Accertamento fiscale: valgono i dati bancari esteri?


Il Fisco può ottenere dagli altri Stati, Svizzera compresa, le giacenze e ricostruire la consistenza dei rapporti: le somme non dichiarate si presumono evase.
Tenere i soldi in Svizzera o in altri Stati considerati “sicuri” non conviene più. Il segreto bancario dello scorso secolo si è sgretolato con la cooperazione internazionale volta a contrastare l’evasione compiuta attraverso i paradisi fiscali, ed è stato definitivamente abbattuto da alcune sentenze della Cassazione, che hanno stabilito la piena utilizzabilità dei dati bancari esteri nella ricostruzione dei redditi imponibili. Il discorso non riguarda soltanto chi ha grossi conti in banca con disponibilità finanziarie detenute oltre confine, ma tocca da vicino anche il piccolo risparmiatore o investitore che può trovarsi in una situazione del tutto analoga, quando detiene ad esempio titoli azionari stranieri o ha un conto corrente di liquidità o di deposito oppure un portafoglio in Bitcoin o altre criptovalute aperti presso intermediari non operanti in Italia. Allora, bisogna capire se per un accertamento fiscale valgono i dati bancari esteri, quando la nostra Amministrazione finanziaria italiana può legittimamente acquisirli e in quali forme, come possono essere utilizzati nella ricostruzione dei redditi e quali sanzioni sono previste per chi non li aveva dichiarati. Costui è considerato, fino a prova contraria, un evasore fiscale.
Indice
Come dichiarare i soldi tenuti all’estero
I redditi prodotti all’estero vanno riportati nel quadro RW della dichiarazione dei redditi. Qui, bisogna inserire non solo quelli effettivamente incassati o maturati, ma tutte le disponibilità finanziarie detenute dal contribuente al di fuori dell’Italia. Infatti, questa sezione della dichiarazione dei redditi ha una funzione di monitoraggio delle attività e degli investimenti esteri che sono considerati dalla legge [1] «suscettibili» di produrre reddito, anche se in concreto non lo hanno ancora fatto. Dunque, bisogna riportare i conti correnti e le altre forme di deposito, i titoli azionari e obbligazionari, anche detenuti attraverso gestioni patrimoniali, fino alle criptovalute (per approfondire quest’ultimo aspetto leggi l’apposito articolo “Bitcoin: vanno dichiarati e sono tassati?”).
Conti correnti esteri: adempimenti fiscali
Per i conti correnti l’obbligo di compilare il quadro RW scatta quando il valore massimo giornaliero supera i 15mila euro, anche se per un solo giorno nell’anno. Ma se i risparmi sono soggetti a Ivafe (imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero da persone fisiche residenti in Italia) il valore scende a 5mila euro e l’imposta ammonta allo 0,2% annuo (in proposito leggi anche “Conto corrente estero: qual è il regime fiscale da rispettare“). Questi obblighi sono esclusi quando l’operatore estero si appoggia ad un istituto di credito italiano che agisce in qualità di sostituto d’imposta, prelevando la normale ritenuta del 26% sugli interessi e sugli altri guadagni e l’imposta di bollo di 34,20 euro dovuta sulle giacenze superiori a 5mila euro.
Conto all’estero non dichiarato: accertamento e sanzioni
Non pensare che basta aprire un conto corrente all’estero per sfuggire agli occhi del Fisco: l’Agenzia delle Entrate dispone di moltissime informazioni provenienti da altri Stati che partecipano ai vari programmi di cooperazione internazionale finalizzati allo scambio di informazioni fiscali [2] come il Common Reporting Standard (CRS) dell’Ocse [3] oppure in virtù di accordi bilaterali stipulati direttamente tra l’Italia e lo Stato estero interessato.
Le informazioni sui conti correnti e di deposito tenuti presso gli Stati membri dell’Ocse, che comprende 37 Stati europei ed extraeuropei (come gli Stati Uniti, il Canada, Israele, la Colombia e il Messico e ora, dopo la Brexit, anche il Regno Unito), vengono scambiate annualmente tra i Paesi membri in base a un flusso di dati alimentato dagli stessi istituti finanziari, che sono tenuti a segnalare i rapporti bancari, e ulteriori informazioni possono essere acquisite dalla magistratura nell’ambito delle inchieste penali, come quelle sul riciclaggio di capitali.
Un conto corrente non dichiarato comporta l’applicazione di sanzioni amministrative fisse di 250 euro e variabili dal 6% al 30% dell’importo detenuto se il rapporto è aperto in uno degli Stati rientranti nella “black list dei paradisi fiscali“, che contiene l’elenco, periodicamente aggiornato, dei Paesi considerati più pericolosi in quanto a maggior rischio di evasione; la sanzione è dimezzata – quindi va dal 3% al 15% – se il Paese di ubicazione del conto non rientra in questa lista nera (leggi qui l’elenco dei Paesi inseriti in black list).
Conto corrente non dichiarato: presunzione di evasione fiscale
In tali casi, opera la presunzione di evasione fiscale: la legge [4] prevede che le somme detenute sul conto estero e non dichiarate vengono considerate frutto di redditi imponibili che sono stati sottratti a tassazione in Italia, e a questo punto è il contribuente che deve fornire la difficile prova contraria per sfuggire alle sanzioni.
Solitamente, l’Agenzia delle Entrate, prima di emettere l’avviso di accertamento per il recupero dell’imposta evasa, invia ai contribuenti un avviso bonario per consentire di regolarizzare la loro posizione beneficiando di sanzioni ridotte oppure di fornire i chiarimenti sulla provenienza delle somme e dei motivi dell’omessa dichiarazione.
Se poi in relazione al valore in deposito o in giacenza sul conto non dichiarato si superano le soglie di punibilità penale per l’ammontare degli imponibili sottratti a tassazione e delle imposte evase, la condotta costituisce anche reato tributario.
L’utilizzo dei dati esteri: la posizione della Cassazione
La giurisprudenza distingue il caso delle informazioni acquisite legittimamente dagli Stati stranieri attraverso gli strumenti di cooperazione internazionale previsti dalla legge dal caso in cui i dati siano stati ottenuti dall’Amministrazione finanziaria in maniera irrituale, cioè al di fuori di tali canali di scambio.
È il caso, ad esempio, della “lista Falciani”, un tabulato di informazioni su conti in Svizzera che era stato trafugato e diffuso senza autorizzazione da un dipendente di un istituto bancario privato. Bisogna avere chiaro che, da alcuni anni, la Svizzera non è più un paradiso fiscale, anzi, è tenuta a comunicare i dati dei propri correntisti quando c’è una precisa richiesta in tal senso da un’amministrazione fiscale italiana o di uno Stato membro dell’Unione Europea. Lo stesso accade per altri Stati ormai ex “paradisi fiscali”, come San Marino e il Principato di Monaco.
Ma l’originaria divulgazione non autorizzata dei dati della “lista Falciani” viene superata dalle modalità di acquisizione da parte dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza, quando gli elementi in essa contenuti e che riguardano la posizione di un contribuente oggetto di accertamento sono stati ottenuti attraverso i collaterali organi di cooperazione internazionale situati negli altri Paesi. In questo modo, i risultati ottenuti diventano legali.
Su questo delicato tema la Corte di Cassazione ritiene che l’origine illecita dei dati bancari non impedisce la possibilità di utilizzarli da parte del Fisco italiano a fini tributari, mentre lo sbarramento opera in ambito penale. Essi sono quindi utilizzabili, sia pure come elementi indiziari, per ricostruire i redditi imponibili del contribuente accertato. Per essi opera dunque pienamente la presunzione di evasione fiscale.
In un recentissimo caso, la Suprema Corte [5] ha respinto il ricorso di un contribuente che sosteneva l’inutilizzabilità della lista Falciani ed ha invece giudicato valido l’accertamento compiuto sulla base della documentazione bancaria che indicava l’ammontare dei depositi in giacenza su conti esteri, situati in Svizzera. Perciò, è stato confermato l’accertamento operato dal Fisco, che correttamente aveva ritenuto che quei capitali (per i quali non era stato compilato il quadro RW), fossero stati sottratti a tassazione e, dunque, erano frutto di evasione fiscale.
note
[1] Artt. 2 e 5 D.P.R. n. 917/86; art. 4 D.L. n. 167/1990, conv. in Legge n. 227/1990;
[2] art. 2, comma 4 bis, D.L. n. 4/2014, conv. in Legge n. 50/2014, modificato dalla Legge n. 186/2014.
[3] Approvato il 15.07.2014 e disciplinato dalla Direttiva n. 2015/2376/UE.
[4] Art. 12, comma 2, D.L. n. 78/2009, conv. in Legge n. 102/2009.
[5] Cass. ord. n. 6154 del 05.03.2021.