Pubblico impiego: mansioni superiori e differenze retributive


Un dipendente di una società per azioni totalmente partecipata da capitale pubblico lamenta di aver svolto mansioni superiori rispetto all’inquadramento economico riconosciuto dall’azienda. Il lavoratore, dalla data di assunzione fino alla cessazione del rapporto di lavoro avvenuta in data 31.08.2020 per pensionamento, era inquadrato come responsabile tecnico di due impianti di smaltimento e direttore operativo del piano di sicurezza per detti siti. Dal 2010, con procura notarile, gli sono state conferite le funzioni di responsabile in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e poteri di rappresentanza, organizzazione, gestione e piena autonomia di spesa. A seguito richiesta scritta del dipendente in data 07.03.2019 la società con decorrenza ottobre 2019 lo ha inquadrato come Quadro. Il lavoratore può far valere l’inquadramento come Quadro dal 2010 considerata questa delega di funzioni?
Iniziamo dall’inquadramento della fattispecie: parlando di società partecipata, occorrerà fare riferimento al pubblico impiego, e non ai rapporti lavorativi privati.
In particolare, occorre fare riferimento all’articolo 52 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore; al contempo l’articolo riconosce il diritto del dipendente che le abbia effettivamente svolte al corrispondente trattamento retributivo.
Pertanto, rispondendo direttamente alla Sua domanda, posso dirLe che il dipendente non può far valere l’inquadramento di Quadro a far data dal 2010, per gli ovvi divieti previsti dalla legge, in tema di reclutamento del personale; ma potrà far valere le differenze retributive maturate per aver svolto una mansione superiore.
Nel caso in esame, appaiono assolte tutte le condizioni previste dalla legge per conseguire le differenze retributive, poiché:
- a) il dipendente ha svolto, in modo esclusivo dal 2010 le mansioni superiori;
- b) dette mansioni sono state esercitate in virtù dei legittimi incarichi a lui conferiti.
Ad ogni modo, in tema di impiego pubblico contrattualizzato, il diritto a percepire la retribuzione commisurata allo svolgimento, di fatto, di mansioni proprie di una qualifica superiore a quella di inquadramento formale, ex art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla legittimità, né all’esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico (Cassazione civile sez. lav. – 29/11/2016, n. 24266).
Si tratta di un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità, la quale, con riguardo allo svolgimento di mansioni superiori, da parte del pubblico dipendente, ha aggiunto quanto segue: “a seguito di S.U. n. 25837/2007, questa Corte ha costantemente affermato che lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica – anche non immediatamente superiore a quella di inquadramento formale – comporta in ogni caso, in forza del disposto del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 5, il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore (tra le più recenti, Cass. n. 18808/2013; v. pure Cass. n. 796/2014).
Né portata applicativa del principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo (cfr. Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass. Sez. Un. 11 dicembre 2007 n. 25837 cit.).
La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l’applicabilità anche al pubblico impiego dell’art. 36 della Costituzione nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell’art. 2126 del codice civile l’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003; Cassazione civile sez. lav. – 29/11/2016, n. 24266).
Pertanto, come affermato dalla Cassazione, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Costituzione (Cassazione civile sez. VI sottosezione L – 24/01/2019, n. 2102).
Così, al dipendente va riconosciuto il diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Costituzione, norma che deve trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza.
Tuttavia, esiste il problema della prescrizione, in quanto i diritti relativi alla retribuzione del lavoratore corrispondente alle mansioni superiori svolte si prescrivono per il pubblico e per il privato dipendente nel termine di cinque anni, a far data dal giorno in cui il diritto può essere esercitato ovvero alla data di adozione del primo ordine di servizio, allorché per la prima volta il dipendente venne incaricato di prestare mansioni superiori (Consiglio di Stato, sez. III, 21/01/2013, n. 302); tale prescrizione si atteggia diversamente dai rapporti privati, in quanto in quanto non è sostenibile, per la natura del rapporto, che il dipendente pubblico possa essere esposto a “possibili ritorsioni e rappresaglie” quando egli tuteli in via giudiziale i propri diritti ed interessi.
Pertanto, nel Suo caso, potrebbero essere rivendicati solo gli ultimi cinque anni.
Al trattamento adeguato dovranno essere anche aggiunte le indennità accessorie inerenti la produttività e la responsabilità assunte dal dipendente.
È ovvio che tale riconoscimento deve avvenire tramite sentenza di un giudice del lavoro e non in automatico, a meno che non ci sia un riconoscimento da parte del datore di lavoro che, però, riguardando una società partecipata pubblicamente, è alquanto difficile che avvenga.
A ciò dovranno aggiungersi, infine, anche le somme per il mancato versamento contributivo delle differenze retributive, utili all’importo pensionistico, come anche la rivalutazione monetaria dalle singole scadenze e gli interessi legali sulle somme via via rivalutate.
Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avvocato Salvatore Cirilla