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Pranzo di nozze scarso: posso non pagare il conto?

29 Marzo 2021 | Autore:
Pranzo di nozze scarso: posso non pagare il conto?

Il ristoratore deve provare l’esatto adempimento, altrimenti vince il cliente che ritiene insoddisfacente la prestazione.

Il giorno delle nozze è, o dovrebbe essere, il più bel giorno della propria vita: un evento festoso, da ricordare a lungo (possibilmente per sempre). Così per condividere la gioia si organizza un bel ricevimento con parenti e amici. Il banchetto è il punto forte della giornata o della serata: gli ospiti devono rimanere soddisfatti, non solo della cerimonia e dell’atmosfera ma anche nel palato. In un pranzo nuziale che si rispetti, qualità, gusto e varietà sono essenziali, come tutti sanno; anche per questo gli sposi sono disposti a pagare di più per avere un menù ricercato, un ambiente elegante e un servizio di alto livello.

Ma se invece qualcosa va storto e si rivela al di sotto delle aspettative, ad esempio, quando il pranzo di nozze è scarso posso non pagare il conto? Una recente sentenza della Cassazione [1] ha analizzato un caso del genere e ha dato ragione ad una coppia di sposi che si era rifiutata di saldare il prezzo. Il ristoratore aveva provato in tutti i modi a farsi versare il dovuto, ma i giudici hanno stabilito che il diniego dei clienti era pienamente legittimo. Vediamo cosa è successo e perché si è arrivati a questa decisione; da ciò capirai come regolarti in casi simili.

Conto non pagato: cosa può fare il ristoratore

Il ristoratore sostiene di aver preparato e fornito un banchetto coi fiocchi, esattamente com’era stato concordato, ma il cliente contesta vari inadempimenti: ad esempio, la qualità dei cibi e il servizio. Per questi motivi, si rifiuta di pagare il prezzo stabilito.

Per prevenire le possibili contestazioni – che arrivano quando il pranzo è stato già servito e consumato – ormai quasi tutti gli esercenti quando pattuiscono prestazioni impegnative, come un ricevimento nuziale, si cautelano in anticipo con un contratto scritto e firmato dal cliente, che contiene gli elementi essenziali del servizio da offrire: la data dell’evento, il numero degli ospiti, il menù scelto, le portate previste, la location (sala, giardino, ambiente esterno, ecc.) e ovviamente il prezzo concordato. Spesso, i gestori di sale importanti si fanno versare anche un congruo anticipo al momento della prenotazione.

In questo modo, è facile, in caso di inadempimento del cliente al pagamento della somma stabilita, chiedere ed ottenere dal giudice un decreto ingiuntivo, cioè un vero e proprio ordine di pagamento entro un termine di 40 giorni, oltre i quali il creditore potrà direttamente avviare le procedure esecutive.

I presupposti per munirsi del decreto ingiuntivo ci sono: il credito del ristoratore è certo nell’ammontare ed è provato per iscritto, perché il cliente ha sottoscritto il contratto e ciò vale come accettazione; inoltre, il servizio è stato indubbiamente svolto in favore degli sposi e dei loro invitati.

Cliente insoddisfatto: come può difendersi

Il cliente insoddisfatto del pranzo nuziale può opporsi al decreto ingiuntivo ricevuto, entro 40 giorni dalla sua notifica; così facendo instaurerà una causa: un vero e proprio giudizio di cognizione, nel corso del quale finiranno sotto la lente le prestazioni promesse e quelle realmente eseguite. Chiaramente, servono validi motivi per opporsi: bisogna avere argomenti a sostegno di quanto si afferma e occorre poterli dimostrare. In concreto, potrà trattarsi della scarsa qualità dei cibi, di sbagli nella cucina che hanno compromesso irrimediabilmente il gusto delle pietanze, di riscontrate carenze igieniche o sanitarie oppure di gravi inadempienze del servizio.

Nel caso deciso dalla Cassazione, si è verificato proprio questo: il ristoratore non pagato aveva ottenuto il decreto ingiuntivo ma gli sposi si erano opposti e il tribunale, dopo aver acquisito le prove, ha dato loro ragione. La Suprema Corte ha confermato il verdetto e ha così definitivamente respinto il ricorso del ristoratore. Ora, vediamo qual è stato il ragionamento seguito dai giudici del Palazzaccio.

Conflitto tra ristoratore e cliente: chi ha ragione?

La legge stabilisce un principio base per i contratti tra ristoratore e cliente, che rientrano nell’ambito delle «prestazioni corrispettive» [2] in cui avviene uno scambio (non necessariamente immediato) di un bene o un servizio contro il suo prezzo: l’esercente si impegna a preparare e servire un menù con le caratteristiche promesse e il cliente a pagare il prezzo pattuito. Ma quando uno dei due contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può chiedere, a sua scelta, l’adempimento o la risoluzione del contratto.

Questa seconda ipotesi evidentemente non è più possibile quando il pranzo nuziale è già stato consumato e allora al ristoratore non pagato rimane la prima opzione: chiedere l’adempimento alla controparte, cioè il pagamento del prezzo in suo favore. La particolarità del pranzo di nozze non pagato è però che entrambi i contraenti sono inadempienti alle rispettive obbligazioni: infatti, il cliente sostiene di non aver pagato perché è rimasto deluso e insoddisfatto dal banchetto, che è risultato ben diverso rispetto a quanto l’esercente si era impegnato a compiere.

Così la giurisprudenza adotta un criterio per dirimere il contrasto delle opposte versioni: i due rispettivi inadempimenti devono essere accertati in concreto, ma non solo: occorre verificare se uno è stato causa dell’altro e, in tal caso, se il motivo del cliente per rifiutare di eseguire la propria prestazione – cioè il pagamento del prezzo – è valido. A questo punto, il cliente ristabilisce la parità con il ristoratore (fino a quel momento, il suo mancato pagamento era l’unica cosa certa e incontestata, dunque l’inadempimento era evidente) e può addirittura passare in vantaggio se dimostra di non aver pagato proprio perché il cibo o il servizio non era stato all’altezza delle aspettative stabilite nel contratto: tali prestazioni, infatti, costituivano un preciso impegno del ristoratore, che non è stato rispettato, ma proprio in base ad esse era stato stabilito il prezzo.

Come si prova che il pranzo nuziale era insoddisfacente?

Dalla sentenza definitiva ora pubblicata [1] (puoi leggerla per intero alla fine di questo articolo) non si evince quale fosse stato il motivo di insoddisfazione degli sposi: di certo, era andato storto qualcosa di grosso, al punto da spingere la coppia ad affrontare una causa per vedere infine sancito il diritto di non pagare il conto (pari a 3.500 euro) per il ricevimento svolto presso un rinomato agriturismo siciliano.

Ma al di là della vicenda concreta quello che conta è il principio affermato dalla Suprema Corte, che si rivela molto utile per capire come affrontare casi simili: il Collegio applica le norme sull’inadempimento reciproco che ti abbiamo indicato ed afferma che «gli sposi hanno eccepito l’inesatto adempimento del ristoratore ed hanno allegato molteplici difformità delle prestazioni da lui eseguite rispetto a quelle dovute, mentre il ristoratore non ha dato prova del suo esatto adempimento».

È questo il nocciolo della decisione: l’adempimento di un contratto a prestazioni corrispettive deve essere completo, puntuale ed esatto, tanto più se ha ad oggetto un evento per sua natura importante, come un ricevimento nuziale. Insomma, le difformità rispetto a quanto pattuito non sono ammesse in questi casi e se si verificano pesano molto nella decisione da assumere: il ristoratore che subisce una contestazione del genere deve provare che le cose non stanno come il cliente sostiene, dimostrando di aver correttamente adempiuto tutte le sue prestazioni.

Quando il cliente può rifiutarsi di pagare

In estrema sintesi, il cliente che afferma: «Io non ti pago perché non mi hai trattato bene, sei stato al di sotto delle aspettative promesse» può mettere con le spalle al muro il ristoratore. E quello che più conta è che, se c’è un contrasto tra cliente ed esercente e una contestazione, ad esempio sul menù servito o sulla qualità dei cibi e delle pietanze, sarà il ristoratore a dover provare di aver adempiuto in maniera esatta e corretta la prestazione verso il cliente e solo a quel punto avrà diritto al pagamento del prezzo.

Il giudice infatti deve svolgere un giudizio di comparazione per stabilire da che parte sta la ragione e dove invece si trova il torto: quando vi sono inadempienze reciproche (il cliente che non ha pagato e l’esercente che non ha reso il servizio promesso) gli Ermellini spiegano che «è necessario comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte nonché della conseguente alterazione del sinallagma».

Il sinallagma indica, appunto, un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive ed evidentemente l’equilibrio pattuito non c’è più se il ristoratore è venuto meno all’impegno assunto e ha fornito un servizio di qualità inferiore. Insomma, chi ha sbagliato per primo legittima l’altro a non adempiere la prestazione originariamente stabilita: in questo caso, le inadempienze maggiori erano state quelle del ristoratore e proprio esse hanno causato il rifiuto dei clienti di pagarlo.

Infine, questo accertamento su ciò che è accaduto durante il banchetto nuziale è un giudizio di fatto, che va compiuto dai giudici di merito (in questo caso, il giudice di pace in primo grado ed il tribunale in appello) e non può essere rivisto o ribaltato dal giudice di legittimità, cioè dalla Cassazione, quando è stato svolto ed è ben motivato in sentenza [3]; anche per questo il ricorso del ristoratore non è stato esaminato del merito ed è stato respinto per inammissibilità.

Nel caso specifico, «in base ad un accertamento in fatto, si è ritenuto non provato l’esatto adempimento da parte del ristoratore», e ciò è sufficiente, ha sancito la Cassazione, per ritenere «sostanzialmente giustificato l’inadempimento» degli sposi.

Non pagare il conto al ristorante: quando è reato

Ricorda che, al di là di questi casi in cui il rifiuto di saldare il conto è legittimo, il fatto di non pagare il conto di un banchetto nuziale, o di un altro tipo di pranzo o ricevimento, senza valide ragioni può integrare non solo un illecito civile ma anche il reato di insolvenza fraudolenta [4], se vi era fin dal principio l’intenzione di non adempiere ed essa era stata abilmente dissimulata nei confronti del ristoratore che, ignaro di tutto, ha reso puntualmente il suo servizio. Insomma, niente pranzi a scrocco.

Leggi anche “Quando posso non pagare il conto al ristorante”.


note

[1] Cass. ord. n. 3009/2001 del 09.02.2021.

[2] Art. 1453 Cod. civ.

[3] Art. 360, comma 1, n. 5 Cod. proc. civ.

[4] Art. 641 Cod. pen.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 12 novembre 2020 – 9 febbraio 2021, n. 3009
Presidente Graziosi – Relatore Scrima

Considerato che:

El. Sa. ha proposto ricorso per cassazione, basato su due motivi, nei confronti di Mi. Ci. e Co. Cu. e avverso la sentenza n. 500/2018, depositata il 26 settembre 2018, del Tribunale di Caltagirone, che ha rigettato l’appello, proposto dall’attuale ricorrente, avverso la sentenza n. 546/2011 del Giudice di pace di Caltagirone, che aveva accolto l’opposizione proposta dal Ci. e la Cu. ed aveva revocato il d.i. n. (omissis)/2010, con il quale era stato ingiunto agli opponenti il pagamento della somma di Euro 3.500,00, in favore dell’opposto, a titolo di corrispettivo del servizio di ristorazione espletato da El. Sa. in occasione del loro matrimonio;
gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede;
la proposta del relatore è stata ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ.:

Rilevato che:

il primo motivo è così rubricato «Nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1454, 1460 c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c. Nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., come modificato dall’art. 52, comma 5 della L. 18.06.2009, n. 69, sotto il profilo della inesistenza, contraddittorietà ed apparenza della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c.»;
con tale mezzo il ricorrente sostiene che il Tribunale si sarebbe limitato ad affermare che, in primo grado, Mi. Ci. e Co. Cu. avevano eccepito l’inesatto adempimento del Sa. e allegato molteplici difformità delle prestazioni da quest’ultimo eseguite rispetto a quelle dovute mentre il Sa. non avrebbe dato prova del suo esatto adempimento;
il ricorrente sostiene di aver, invece, fornito la prova dell’esattezza e della correttezza del suo adempimento attraverso le risposte date dagli attuali intimati in sede di interrogatorio formale e quanto riferito da Ni. Ca. in sede di escussione testimoniale; lamenta che mancherebbe, nel percorso motivazionale del Tribunale, il giudizio di comparazione in ordine al comportamento di entrambe le parti, volto a stabilire quale di esse fosse responsabile delle «trasgressioni maggiormente rilevanti e, conseguentemente, causa del comportamento della controparte e dell’alterazione del sinallagma», così come mancherebbe «il giudizio di proporzionalità tra le prestazioni rispetto alla funzione economico-sociale del contratto»; deduce che il Tribunale non avrebbe «spiegato in alcun modo in che misura le asserite Inadempienze contestate al ricorrente avessero influito sul complesso delle obbligazioni assunte nei confronti dei resistenti, tenuto conto che quanto meno su alcune di esse» vi sarebbe la certezza della loro infondatezza, alla luce delle già richiamate risultanze istruttorie, e che, pertanto, sarebbe evidente la violazione delle norme indicate nella rubrica e l’inesistenza, la contraddittorietà e l’apparenza della motivazione della sentenza impugnata;
il secondo motivo è così rubricato: «Violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., come modificato dall’art. 52, comma 5 della L. 18.06.2009, n. 69, sotto il profilo dell’inesistenza, contraddittorietà ed apparenza della motivazione risultante dal testo d[e]lla sentenza impugnata, in relazione all’art. 360, comma primo, n.4 c.p.c. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c, in relazione alla omessa valutazione della testimonianza del teste Ca. Ni. in relazione alla prova dell’inadempimento dei resistenti Ci. Mi. e Cu. Co. alle obbligazioni assunt[e] nei confronti del ricorrente in occasione del ricevimento del 13.09.2008 presso l’Azienda agrituristica Gi. ed in relazione all’inesistenza dell’inadempimento contrattuale del ricorrente in relazione alle obbligazioni assunte nei confronti di Ci. Mi. e Cu. Co. in occasione del ricevimento del 13.09.2008 presso l’azienda agrituristica Gi.»;
in particolare, con il secondo motivo, il ricorrente sostiene che dall’istruttoria espletata in primo grado sarebbe emersa la palese fondatezza delle domande da lui proposte già in sede monitoria e la manifesta infondatezza delle domande e delle eccezioni proposte nell’atto di opposizione a d.i. dagli opponenti; lamenta che il Tribunale, con motivazione illogica e carente, abbia attribuito valenza neutra all’interrogatorio formale reso dai coniugi Ci. – Cu. che avrebbe, invece, a suo avviso, messo in luce la pretestuosità e l’infondatezza delle loro domande ed eccezioni, ed assume che quel medesimo Giudice avrebbe considerato, senza una plausibile ragione e con motivazione insufficiente, inattendibile il teste Ni. Ca., laddove, secondo il Sa., sarebbero, invece, scarsamente attendibili e credibili proprio i testi degli attuali intimati, Sa. Ni. e Ca. Nu. Di Li., il cui “racconto” sarebbe sicuramente inverosimile;
entrambi i motivi di ricorso proposti sono inammissibili;
va evidenziato che, nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, è necessario comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma;
tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se motivato (Cass. 30/05/2017, n. 13627; Cass. 26/10/2005, n. 20678; Cass. 1/06/2004, n. 10477); nel caso all’esame il Tribunale, in base ad un accertamento in fatto, ha ritenuto non provato l’esatto adempimento da parte del Sa., motivando al riguardo, e ha sostanzialmente ritenuto giustificato l’inadempimento degli attuali intimati (Cass. 12/02/2010, n. 3373; Cass., ord., 12/10/2018, n. 25584);
inoltre, si osserva che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, i mezzi in scrutinio mirano, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, non consentita in sede di legittimità (Cass., sez. un., 27/12/2019 n. 34476; v. anche Cass., ord., 8/11/2019, n. 28887; Cass., sez. un., 7/04/2014, n. 8053); peraltro, come già evidenziato, la sentenza impugnata è supportata da motivazione che non è apparente né intrinsecamente contraddittoria e consente di seguire il ragionamento logico seguito dal Tribunale;
neppure è stato indicato specificamente quale sia il fatto storico di per sé decisivo di cui sarebbe stata omessa la valutazione da parte del Tribunale, evidenziandosi che nella specie non è applicabile ratione temporis l’ultimo comma dell’art. 348-ter cod. proc. civ. (risalendo la notifica dell’atto di appello al 2011) e che costituisce un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., ord., 6/09/2019, n. 22397; Cass. 8/09/2016, n. 17761; Cass., sez. un., 23/03/2015, n. 5745; Cass. 4/04/2014, n. 7983; Cass. 5/03/2014, n. 5133); non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui alla richiamata norma del codice di rito le argomentazioni, supposizioni o deduzioni difensive (Cass., ord., 18/10/2018, n. 26305; Cass. 14/06/2017, n. 14802); gli elementi istruttori (Cass., sez. un., 7/04/2014, n. 8053); una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. 21/10/2015, n. 21439; v. in particolare Cass., ord., 29/10/2018, n. 27415), sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano – come nel caso all’esame – il paradigma normativo a questi ultimi profili; le ulteriori doglianze relative a vizi motivazionali non risultano proposte nel rispetto del paradigma legale di cui ai novellato n. 5 dell’art. 360 del codice di rito, applicabile nella specie ratione temporis, per il quale non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza (v. Cass., sez. un., 7/04/2014, n. 8053; Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300; Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257; v. anche Cass. 12/10/2017, n. 23940; Cass, ord., 07/12/2017, n. 29404 e Cass., ord., 25/09/2018, n. 22598);
conclusivamente il ricorso è inammissibile;
non vi è luogo a provvedere per le spese, non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (Cass., sez. un., 20/02/2020, n, 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta, Civile – 3 della Corte Suprema di Cassazione, il 12 novembre 2020.


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