Reperibilità: quando rientra nell’orario di lavoro


La Corte di giustizia Ue disegna i confini entro i quali vanno remunerate le ore in cui un dipendente deve restare a disposizione dell’azienda.
Il dipendente tenuto ad essere sempre reperibile per risolvere eventuali problemi dell’azienda deve considerare quella disponibilità come facente parte del suo orario di lavoro. Ma solo se in questo modo vede condizionata la gestione del suo tempo libero. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea in due diverse e recenti sentenze.
In sostanza, il concetto espresso dai giudici di Lussemburgo è il seguente: se un lavoratore deve rinunciare alla libertà di decidere quello che può fare quando non è tenuto ad essere in ufficio perché può essere contattato in qualsiasi momento dall’azienda per sistemare un imprevisto, è come se non staccasse mai dal lavoro e, pertanto, la reperibilità rientra nel suo orario. Il che significa che quelle ore devono essere pagate.
La Corte Ue pone, comunque, dei vincoli: la reperibilità deve pregiudicare in maniera significativa il tempo libero del dipendente e non rientra nell’orario di lavoro se la mancata possibilità di gestire il tempo libero deriva da fattori naturali o da scelte del dipendente stesso.
Aiutano a capire meglio la questione i due casi esaminati dalla Corte. Il primo riguardava un tecnico sloveno responsabile del regolare funzionamento di centri di trasmissione televisiva in zone montane. Il lavoratore, concluso il suo normale orario, doveva garantire sei ore al giorno di reperibilità: era obbligato ad essere raggiungibile fuori dall’azienda e a rientrare in servizio entro un’ora dal luogo in cui si trovasse in quel momento. In sostanza, non poteva allontanarsi a una distanza dal suo posto di lavoro che gli impedisse di rientrare entro un’ora dalla richiesta di intervento. Cosa assai complicata quando si vive in mezzo ai monti.
Il secondo caso riguardava un vigile del fuoco tedesco, costretto a garantire dopo il normale orario di lavoro dei periodi di reperibilità che lo obbligavano a rientrare in città in caso di allarme entro 20 minuti dalla chiamata.
In entrambe le situazioni, veniva chiesto che, essendoci l’impedimento di fare ciò che si voleva fuori dall’orario di lavoro per mettersi a disposizione dell’azienda, le ore di reperibilità venissero pagate normalmente, indipendentemente dal fatto che ci fosse o meno bisogno di un intervento.
A tali richieste, la Corte di giustizia europea ha detto di no. Tuttavia, i giudici hanno stabilito che la reperibilità rientra nell’orario di lavoro (e quindi va pagata) quando il dipendente ha l’obbligo di restare sul luogo di lavoro diverso dal suo domicilio e di rimanere a disposizione dell’azienda.
Nello specifico, le sentenze spiegano che affinché la reperibilità diventi orario di lavoro si devono valutare i vincoli imposti dalla normativa nazionale, da un contratto nazionale di categoria o dal datore e non le difficoltà che le caratteristiche naturali di un posto (come chi vive in una zona montana, per seguire il caso del tecnico sloveno) possono creare per potersi allontanare dal posto in cui sarebbe necessario l’intervento.
La Corte ha, infine, precisato che i periodi di reperibilità possono essere remunerati in maniera diversa rispetto alle ore normalmente lavorate.