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Demenza senile e testamento olografo

26 Gennaio 2021
Demenza senile e testamento olografo

Circonvenzione di incapace: c’è il reato in caso di deficienza psichica legata all’età o a un disturbo cognitivo lieve?

Non perché una persona è morta pochi giorni dopo aver fatto testamento si deve ritenere che, in quel momento, fosse incapace di intendere e volere e che l’atto sia quindi nullo. Al contrario, prima di ritenere illegittimo il testamento, bisogna indagare sulle reali menomazioni cognitive che affliggevano il defunto. 

Una recente sentenza della Cassazione [1] spiega i rapporti tra demenza senile e testamento olografo, evidenziando in particolare quando si possa parlare del reato di circonvenzione di incapace in presenza dell’intervento di un terzo volto a persuadere il testatore particolarmente sensibile e fragile. Ma procediamo con ordine. 

Quale incapacità comporta la nullità del testamento?

Incapaci a redigere testamento non sono soltanto gli inabilitati e gli interdetti. Anche il testamento redatto dal “minorato” si considera nullo. 

Ma cosa si intende con “minorato”? Si tratta in generale di colui che non è in grado di amministrare i propri interessi patrimoniali. 

La giurisprudenza ha così identificato due figure: l’infermo psichico e il deficiente psichico a prescindere da una eventuale sentenza che ne abbia dichiarato l’interdizione o l’inabilitazione. 

Per infermità psichica si intende ogni alterazione psichica, sia quando derivi da una vera e propria malattia psichiatrica, sia quando invece dipenda da una condizione che, sebbene non patologica, menomi le facoltà intellettive o volitive del testatore. 

La deficienza psichica invece è un’alterazione dello stato psichico meno grave dell’infermità, ma comunque idonea a porre il soggetto passivo in uno stato di minorata capacità in quanto le sue capacità intellettive, volitive o affettive, fanno scemare o diminuire il pensiero critico. In tale categoria rientrano la fragilità, la duttilità e la debolezza di carattere, la vecchiaia e in genere ogni altra analoga particolare condizione che porti a suggestione e abusi.

La demenza senile è causa di incapacità?

Solo la demenza senile grave è causa di incapacità e nullità del testamento. Tale situazione deve essere ovviamente presente all’atto della compilazione del testamento. Non basta quindi un generico richiamo allo stato patologico di cui in passato era affetto il testatore se poi non c’è la prova che questo sussisteva anche nel momento in cui è stato redatto il testamento. A tanto è arrivata la giurisprudenza in più occasioni. Ecco alcune interessanti massime tratte dalla giurisprudenza:

«La prova dell’incapacità naturale del testatore, tale da determinare la nullità del testamento olografo, deve essere fornita con specifico riferimento al momento della redazione dell’atto. A tal fine, non è consentito il ricorso a una presunzione fondata sulla circostanza che il testatore fosse, in un periodo precedente, affetto da una patologia relativamente alla quale non è stata determinata clinicamente la concomitanza di una situazione di totale compromissione della sfera cognitiva e volitiva» (Tribunale Larino, 11/06/2018, n.186).

«La demenza senile comportando un grave deterioramento dell’efficienza intellettiva con degenerazione delle cellule nervose e come tale irreversibile, esclude nel soggetto la capacità d’intendere e volere rientrando nel vizio totale di mente» (Tribunale Terni, 31/05/2016, n.750).

«In tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica (nella specie, demenza senile grave), accertata la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza di tale condizione è presunta, “iuris tantum”, anche nel periodo intermedio, sicché la parte che sostiene la validità dell’atto compiuto è tenuta a provare che il soggetto ha agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia» (Cassazione civile sez. II, 04/03/2016, n.4316).

«Lo stato di infermità o deficienza psichica del soggetto passivo, del reato di circonvenzione di persone incapaci, non deve necessariamente consistere in una vera e propria malattia mentale, ma può sostanziarsi anche in un semplice indebolimento che comporti una incisiva menomazione delle facoltà di discernimento o di determinazione volitiva, un abbassamento intellettuale e delle capacità di critica, tali da diminuire i poteri di difesa contro le insidie e da rendere possibile l’intervento suggestivo dell’agente. Nel caso di specie era stato riconosciuto lo stato di minorazione dell’imputato che presentava un inizio di demenza senile e una encefalopatia degenerativa» (Corte appello Roma sez. II, 11/05/2010, n.3194).

Quando c’è circonvenzione di incapace

Nel momento in cui un terzo approfitta dello stato di demenza del testatore, manipolandone proprio a causa di ciò la volontà, scatta il reato di circonvenzione di incapace.

Deve risultare che la vittima si trovasse in una condizione di minorazione, incapace perciò di opporre resistenza a causa della mancata o diminuita capacità critica.  

La sola minorata capacità della vittima quindi non è sufficiente per far scattare il reato in questione. È infatti necessario che vi sia una induzione a compiere un atto che produca, per il soggetto passivo o altri, un effetto giuridico dannoso e un vantaggio invece per chi agisce.

L’abuso si verifica quando l’agente, consapevole della vulnerabilità del soggetto passivo, sfrutti la debolezza di questo per raggiungere il suo fine che è quello di procurare a sé o ad altri un profitto. È dunque richiesta una attività positiva diretta a determinare, convincere oppure influire sulla volontà altrui, in modo da condurre la vittima a compiere il testamento in un determinato modo. 

La Corte ha chiarito che solo quando la persona offesa si trovi nella situazione per poter essere inabilitata a causa di condizioni di salute psichica così precarie da privarla grandemente della capacità di discernimento e di autodeterminazione, la prova dell’induzione può essere desunta in via presuntiva, potendo consistere in qualsiasi comportamento dell’agente cui la vittima non sia in grado di opporsi e che la porti a compiere in favore dell’autore del reato atti per sé pregiudizievoli e privi di causale alcuna, che in condizioni normali non avrebbe compiuto.

i fini di individuare la sussistenza del reato, occorre focalizzare non tanto la valutazione in astratto delle condizioni del soggetto bensì, in concreto, come il soggetto passivo, a fronte dell’azione subdola dell’agente, abbia saputo autodeterminarsi; in altre parole, se l’agente, a causa del rapporto squilibrato che instaura con la vittima, abbia avuto la possibilità di manipolarne la volontà a causa della minorata situazione e se la vittima sia stata incapace di opporre alcuna resistenza a causa della mancanza o diminuita capacità critica.

 


note

[1] Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 15 dicembre 2020 – 22 gennaio 2021, n. 2727

Autore immagine: depositphotos.com

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 15 dicembre 2020 – 22 gennaio 2021, n. 2727

Presidente Gallo – Relatore Pellegrino

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 02/10/2018, la Corte di appello di Torino confermava la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Torino in data 26/04/2017 che aveva condannato B.M. alla pena di anni due di reclusione con i doppi benefici di legge per il reato di cui all’art. 643 c.p..

2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di B.M. , viene proposto ricorso per cassazione per lamentare quanto segue.

Primo motivo: manifesta illogicità e mancanza di motivazione in relazione alle prove documentali e testimoniali ritenute rilevanti dalla difesa per escludere la sussistenza del reato contestato. La Corte territoriale ha omesso di prendere posizione sulle doglianze difensive che avevano investito sia la genuinità che l’assenza di disinteresse degli unici testimoni valorizzati dal giudice (testimoni con i quali la de cuius M.L. aveva avuto liti giudiziali) sia il contrasto tra il loro deposto e quanto emerso dalle dichiarazioni di tutti gli altri testimoni che, a vario titolo, hanno trattato questioni legali, amministrative e/o hanno visitato la de cuius in epoca prossima al decesso; in particolare, la Corte territoriale, nel respingere l’appello, si è limitata a valorizzare un lieve disturbo cognitivo della de cuius a cui si sarebbe aggiunta una pretesa attività di “induzione”, dedotta esclusivamente dal dato temporale della redazione della scheda testamentaria pochi giorni prima del decesso.

Secondo motivo: violazione di legge penale e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi della fattispecie. La valutazione della Corte territoriale, tratta dalle conclusioni del consulente tecnico dell’accusa, circa la presenza di un soggetto suggestionabile e circonvenibile non aveva tenuto conto del fatto che la M. era affetta da patologie di esclusiva di natura fisica (ipertensione, insufficienza renale e gonoartrosi) senza alcun segno di decadimento mentale percepibile; inoltre, aveva omesso di considerare che il contestato testamento (con cui l’imputato era stato beneficiato di una serie di immobili, nella specie tredici appartamenti in Torino) non poteva affatto ritenersi frutto di attività induttiva, essendo al contrario corrispondente alla reale volontà della de cuius in vita.

Terzo motivo: violazione di legge penale ed illogicità della motivazione in relazione alla quantificazione della pena. La Corte territoriale ha rigettato le censure difensive in ordine al trattamento sanzionatorio, ritenendo equa la pena inflitta in base al valore dell’asse ereditario e alla durata dell’attività induttiva: tale valutazione non appare corretta e rispondente alle emergenze processuali nonché al comportamento dell’imputato successivamente ai fatti, avendo omesso di considerare come lo stesso aveva definito ogni questione successoria con la sorella della de cuius attraverso l’istituzione di un vitalizio a suo favore, obbligazione naturale nei cui confronti il B. aveva assunto un impegno morale, puntualmente adempiuto.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato.

2. Con riferimento ai primi due assorbenti motivi di ricorso, trattabili unitariamente per la forte colleganza dei temi esposti, evidenzia in premessa il Collegio come il ricorrente sia stato ritenuto responsabile dai giudici di merito del reato di cui all’art. 643 c.p., per aver abusato dello stato di deficienza psichica legato all’età avanzata e ad un disturbo cognitivo lieve di origine vascolare della signora M.L. (classe …), inducendo la stessa a redigere un testamento olografo in suo favore pochi giorni prima del decesso avvenuto in (omissis) .

2.1. Nei motivi di gravame proposti nell’interesse dell’imputato avverso la sentenza di primo grado, era stato censurato il percorso logico argomentativo del Tribunale che “non avrebbe correttamente valutato le prove testimoniali e documentali a sua disposizione, da cui risulterebbe che le disposizioni testamentarie della M. … non sono il frutto dell’ipotizzata attività induttiva del B. , ma la manifestazione di una libera volizione ispirata dalla riconoscenza per l’imputato, che, dal 2006, si era prestato ad aiutare gratuitamente l’anziana signora a gestire il suo patrimonio, diventando a poco a poco persona di sua fiducia” (v. pag. 4 della sentenza di appello).

2.2. La Corte territoriale, prendendo le mosse dal profilo concernente la minorata condizione di autodeterminazione del soggetto passivo, similmente alle valutazioni compiute dal Tribunale, ha fondato la propria decisione di riconoscimento della penale responsabilità del B. “basandosi sul contributo dei consulenti tecnici delle parti, che hanno concordato sul fatto che la M. presentasse, all’epoca della redazione del testamento, un disturbo cognitivo lieve, condizione coerente con l’osservazione, da parte delle persone che avevano avuto contatti con la persona offesa, di un rallentamento nelle sue reazioni e di episodi evidenzianti stato confusionale e perdita di lucidità”, ritenendo così provato “un decadimento cognitivo che poneva (ndr. la M. ) in una condizione di vulnerabilità e suggestionabilità, certamente riconoscibile, così come ritenuto dal consulente tecnico Zanalda, da chi, come l’imputato, avesse l’opportunità di frequentare assiduamente l’anziana signora, verificandone il progressivo declino”. In tal senso – prosegue la sentenza di appello – “appare oltremodo significativa la tempistica della redazione del testamento, avvenuta fra due ricoveri in ospedale ravvicinati e poco prima dell’exitus, alla presenza dell’imputato, cui la scheda testamentaria risulta essere stata consegnata direttamente…”. Da qui la conclusione secondo la quale appariva “evidente in quei giorni, di poco precedenti la sua morte avvenuta il 25/01/2014, le condizioni di fragilità, vulnerabilità e suggestionabilità della sig.ra M. erano ancora più critiche ed hanno certamente favorito l’opera di induzione che ha prodotto la redazione di una scheda testamentaria in cui B. risulta erede universale dell’anziana signora.

Altrettanto significativa appare poi la pretermissione in testamento della sorella della persona offesa, sua unica erede legittima…”.

3. Alcune brevi considerazioni di carattere generale sul reato di circonvenzione di persone incapaci si impongono.

L’art. 643 c.p., inserito fra i delitti contro il patrimonio mediante frode, tutela il patrimonio del minorato ossia di colui che, non necessariamente interdetto o inabilitato, si trovi in una defedata condizione di autodeterminazione in ordine ai suoi interessi patrimoniali. Come è noto, la legge individua tre categorie di soggetti passivi: a) i minori; b) l’infermo psichico; c) il deficiente psichico. Il fatto che la legge distingua fra infermo psichico e deficiente psichico e non consideri necessario che il soggetto passivo si trovi nella condizione per essere interdetto o inabilitato, induce a ritenere che: per infermità psichica deve intendersi ogni alterazione psichica derivante sia da un vero e proprio processo morboso (quindi catalogabile fra le malattie psichiatriche) sia da una condizione che, sebbene non patologica, menomi le facoltà intellettive o volitive; la deficienza psichica, invece, è un’alterazione dello stato psichico che, sebbene meno grave della infermità, tuttavia, è comunque idonea a porre il soggetto passivo in uno stato di minorata capacità in quanto le sue capacità intellettive, volitive o affettive, fanno scemare o diminuire il pensiero critico. Rientrano in tale categoria, la fragilità, duttilità e debolezza di carattere, la vecchiaia e in genere ogni altra analoga particolare condizione che offra agevole campo alla suggestione e agli abusi (cfr., Sez. 2, n. 39144 del 20/06/2013, Alfaro Yepez, Rv. 257068; Sez. 2, n. 3209 del 20/12/2013, dep. 2014, P.O. in proc. De Mauro e altri, Rv. 258537).

Peraltro, il minimo comun denominatore che si può rinvenire nelle due predette situazioni, consiste nel fatto che, in tanto il reato può essere configurato, in quanto si dimostri l’instaurazione di un rapporto squilibrato fra vittima ed agente nel senso che deve trattarsi di un rapporto in cui l’agente abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima a causa del fatto che costei si trova, per determinate situazioni da verificare caso per caso, in una minorata situazione e, quindi, sia incapace di opporre alcuna resistenza a causa della mancanza o diminuita capacità critica. Tale situazione di minorata capacità dev’essere oggettiva e riconoscibile da parte di tutti in modo che, chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti (Sez. 2, n. 4747 del 21/01/1987, Trioschi, Rv 175682).

Inoltre, l’art. 643 c.p., al fine di ritenere integrata la fattispecie criminosa, prevede (in aggiunta alla minorata capacità di cui si è detto) l’induzione a compiere un atto che importi, per il soggetto passivo e/o per altri, qualsiasi effetto giuridico dannoso. Per induzione deve intendersi un’apprezzabile attività di pressione morale e di persuasione (Sez. 2, n. 1195 del 13/12/1993, dep. 1994, Di Falco, Rv. 196331) che si ponga, in relazione all’atto dispositivo compiuto, in un rapporto di causa ed effetto. L’abuso si verifica quando l’agente, ben conscio della vulnerabilità del soggetto passivo, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il suo fine ossia quello di procurare a sé o ad altri un profitto.

Il concetto di induzione postula, quindi, una attività positiva diretta a determinare, convincere ovvero influire sulla volontà altrui, in modo da condurre la vittima a compiere un determinato atto giuridico, e rappresenta un elemento ben distinto dal mezzo usato per il raggiungimento del fine (Sez. 2, n. 8454 del 21/01/2019, D., Rv. 275612).

Solo allorquando la persona offesa si trovi nella situazione di poter essere inabilitata a causa di condizioni psichiche così precarie da privarla gravemente della capacità di discernimento e di autodeterminazione, la prova dell’induzione può essere desunta in via presuntiva, potendo consistere in qualsiasi comportamento dell’agente cui la vittima non sia in grado di opporsi e che la porti a compiere in favore dell’autore del reato atti per sé pregiudizievoli e privi di causale alcuna, che in condizioni normali non avrebbe compiuto (Sez. 2, n. 4816 del 15/01/2010, Bertozzi, Rv. 246279). Di tal che la prova della condotta induttiva può essere tratta anche da elementi indiziari e prove logiche, avendo riguardo alla natura dell’atto, all’oggettivo pregiudizio da esso derivante e ad ogni altro accadimento connesso al suo comportamento (Sez. 2, n. 6078 del 09/01/2009, Tripodi, Rv. 243449). E così, nel reato in parola, il punto che occorre focalizzare non è tanto la valutazione in astratto delle condizioni in cui può venirsi a trovare un soggetto, quanto, in concreto, come il soggetto passivo, a fronte dell’azione subdola dell’agente, abbia saputo reagire (rectius, autodeterminarsi) e cioè in una parola se l’agente, proprio a causa del rapporto squilibrato che instaura con la vittima, abbia avuto la possibilità di manipolarne la volontà a causa della minorata situazione (fisica e/o psichica), e la vittima sia stata incapace di opporre alcuna resistenza a causa della mancanza o diminuita capacità critica.

3.1. Fermo quanto precede, evidenzia il Collegio come nella fattispecie sia fortemente in dubbio la prova dell’attività di induzione.

Come correttamente evidenziato dal ricorrente, già la prima sentenza di condanna era stata censurata nella parte in cui, dopo aver dettagliatamente elencato tutte le fonti di prova, documentali e testimoniali nonché le risultanze dell’indagine tecnica sulle condizioni di salute della persona offesa, descriveva le condizioni di vita di quest’ultima ed i suoi rapporti con l’imputato sulla base di una lettura frazionata e circoscritta del compendio probatorio, ingiustificatamente limitato al solo dichiarato di alcuni testi (erano stati sentiti solo alcuni vicini di casa ed inquilini della M. e il suo commercialista rag. Mo. , mentre non erano stati nemmeno evocati i contenuti testimoniali, certamente contrastanti rispetto alla ricostruzione accusatoria e alle uniche versioni menzionate in sentenza, del Dott. D.P. , medico curante della vittima, della sig.ra L.P. , della sig.ra P. e della sig.ra Ma. , che coadiuvavano la M. nelle sue ordinarie attività di vita quotidiana nonché della sig.ra Federighi, impiegata presso l’istituto di credito che gestiva tutti i pagamenti della donna). Sulla base di tale frammentario e parziale percorso ermeneutico, venivano ricostruite ex post le volontà testamentarie della M. per giungere ad un indimostrato giudizio di avvenuta suggestione che, all’esito dell’azione criminosa del B. , aveva alterato, proprio in concomitanza con i suoi ultimi giorni di vita, la sua libera scelta di disporre dei propri beni: si assume pertanto che, la M. , senza l’azione del B. che l’avrebbe indotta a redigere testamento a suo favore, documento consegnato al notaio pochi giorni prima di morire, non solo non avrebbe beneficiato in alcun modo l’imputato ma avrebbe altresì disposto diversamente delle proprie sostanze, non pretermettendo in primis la sorella.

3.2. In realtà, il quadro probatorio complessivamente emerso dall’istruttoria dibattimentale di primo grado appare totalmente diverso, in quanto descrive la condizione di una signora anziana con problemi fisici di deambulazione legati alla gonoartrosi e con ulteriori problemi fisici connessi a diagnosi di ipertensione ed insufficienza renale: persona, tuttavia, del tutto autonoma ed indipendente, in grado di gestire da sole le proprie ordinarie esigenze quotidiane senza ausilio di alcuno e, addirittura, di amministrare da sola un’intera palazzina. La condizione di vulnerabilità e suggestionabilità viene desunto dallo stato di “decadimento lieve”, evidenziato dal consulente del pubblico ministero (Dott. Z. ), formulato sulla base di un riscontrato deficit cognitivo collegato all’età avanzata (la M. è deceduta all’età di ottantasette anni), pur se oggettivamente incontestabile, non ha avuto alcun riscontro sotto il profilo soggettivo, non risultando essere stato percepito non solo dai testimoni che hanno avuto con la M. costanti rapporti negli ultimi tempi di vita della stessa (rag. Mo. , sig.ra Federighi, avv. Sollazzo, sig.ra L.P. , avv. Bozzini) ma nemmeno dal medico di base (Dott. D.P. ), dagli operatori del 118, dai vigili del fuoco e dal nEurologo del DEA che la descrive come “vigile, attenta e orientata” (nessun elemento probatorio certo è stato acquisito sull’efficacia invalidante in termini di deficienza psichica degli esiti rilevati dall’esame di una TAC evidenziante nei confronti della M. un quadro di vasculopatia cerebrale ischemica cronica conclamato, con sua riconosciuta invalidità al 90%).

Ovviamente, in questo caso, non è “in gioco” il superamento della valutazione peritale sulla base di una diversa lettura delle conclusioni ivi assunte, bensì il diverso tema dell’analisi del risultato dell’indagine tecnica alla luce di tutte le altre evidenze di prova capaci di far dubitare della sufficienza e della concludenza – in termini probatori – degli esiti del giudizio tecnico.

3.3. Nella fattispecie, tenuto conto dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di circonvenzione di persone incapaci, lo stato di infermità o di deficienza psichica della persona, pur non dovendo necessariamente consistere in una vera e propria malattia mentale, deve comunque provocare una incisiva menomazione delle facoltà intellettive e volitive, tale da rendere possibile la suggestione del minorato da parte di altri, in quanto l’incapacità del soggetto passivo costituisce un presupposto del reato della cui sussistenza, pertanto, vi deve essere l’assoluta certezza (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 5791 del 09/11/2016, dep. 2017, Rufolo, Rv. 269113), non appare illogico dubitare dell’esistenza in capo alla M. di uno stato di deficienza psichica idoneo a provocarle quell’incisiva menomazione delle sue facoltà intellettive e volitive.

3.3.1. A fronte di una condizione psichica, quanto meno discutibile in termini di efficacia invalidante, si pongono numerosi ulteriori elementi che consentono di mettere fortemente in dubbio che le disposizioni testamentarie della M. fossero state certamente condizionate dall’azione del B. (sulla necessità, ai fini della configurabilità del reato in contestazione, dell’esistenza di una correlazione tra l’azione subdola dell’agente e la ridotta capacità di autodeterminarsi della vittima a causa della mancata o diminuita capacità critica, v. Sez. 2, n. 9358 del 12/02/2015, P.C. in proc. Renna, Rv. 262839).

In tal senso, tre elementi su tutti si ricavano dall’esame della scheda testamentaria: l’assenza di segni di falsificazione sul manoscritto; l’indicazione, assolutamente precisa e circostanziata, dei beneficiari dei lasciti in assoluta continuità formale con i contenuti di altri identici pregressi testamenti della M. ; l’assenza di reali contrasti ovvero di significativi ribaltamenti sostanziali tra l’ultimo testamento ed i precedenti in punto volontà testamentarie.

3.3.2. Ma i dati “sostanziali” appaiono di maggiore autoevidenza rispetto a quelli formali. Anche qui, dopo aver evidenziato come i giudici di merito non abbiano adeguatamente tenuto conto del fatto che la decisione della M. di indicare il B. come erede non appariva nè priva di causa (l’imputato era persona che dal 2006, si era prestata ad aiutare gratuitamente l’anziana signora a gestire il suo patrimonio, diventando a poco a poco persona di sua fiducia, divenendone un sostanziale “tuttofare”) nè priva di motivazioni personali (la M. non aveva di fatto più rapporti con la sorella e riteneva di aver già fatto tanto per lei, incaricando il B. – come si dirà a breve – di occuparsene), vanno considerate tre circostanze di fatto su tutte:

– il B. , come attestato dalla deposizione del teste Matassa collaboratore del notaio Martucci, a fronte del consiglio rivolto alla M. di valutare la possibilità di redigere un testamento pubblico, preferì non fornire alcuna indicazione alla persona offesa che provvide a redigere l’ultimo atto contenente le proprie volontà testamentarie secondo uno schema a lei già noto ed utilizzato in passato;

– la risalenza di rapporti assai difficili tra M.L. e la sorella M.L. (v. testimonianza don V. ): la volontà di Luigina M. di occuparsi della sorella (la stessa risulta essersi informata più volte tramite l’assistente sociale Crabu, il rag. Mo. , il parroco don V. e l’avv. Sollazzo – sulla possibilità di devolvere una rendita alla sorella, a suo dire non in grado di amministrare autonomamente il patrimonio) si era accompagnata con la sua sfiducia nei confronti della stessa e nella diffidenza degli assistenti sociali ad occuparsi di lei. La persona offesa, da ultimo si era rivolta al parroco don V. per chiedergli di occuparsene personalmente ma, a fronte di un invito a rivolgersi direttamente alla Curia, aveva preferito beneficiare il B. dell’eredità, chiedendogli, all’atto della consegna del testamento, l’impegno ad occuparsi della sorella;

– la disponibilità manifestata dal B. (rimasta non attuata per ragioni di salute dello stesso e per la mancata nomina di un tutore della beneficiaria: v. sentenza di primo grado, pag. 10) di proporre all’unica erede legittima della de cuius di un vitalizio di circa 700,00 Euro mensili, a titolo di obbligazione naturale.

4. Da qui l’obbligatorietà di una pronuncia di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità o gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità o gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

 


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