Esiste un diritto a non nascere se non sani?


Può una persona con disabilità chiedere il risarcimento del danno di essere stato messo al mondo? La risposta in una sentenza della Cassazione.
Può una persona dire davanti a un giudice: «Voglio un risarcimento perché io non dovevo nascere»? Sulla base di che cosa avrebbe potuto difendere il suo diritto a non nascere? È un’ovvietà sostenere che non sarebbe stato lui a decidere a suo tempo di non nascere, come non decide di morire nel grembo materno nemmeno il figlio di chi ricorre all’aborto. In entrambi i casi, la scelta viene fatta da qualcun altro. Eppure, c’è chi si rivolge al tribunale per denunciare quella che si potrebbe chiamare nascita indesiderata, nella stragrande maggioranza dei casi a causa di una malformazione o di una disabilità grave.
Ma esiste un diritto a non nascere se non sani? Che sarebbe come chiedere: esiste un diritto a nascere sani? E a chi bisognerebbe chiederne conto? La questione è stata posta più volte ai giudici e, negli anni, ci sono stati dei pareri discordanti. Tant’è che, ad un certo punto, sono state interpellate le Sezioni Unite della Cassazione. Sono state loro a decidere se, in base alla legge, esiste un diritto a non nascere se non sani.
La vicenda che era arrivata sul tavolo delle Sezioni Unite era partita parecchio tempo fa dal caso di una donna che aveva partorito il suo bambino perché, a suo dire, non era stata informata correttamente del fatto che il piccolo aveva delle malformazioni. Dal che si presume che la futura mamma, ad averlo saputo in tempo, avrebbe abortito.
Qui ci sono almeno due questioni sulle quali riflettere. La prima: un presunto consenso informato mancante o incompleto (o forse non recepito correttamente). La seconda: la pretesa di un risarcimento del danno da parte dei genitori nel momento in cui il bambino è nato e si sono accorti delle malformazioni.
Il diritto ad interrompere la gravidanza
Tutti la conoscono come «la legge 194». Si tratta del testo approvato nel 1978 che da una parte concede alla madre il diritto di abortire e, dall’altra, riconosce al bambino il diritto di nascere. Potrebbe sembrare una contraddizione ma non è proprio così.
La legge stabilisce che la madre può abortire nei primi 90 giorni dalla data del concepimento nel caso in cui portare avanti la gravidanza possa comportare un rischio per la sua salute psico-fisiche e per le sue condizioni economiche.
Trascorsi questi primi tre mesi, l’aborto è praticabile solo se sussistono un grave pericolo per la donna durante la gravidanza o in vista del parto e delle malformazioni del feto. Per confermare questa scelta, però, la donna deve essere informata in modo completo e chiaro circa le conseguenze di ogni decisione. È quello che si chiama consenso informato. Al di fuori di queste eccezioni, il bambino ha diritto a nascere.
Da qui il fatto che ci possa essere un’eventuale doppia richiesta di risarcimento: una per l’eventuale mancata informazione ricevuta e l’altra perché – secondo il pensiero di qualcuno –, così come la legge che riconosce il diritto di nascere, deve riconoscere anche quello di non nascere, cioè di non venire al mondo per decisione dei genitori a causa delle sue malformazioni.
Così era stato deciso dalla Cassazione nel 2012, quando una sentenza [1] stabilì che il nascituro, ad un certo punto della sua vita, ha il diritto di chiedere il risarcimento del danno comportato dall’essere stato fatto nascere non sano e di trovare, con un riconoscimento economico, un po’ di sollievo alla propria vita condizionata dalle malformazioni e dai costi ed i problemi che questi difetti comportano. Altri orientamenti, invece, hanno sempre sostenuto che non esiste il diritto a non nascere se non sano, che non c’è scritto da nessuna parte e che, pertanto, la richiesta di risarcimento non può reggere.
La decisione delle Sezioni Unite
Alla fine del 2015, arriva la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione [2], che sposa quest’ultimo orientamento confermando che nell’ordinamento italiano non esiste il diritto a non nascere se non sano.
Innanzitutto, i giudici supremi richiamano il concetto che abbiamo citato all’inizio, cioè il fatto che a chiedere il risarcimento sia un soggetto che, al momento dei fatti contestati, non era ancora nato: secondo la Corte, tale richiesta non troverebbe un ostacolo insuperabile nell’anteriorità del fatto alla nascita, giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica. Per dirla in breve: chiedere il risarcimento ci sta. Bisogna vedere il risarcimento di che cosa. Ed è qui che le Sezioni Unite trovano una palese contraddizione. Chi lamenta un danno nell’essere venuto al mondo sostiene – a parere della Cassazione – che la sua condizione normale, cioè quella senza un danno, è la morte, cioè l’interruzione della gravidanza che lo avrebbe ucciso nel grembo materno. Il problema è che la legge riconosce il diritto alla vita in quanto bene giuridico, non il diritto alla non vita.
E si chiede la Suprema Corte: la morte può essere considerata un bene della vita? La risposta data nella sentenza è «no». Pertanto, concludono le Sezioni Unite, la persona che nasce con disabilità non può chiedere il risarcimento del danno da «vita ingiusta», poiché l’ordinamento italiano ignora il diritto a non nascere se non sano.
note
[1] Cass. sent. n. 16754/2012.
[2] Cass. SS. UU. sent. n. 25767/2015.