempio, nel danno emergente le spese mediche conseguenti a un incidente, al costo del carro attrezzi per trasportare l’auto in officina, al noleggio di un veicolo sostitutivo, ecc.

Quando si chiede il risarcimento del danno patrimoniale, dunque, si fa riferimento sia al «danno emergente» che al «lucro cessante». Ben potrebbe essere che una delle suddette voci non sussista o non sia dimostrabile (si pensi a chi, lavoratore dipendente, a seguito di un incidente non perda neanche un giorno di retribuzione in quanto corrispostagli dall’Inps). Ciò chiaramente non esclude il diritto a ottenere il risarcimento dell’altra voce di danno patrimoniale. 

Come si determina il lucro cessante?

È di certo molto più facile dimostrare il danno emergente che il lucro cessante. Per il primo, infatti, basta conservare le ricevute, gli scontrini o le fatture che attestano la spesa sostenuta. Tanto basterà per provare la perdita economica a seguito del fatto illecito.

Il lucro cessante invece presenta maggiori problematiche in quanto deve fare i conti con ciò che non si è verificato e che quindi non può essere dimostrato con certezza. Il lucro cessante, infatti, richiede la ricostruzione, in via presuntiva, di quanto si sarebbe potuto realizzare, in termini di guadagni, se l’evento lesivo non fosse mai avvenuto. È dunque una ricostruzione ipotetica che si fa sulla base di indizi, di congetture ma anche sulla base dell’esperienza pregressa.

Tanto per fare un paio di esempi, si pensi a chi, dopo aver stipulato un contratto, subisca l’inadempimento della controparte perdendo tutti i guadagni che da tale contratto avrebbe potuto ottenere. È il caso di chi acquista un servizio di pubblicità con cartellonistica stradale che poi non viene realizzato. Oppure si pensi a chi, titolare di una ditta, è costretto a chiudere per un mese a seguito di un grave infortunio. Il mancato guadagno dell’azienda, dovuto alla “serrata”, sarà una delle conseguenze che il danneggiato dovrà risarcire. Ma come si fa a stabilire quanto avrebbe guadagnato l’imprenditore se questo futuro non si è mai realizzato?

A volte, vengono presi a riferimento i redditi conseguenti nella stessa mensilità degli anni pregressi in modo da ricostruire il volume di affari del danneggiato. La prova del danno – ha detto la giurisprudenza [2]  «può essere raggiunta anche per mezzo di presunzioni, rapportate alla situazione concreta».

Si può poi tenere conto degli affari in corso che, proprio a causa dell’incidente, non sono stati conclusi. Vi deve però essere un margine di probabilità molto alto sia della loro conclusione, sia del guadagno che avrebbero comportato, non bastano delle semplici trattative (diversamente la voce del danno si estenderebbe a qualsiasi attività pendente, anche a quelle che non avrebbero portato ad alcun guadagno).

Calcolo lucro cessante con invalidità lavorativa

Con la sentenza richiamata in apertura dell’articolo, la Cassazione ha spiegato come può avvenire il calcolo del lucro cessante a seguito di un incidente che abbia comportato un’invalidità permanente. 

In particolare, è stato detto che il danno patrimoniale da lucro cessante per chi ha perso un lavoro a tempo indeterminato a causa di un sinistro stradale deve essere parametrato a tutte le retribuzioni che la vittima avrebbe percepito se il rapporto di lavoro fosse regolarmente proseguito. Non ci si può quindi basare solo sulla percentuale di invalidità. Se così fosse, qualora al danneggiato venga riconosciuta un’invalidità del 30%, questi avrebbe diritto solo a un terzo del guadagno perso. Il che è chiaramente ingiusto stante il licenziamento proprio a seguito dell’invalidità.

Nel caso di specie, il danneggiato da un incidente stradale si era messo in malattia ma, avendo superato il comporto (ossia il numero massimo di giorni di malattia concesso dal contratto collettivo) era stato licenziato. 

Nella causa di risarcimento, il Ctu (il consulente tecnico d’ufficio) gli aveva riconosciuto un’invalidità del 30% e solo sulla base di tale percentuale gli era stato riconosciuto il danno da lucro cessante. 

Il ragionamento fatto dal giudice di secondo grado però non ha convito la Cassazione. Secondo la Suprema Corte «il danno patrimoniale relativo alla sua perdita reddituale» deve «essere liquidato sulla base dell’importo (eventualmente capitalizzato) delle retribuzioni che [il dipendente] avrebbe conseguito in virtù del suo preesistente rapporto di lavoro, se non fosse stato licenziato a causa delle lesioni riportate nel sinistro, fino alla data della pensione, oltre che degli assegni familiari, della perduta possibilità di progressione in carriera e del danno pensionistico».

«Di conseguenza – prosegue la decisione -, la percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica conseguente all’incidente, riconosciuta dal consulente tecnico di ufficio nella misura del 33% (che peraltro, sommata alla precedente invalidità dell’attore, risulterebbe avere determinato una invalidità complessiva del 75%), non poteva avere in concreto alcun rilievo ai fini della liquidazione del danno patrimoniale». 

Riconoscendogli soltanto il 33%, e non il 100%, delle retribuzioni e degli altri importi persi, la Corte territoriale ha violato l’articolo 1223 del Codice civile, in quanto non ha riconosciuto al danneggiato «l’intero pregiudizio subito in concreto, pregiudizio che, nella specie, consiste nella perdita dei redditi (in parte futuri) derivanti dal rapporto di lavoro dipendente di cui era titolare, venuto meno in conseguenza del fatto illecito del convenuto».


note

[1] Cass. sent. n. 28071/2020.

[2] Trib. Savona, sent. n. 507/2020.

Autore immagine: depositphotos.com

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 14 settembre – 9 dicembre 2020, n. 28071

Presidente Frasca – Relatore Tatangelo

Rilevato che:

Lu. La. ha agito in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti in occasione di un incidente stradale avvenuto nel novembre 2003, nei confronti di Eg. Za. (conducente del veicolo che lo aveva investito mentre era alla guida della sua bicicletta), di At. Br. (proprietario di detto veicolo) e della Società Cattolica di Assicurazione S.c.r.l. (assicuratrice della responsabilità civile del Br.). Nel corso del giudizio è intervenuta Fe. Sc., coniuge dell’attore, per chiedere il risarcimento dei danni subiti in proprio, in conseguenza dell’invalidità riportata dal La..

Il Tribunale di Bassano del Grappa ha accolto esclusivamente la domanda del La. e ha liquidato in suo favore l’importo di Euro 272.245,17, in aggiunta agli acconti già corrisposti dalla compagnia prima della decisione, oltre accessori.

La Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha condannato i convenuti a pagare al La. gli ulteriori importi di Euro 50.312,80, a titolo di danno non patrimoniale, e di Euro 29.895,83, a titolo di danno patrimoniale da lucro cessante, oltre accessori.

Ricorre il La., sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso la Società Cattolica di Assicurazione S.c.r.l., che propone a sua volta ricorso incidentale sulla base di un unico motivo.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati.

È stata disposta la trattazione del ricorso in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c. per l’adunanza dell’8 ottobre 2019, in vista della quale le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c. (peraltro la memoria della controricorrente risulta depositata fuori termine, in relazione a detta adunanza).

Il Collegio, all’esito della camera di consiglio, con ordinanza n. 33680 del 2019 ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi degli intimati Br. e Za. L’ordine di integrazione è stato eseguito e la trattazione è stata fissata nuovamente nell’odierna adunanza.

Considerato che:

1. Ricorso incidentale

Va esaminato preliminarmente, per ragioni di priorità logica, il ricorso incidentale proposto dalla Società Cattolica di Assicurazione, il cui eventuale accoglimento comporterebbe l’assorbimento delle questioni oggetto del ricorso principale. Con l’unico motivo di detto ricorso incidentale si denunzia «Violazione e falsa applicazione dell’attuale art. 186 VI co c.p.c., ex art. 183 c.p.c., comma 4, e art. 24 Cost., per avere la Corte di Appello dichiarato ammissibile la domanda risarcitoria del danno da lucro cessante proposta dal La., nell’erroneo assunto che essa fosse stata ritualmente introdotta, in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3 con riferimento alla ammissibilità della domanda di risarcimento del danno patrimoniale conseguente al licenziamento».

La censura difetta di specificità, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., ed è pertanto inammissibile.

La società ricorrente non richiama, in modo puntuale e specifico, il contenuto dell’atto di citazione, da cui emergerebbe la mancata richiesta, da parte dell’attore, del «danno patrimoniale conseguente al licenziamento» (richiesta che, secondo quanto indicato nella rubrica del ricorso incidentale, costituirebbe addirittura una “domanda nuova” inammissibilmente proposta solo in corso di causa).

Viene in effetti richiamato solo parzialmente il contenuto del predetto atto di citazione, con l’attribuzione ad esso dell'”interpretazione” ritenuta corretta dalla società ricorrente.

Ma un siffatto richiamo non può ritenersi adeguato e sufficiente a consentire alla Corte di cogliere il senso complessivo della domanda proposta e, quindi, di verificare la fondatezza nel merito del motivo di ricorso in esame.

Può aggiungersi (a scopo di completezza espositiva, essendo quanto sin qui esposto di per sé sufficiente a determinare l’inammissibilità del ricorso incidentale) che, stando a quanto la stessa società ricorrente riporta del contenuto dell’atto introduttivo del giudizio, risulterebbero in realtà richiesti dall’attore, già con l’atto di citazione di primo grado, proprio i danni patrimoniali derivanti dal licenziamento, con la perdita delle relative retribuzioni, specie tenuto conto del principio di diritto (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7193 del 10/04/2015, Rv. 635035 – 01) per cui «in tema di responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, a differenza di quella che indichi specifiche e determinate voci, sicché, pur quando in citazione non vi sia alcun riferimento, si estende anche al lucro cessante (nella specie, perdita di “chance” lavorativa), la cui richiesta non può, pertanto, considerarsi domanda nuova, come tale inammissibile» (in particolare, si veda quanto esposto a pag. 10 del controricorso con ricorso incidentale, ultimi due righi: «nell’atto di citazione di primo grado il La. affermava di essere stato licenziato a seguito dell’incidente, e di star soffrendo per l’effetto un pregiudizio patrimoniale …»; nella parte iniziale della pag. 11 del controricorso con ricorso incidentale è poi addirittura ancora più chiaramente riferito che il La. aveva chiesto il danno patrimoniale conseguente alla perdita del posto di lavoro, cioè delle relative retribuzioni).

2. Ricorso principale

2.1 Con il primo motivo si denunzia «Violazione e falsa applicazione degli arti. 1223. 1226, 2043 e 2056 C.C., nonché degli arti. 115 e 116 C.P.C., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) C.P.C. e con riferimento alla perdita reddituale subita dal ricorrente».

Il ricorrente sostiene che erroneamente la corte di appello, nel liquidare in suo favore il danno patrimoniale, dopo aver calcolato l’importo delle retribuzioni e degli altri emolumenti perduti a causa del licenziamento, non glielo ha riconosciuto integralmente, ma solo nella misura di un terzo, cioè nella misura pari alla menomazione della sua capacità lavorativa accertata dal consulente tecnico di ufficio.

Il motivo è fondato.

Il La. risulta avere perduto il suo impiego a tempo indeterminato in conseguenza del danno subito a causa dell’incidente, in quanto, a causa dei relativi postumi, ha superato il periodo di comporto ed è stato licenziato (la circostanza emerge dalla sentenza impugnata ed è confermata dalla stessa controricorrente), senza che risulti che sia riuscito a reperire un’altra occupazione.

Il danno patrimoniale relativo alla sua “perdita reddituale” avrebbe, quindi, dovuto essere liquidato sulla base dell’importo (eventualmente capitalizzato) delle retribuzioni che avrebbe conseguito in virtù del suo preesistente rapporto di lavoro, se non fosse stato licenziato a causa delle lesioni riportate nel sinistro, fino alla data della pensione, oltre che degli assegni familiari, della perduta possibilità di progressione in carriera e del danno pensionistico (cfr. in proposito: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10321 del 30/04/2018, Rv. 648793 – 01: «il danno patrimoniale derivante al congiunto dalla perdita della fonte di reddito collegata all’attività lavorativa della vittima assume natura di danno emergente con riguardo al periodo intercorrente tra la data del decesso e quella della liquidazione giudiziale mentre si configura come danno futuro e, dunque, come lucro cessante, con riguardo al periodo successivo alla liquidazione medesima»; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8896 del 04/05/2016, Rv. 639896 – 01, Sez. 3, Ordinanza n. 25370 del 12/10/2018, Rv. 651331 – 01, secondo cui «la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima»).

Di conseguenza, la percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica conseguente all’incidente, riconosciuta dal consulente tecnico di ufficio nella misura del 33% (che peraltro, sommata alla precedente invalidità dell’attore, risulterebbe avere determinato una invalidità complessiva del 75%), non poteva avere in concreto alcun rilievo ai fini della liquidazione del danno patrimoniale.

È pertanto fondata la censura espressa nel motivo di ricorso in esame, laddove si sostiene che erroneamente la corte di appello, dopo aver calcolato gli importi delle retribuzioni e degli altri emolumenti perduti a causa del licenziamento, ha riconosciuto esclusivamente il 33% (invece del 100%) di detti importi.

In tal modo è stato infatti violato l’art. 1223 c.c., non essendo stato riconosciuto al danneggiato l’intero pregiudizio subito in concreto, pregiudizio che, nella specie, consiste nella perdita dei redditi (in parte futuri) derivanti dal rapporto di lavoro dipendente di cui era titolare, venuto meno in conseguenza del fatto illecito del convenuto.

Né potrebbe sostenersi che il danneggiato avrebbe dovuto dimostrare che non era possibile per lui reperire un’altra attività lavorativa. Avrebbe infatti dovuto essere il danneggiante a dimostrare, eventualmente, che il danneggiato aveva trovato un nuovo impiego, secondo i principi generalmente affermati da questa stessa Corte in tema di danno derivante da licenziamento (cfr. ex multis: Cass., Sez. L, Sentenza n. 9616 del 12/05/2015, Rv. 635378 – 01).

Va quindi enunciato il seguente principio di diritto: «laddove il danneggiato dimostri di avere perduto un preesistente rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui era titolare, a causa delle lesioni conseguenti ad un illecito, il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri, va liquidato tenendo conto di tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate, salvo che il responsabile alleghi e dimostri che egli abbia di fatto reperito una nuova occupazione retribuita, ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo abbia fatto per sua colpa, nel guai caso il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione». 2.2 Con il secondo motivo si denunzia «Violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 C.C.. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) C.P.C. e con riferimento ai contributi volontari versati dal ricorrente».

Il ricorrente sostiene che la corte di appello, nella liquidazione in suo favore del «danno pensionistico», avrebbe dovuto riconoscergli l’importo dei contributi volontari da lui versati dopo il licenziamento, in quanto conseguenza diretta dell’evento dannoso.

Il motivo è inammissibile e, comunque, infondato.

La questione con esso posta (riguardante quello che viene definito «danno pensionistico» e, in particolare, l’incidenza su tale danno del versamento di contributi volontari da parte del danneggiato, dopo il licenziamento) non è espressamente affrontata nella sentenza impugnata.

Il ricorrente sostiene che il consulente tecnico di ufficio l’aveva presa in considerazione nella sua relazione, ma non precisa quali erano state le sue conclusioni in proposito e, quindi, se essa era stata (ed in che termini) posta già in sede di merito. In mancanza di adeguata specificazione in ordine alla non novità di tale questione, in violazione dell’art. 366, comma 1, c.p.c. la censura avanzata non può ritenersi ammissibile nella presente sede.

In ogni caso, le argomentazioni del ricorrente in proposito non potrebbero trovare seguito.

Secondo quanto quest’ultimo afferma, il consulente tecnico avrebbe accertato che i contributi volontari da lui versati dopo il licenziamento non sarebbero sufficienti per consentigli di ottenere la pensione anticipata (come sarebbe invece avvenuto se avesse continuato a lavorare e a percepire tutti i contributi versati dal datore di lavoro), ma gli darebbero diritto solo a percepire una pensione più elevata, all’epoca in cui potrà ottenerla.

Nell’ambito di una esposizione non chiarissima, peraltro, lo stesso ricorrente pare riconoscere che, secondo la valutazione operata dal consulente tecnico: a) la corte di appello gli ha integralmente riconosciuto il trattamento pensionistico perduto, senza tener conto della maggiorazione dello stesso ricollegabile al versamento dei contributi volontari; b) l’importo dei contributi volontari da lui versati e di cui chiede il rimborso (in aggiunta alla somma corrispondente alla mancata percezione dell’integrale trattamento pensionistico, per l’intero periodo in cui non potrà ottenerlo in via anticipata) ammonta in realtà ad una cifra superiore all’incremento del trattamento pensionistico che potrà presumibilmente percepire in virtù del loro versamento.

Il versamento di detti contributi volontari non può quindi ritenersi idoneo a ridurre il danno corrispondente al trattamento pensionistico perduto a causa del licenziamento; di conseguenza, il rimborso di essi (in aggiunta all’importo dell’integrale trattamento perduto, senza maggiorazioni) è stato legittimamente escluso, dato che il suo riconoscimento avrebbe comportato una evidente duplicazione di poste risarcitorie.

2.3 Con il terzo motivo si denunzia «Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5) C.P.C. e con riferimento al tasso di attualizzazione degli importi».

Il ricorrente (sebbene nella rubrica del motivo di ricorso faccia esclusivo riferimento all’omesso esame di un fatto decisivo) lamenta l’assoluta assenza di motivazione in relazione alla questione del tasso utilizzato dalla corte di appello per procedere all’attualizzazione delle somme di danaro che egli avrebbe conseguito a scadenze future, e che ha invece perduto a causa del licenziamento, questione che aveva formato oggetto di discussione tra le parti (cfr. a pagg. 24 e 25 del ricorso; in particolare al rigo 3 di pag. 25): nella sostanza, viene quindi denunciata una violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. Il motivo è fondato.

Il consulente tecnico di ufficio aveva rappresentato due possibili metodi di attualizzazione: il primo prevedeva l’applicazione del tasso del 2,551%, pari a quello del Rendistato, cioè del rendimento medio dei titoli di Stato con scadenza ad oltre venti anni; il secondo, l’applicazione del tasso del 4%, pari alla media del rendimento ponderato dei B.T.P. a 30 anni. La corte di appello ha applicato la seconda soluzione indicata (e quindi utilizzato il tasso del 4%, meno favorevole al ricorrente) ma senza in alcun modo spiegare le ragioni di tale scelta.

La censura, nel suo significato sostanziale sopra chiarito, deve pertanto ritenersi fondata, in quanto nella sentenza impugnata la motivazione sulla decisione in ordine al punto controverso indicato risulta del tutto omessa.

In sede di rinvio, la corte territoriale dovrà valutare nuovamente la questione ed adeguatamente indicare le ragioni della scelta del criterio di attualizzazione ritenuto preferibile. 3. Il ricorso incidentale è dichiarato inammissibile, così come il secondo motivo del ricorso principale.

Sono accolti il primo e il terzo motivo del ricorso principale, nei sensi di cui in motivazione, e la sentenza impugnata è cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, co. 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, co. 17, della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (con riguardo al ricorso incidentale).

P.Q.M.

La Corte:

– dichiara inammissibile il ricorso incidentale ed il secondo motivo del ricorso principale;

– accoglie il primo e il terzo motivo del ricorso principale, nei sensi di cui in motivazione, e cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012 n. 228, per il versamento, da parte della ricorrente in via incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.


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