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Patto di non concorrenza: quando deve essere pagato?

10 Agosto 2021
Patto di non concorrenza: quando deve essere pagato?

Il lavoratore può vincolarsi a non fare concorrenza al datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto.

Ti hanno appena proposto l’assunzione come responsabile delle vendite di una grande azienda che opera nel settore alimentare. Nella bozza di contratto c’è un patto di non concorrenza che ti vieta di lavorare per aziende concorrenti nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro. Vuoi sapere se questa clausola è legittima e quando deve essere pagato l’atto di non concorrenza.

Durante il rapporto di lavoro, il dipendente non può fare concorrenza al proprio datore di lavoro perché questo comportamento sarebbe contrario al dovere di fedeltà. Se le parti vogliono estendere questo vincolo anche dopo la fine del rapporto di lavoro, devono sottoscrivere un patto di non concorrenza che deve prevedere un adeguato corrispettivo per il dipendente. Quando deve essere pagato? La legge consente la stipula di un simile accordo ma prevede il rispetto di una serie di requisiti altrimenti il patto è nullo. Inoltre, la giurisprudenza si è interrogata sulle modalità di pagamento del corrispettivo a favore del dipendente.

Obbligo di non concorrenza: cosa si intende?

Tra i doveri principali del lavoratore vi sono la lealtà e la fedeltà nei confronti del datore di lavoro [1]. Questi principi si esprimono in vario modo e si traducono in una serie di obblighi per il prestatore di lavoro. Il dipendente, ad esempio, non deve parlare male dell’azienda in cui lavora, né divulgare informazioni riservate.

Inoltre, il lavoratore non deve fare concorrenza al proprio datore di lavoro. Se, ad esempio, sei stato assunto come rappresentante da un’azienda che commercializza cialde di caffè, non puoi, allo stesso tempo, fare l’agente per una società concorrente attiva nello stesso business.

Obbligo di non concorrenza: che succede se viene violato?

Se il dipendente, violando il dovere di non concorrenza, svolge un’attività, in qualsiasi forma, concorrente con quella del datore di lavoro, quest’ultimo può reputare tale comportamento gravemente scorretto ed avviare un procedimento disciplinare [2] contro il lavoratore.

In questo caso, il dipendente riceverà una contestazione disciplinare con cui l’azienda illustrerà il fatto commesso e potrà difendersi entro cinque giorni dal ricevimento della lettera fornendo le proprie giustificazioni. Il datore di lavoro potrà, dunque, adottare un provvedimento disciplinare che deve essere proporzionato alla gravità del fatto commesso. Se la lesione del vincolo fiduciario è ormai insanabile, la sanzione può giungere sino al licenziamento disciplinare.

Patto di non concorrenza: cos’è?

L’obbligo di non concorrenza previsto dalla legge si applica solo durante il rapporto di lavoro. Quando la relazione lavorativa cessa, tale vincolo viene meno. Per questo, la legge [3] ha introdotto il patto di non concorrenza, ossia, un accordo con cui le parti possono estendere l’obbligo oltre la fine del rapporto di lavoro.

In particolare, il patto può durare al massimo:

  • 5 anni per i dirigenti;
  • 3 anni per quadri, impiegati ed operai.

Se il patto prevede un vincolo più lungo, non sarà nullo ma la clausola relativa alla durata sarà ridotta sino al limite temporale massimo previsto dalla legge.

Patto di non concorrenza: quali limiti?

Oltre a rispettare la durata massima prevista dalla legge, il patto di non concorrenza deve essere stipulato per iscritto e devono essere indicati in modo specifico e determinato l’oggetto e i limiti geografici. Il patto, in particolare, non può impedire al dipendente di svolgere qualsiasi lavoro dopo la cessazione del rapporto e, dunque, il vincolo deve essere limitato sia sotto il profilo oggettivo (ossia le attività concretamente vietate) che spaziale (ossia il territorio nel quale si applica il divieto).

Inoltre, l’accordo deve prevedere un congruo corrispettivo a favore del dipendente. Il vincolo assunto, infatti, deve essere adeguatamente pagato. La congruità deve essere valutata tenendo conto di:

  • durata;
  • estensione geografica;
  • attività vietate;
  • retribuzione percepita dal dipendente al momento della chiusura del rapporto.

Patto di non concorrenza: quanto spetta?

Parlare di congruità del corrispettivo non consente di individuare una misura specifica. Per questo viene in soccorso la giurisprudenza che ha fissato dei parametri per valutare se il prezzo pagato per il vincolo di non concorrenza è adeguato o meno.

Ad esempio, il tribunale di Milano [4] ha ritenuto valido un patto che prevedeva:

  • estensione geografica: Europa;
  • durata: 1 anno;
  • oggetto: ogni attività in concorrenza con l’ex datore di lavoro;
  • corrispettivo: 50% dell’ultima retribuzione annua lorda;
  • cessazione del rapporto.

In un’altra decisione [5], sempre il tribunale meneghino, ha giudicato congruo un patto che prevedeva:

  • territorio: Italia ed Europa;
  • durata: 3 anni;
  • oggetto: ogni attività in favore di 6 società previste nel patto;
  • corrispettivo: euro 2.360.000, pagato dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

Patto di non concorrenza: quando deve essere pagato?

Occorre, infine, chiedersi quando deve essere versato al dipendente il corrispettivo per il patto. Nella prassi, si sono diffuse due modalità:

  • pagamento durante il rapporto di lavoro, mensilmente in busta paga;
  • pagamento alla fine del rapporto di lavoro, in una o più soluzioni.

Secondo alcuni giudici, il pagamento in costanza di rapporto rendeva nullo il patto per indeterminatezza del corrispettivo il cui ammontare era legato ad un elemento aleatorio, ossia, la durata del rapporto.

La Cassazione [6], tuttavia, ha chiarito che il corrispettivo può essere anche pagato durante il rapporto se è comunque determinabile l’ammontare complessivo pattuito.


note

[1] Art. 2105 cod. civ.

[2] Art. 7, L. 300/1970.

[3] Art. 2125 cod. civ.

[4] Trib. Milano 3 maggio 2005.

[5] Trib. Milano 16 luglio 2013, n. 2533.

[6] Cass. 1° marzo 2021, n. 5540.


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