Le parti possono inserire nella lettera di assunzione una clausola di durata minima del rapporto.
Hai partecipato ad una selezione e sei stato assunto da un’azienda. Nel contratto di lavoro c’è scritto che non potrai dimetterti nei primi due anni di durata del rapporto di lavoro. Vuoi sapere se questa clausola è legittima e cosa rischi se non la rispetti.
Assumere una risorsa significa, spesso, effettuare un investimento iniziale soprattutto in termini di formazione. Per questo, le aziende possono avere interesse a blindare la permanenza del lavoratore in azienda per un periodo minimo di tempo. Per soddisfare questa esigenza si può utilizzare il patto di stabilità nel contratto di lavoro: cos’è?
Si tratta di una clausola, generalmente inserita direttamente nella lettera di assunzione, con cui le parti si impegnano a garantire una durata minima del rapporto. Come vedremo, chi vìola questo accordo si espone al rischio di dover risarcire il danno. Vediamo perché.
Indice
Recesso dal rapporto di lavoro: cos’è?
Nel nostro ordinamento, non sono consenti i cosiddetti vincoli contrattuali perpetui. Ciò significa che le parti di un contratto a tempo indeterminato devono avere la possibilità di recedere dal rapporto (di solito, rispettando un periodo di preavviso minimo). Questa regola vale anche nel contratto di lavoro. In particolare:
- in un contratto di lavoro a tempo determinato, le parti non possono recedere prima dello spirare del termine fissato (salvo il caso del recesso per giusta causa, determinato da un gravissimo inadempimento di una parte);
- in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, invece, le parti possono sempre recedere dal rapporto rispettando il periodo di preavviso previsto dal contratto collettivo di settore [1].
Quando la decisione di porre fine al rapporto di lavoro viene assunta dal datore di lavoro si parla di licenziamento; quando tale facoltà è esercitata dal dipendente, parliamo di dimissioni.
Patto di stabilità nel rapporto di lavoro: cos’è?
Il principio di libertà di recesso fa sì che, teoricamente, un lavoratore potrebbe dimettersi dopo poco tempo dalla sua assunzione. Questa eventualità può diventare un problema per l’impresa sia sotto il profilo organizzativo che economico. Il datore di lavoro, infatti, dovrebbe avviare la ricerca di una nuova risorsa, con il disagio che ne deriva. Inoltre, sul piano economico, l’impresa vedrebbe vanificato l’investimento in termini di formazione e crescita professionale effettuato sulla nuova risorsa.
Proprio per porre un freno a questi rischi è stato introdotto il patto di stabilità nel rapporto di lavoro. Si tratta di una clausola, stipulata di solito insieme alla lettera di assunzione, con cui una parte o entrambe si impegnano a non recedere dal rapporto per un certo periodo di tempo, garantendo così una durata minima al contratto di lavoro. A volte, questo accordo viene indicato con altri nomi, come clausola di durata minima o patto di fidelizzazione.
Patto di stabilità nel rapporto di lavoro: deve essere retribuito?
La clausola di durata minima garantita pone problemi giuridici diversi a seconda di qual è la parte che si sottopone al vincolo e rinuncia, per un dato periodo, ad esercitare il recesso. Se la parte obbligata è il datore di lavoro non si pongono particolari problemi in quanto si realizza semplicemente un rafforzamento della tutela offerta al lavoratore il quale, per tutta la durata del patto, non potrà essere licenziato, con l’eccezione del licenziamento per giusta causa [2], ossia, il recesso causato da un gravissimo inadempimento del dipendente che non consente la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro.
Quando è il dipendente a rinunciare alla possibilità di dimettersi occorre che la clausola preveda una specifica remunerazione a titolo di corrispettivo. La Cassazione ha stabilito, però, che le parti possono stabilire liberamente la remunerazione del vincolo [3]. Nel caso esaminato dagli Ermellini, in particolare, il riconoscimento di uno stipendio superiore al minimo contrattuale (cosiddetto superminimo) è stato ritenuto sufficiente a ritenere compensato l’impegno del dipendente a non dimettersi per un dato periodo di tempo.
Patto di stabilità nel rapporto di lavoro: durata massima
Un altro profilo problematico è la durata massima del patto di stabilità nel rapporto di lavoro. Come abbiamo detto, infatti, non possono esistere vincoli perpetui e, per questo, tale clausola deve avere un periodo di vigenza massimo proporzionato. Non esiste un numero da indicare sempre valido. Ciò che conta è che la durata del vincolo sia limitata nel tempo e proporzionata alle caratteristiche del rapporto di lavoro (ad es. all’investimento formativo effettuato dall’impresa, alla difficoltà di reperire risorse in quell’ambito, etc.).
Patto di stabilità nel rapporto di lavoro: che succede se viene violato?
Se una parte viola il patto di stabilità, l’altra parte potrà chiedere il risarcimento del danno determinato da tale inadempimento.
In particolare, se a violare il patto è il datore di lavoro, il danno subito dal lavoratore è agevolmente quantificabile ed è pari alla perdita retributiva subita nel periodo residuo.
Facciamo un esempio.
Un dipendente viene assunto con una retribuzione mensile di 2.000 euro al mese ed un patto di stabilità di 24 mesi. Dopo 10 mesi il datore di lavoro, violando la clausola di stabilità, licenzia il lavoratore. Quest’ultimo potrà chiedere un risarcimento del danno pari ad euro 28.000, calcolato moltiplicando la retribuzione mensile per il numero di mensilità (14) di durata minima garantita che residuavano.
Nel caso di inadempienza da parte del lavoratore, il risarcimento è più difficile da provare e quantificare; proprio per questo, spesso, viene inserita una penale con cui il danno è quantificato in anticipo.
note
[1] Art. 2118 cod. civ.
[2] Art. 2119 cod. civ.
[3] Cass. n. 14457 del 9.06.2017.
La clausola di stabilità parte dal primo giorno di lavoro o parte alla fine del periodo di prova?