Si può stabilire una distanza inferiore a tre metri tra due terreni se c’è il consenso dei relativi proprietari.
Come noto, l’articolo 873 del Codice civile stabilisce che le costruzioni sui terreni confinanti devono stare a una distanza dal confine non minore di 3 metri, a meno che non siano tra loro aderenti. Nei regolamenti comunali, però, può essere stabilita una distanza superiore.
Ci si è chiesto se le distanze dal confine sono derogabili: può cioè un patto, siglato tra i proprietari confinanti, stabilire una distanza inferiore ai 3 metri o questa deve ritenersi comunque invalicabile? Il chiarimento è stato fornito proprio di recente dalla Cassazione [1]. Ecco cosa è stato detto in questa occasione e nei precedenti sullo stesso tema.
Indice
Deroghe distanze dal confine
Secondo la Corte, bisogna distinguere due ipotesi: quella in cui non vi sia alcun regolamento comunale a prevedere una specifica distanza dal confine, applicandosi pertanto il criterio generale dei 3 metri imposto dal Codice civile, e quella in cui invece la materia sia stata disciplinata a livello locale.
Nel primo caso, i proprietari dei terreni confinanti possono costruire anche a distanza inferiore ai tre metri, se c’è l’accordo di entrambi. Questo perché, secondo la Cassazione, «In materia di distanze legali, le norme di cui all’articolo 873 del codice civile, dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli, volte unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose, sono derogabili mediante convenzione tra privati».
Diverso è il caso in cui le distanze siano disciplinate dalle previsioni contenute regolamento edilizio locale, e, in quanto tale, siano aumentate rispetto al valore minimo stabilito dal Codice civile. In tale ipotesi, a differenza di quella precedente, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e negli strumenti urbanistici non tollerano deroghe convenzionali, in quanto sono dettate a tutela dell’interesse generale e, quindi, rispondono ad un prefigurato modello urbanistico speciale. In altri termini, l’eventuale convenzione tra le parti di fondi limitrofi non è in grado di derogare le suddette previsioni pubblicistiche.
Tale principio non è nuovo rispetto a quanto già stabilito dalla stessa Cassazione in passato.
Con una prima pronuncia la Corte ha stabilito [2] che «In materia di distanze legali, le norme di cui all’art. 873 c.c., dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli, volte unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose, sono derogabili mediante convenzione tra privati; viceversa, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e negli strumenti urbanistici locali non tollerano deroghe convenzionali, in quanto dettate a tutela dell’interesse generale ad un prefigurato modello urbanistico».
Con una seconda pronuncia la Corte ha ribadito [3] che «Le norme degli strumenti urbanistici locali che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono invece derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali, pubblici in materia urbanistica e come tali inderogabili, con la conseguente invalidità delle convenzioni in contrasto con dette norme, anche tra i proprietari di fondi confinanti che le hanno pattuite».
Tubi e muro
L’articolo 889, comma due, Codice civile stabilisce che per i tubi di acqua pura o lurida, per quelli di gas e simili deve osservarsi la distanza di almeno 1 metro dal confine.
La norma è applicabile pure nell’ipotesi di esistenza sul confine di un muro divisorio comune, salva la derogabilità negli edifici condominiali per incompatibilità dell’osservanza della suindicata distanza con la struttura stessa di tali edifici e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei condomini [4].
Cosa fare in caso di violazione delle distanze dal confine?
Cosa può fare il proprietario del terreno che abbia visto il vicino erigere una costruzione a meno di 3 metri dal confine o dal diverso termine stabilito dai regolamenti comunali? Ha due possibilità. La prima è quella di chiedere il ripristino della situazione anteriore, con abbattimento quindi dell’opera illegittima. In alternativa, può esigere il risarcimento del danno. Danno da ritenersi presunto nel fatto stesso della condotta illegittima e, pertanto, da non dover necessariamente dimostrare.
Ciò significa che la rispettiva dimostrazione in giudizio non necessità di una specifica attività probatoria, essendo l’effetto della violazione perpetrata dal vicino, certa e indiscutibile. Il danno si concretizza, in tal caso, nell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, nella limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà [5].
note
[1] Cass. ord. n. 29644/20 del 28.12.2020.
[2] Cass. ord. n. 5016/18 del 2.03.2018
[3] Cass. ord. n. 12966/06 del. 31.05.2006.
[4] Cass. sent. n. 1625/1983.
[5] Cass. 31.8.2018, n. 21501 ; Cass. 16.12.2010, n. 25475; Cass. 7.5.2010, n. 11196.
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