I diritti di chi rientra al lavoro dalla maternità


Va risarcita la dipendente che, finito il periodo di congedo, si ritrova a svolgere un’attività agli ordini di un collega di pari grado.
Sei rimasta a casa in maternità e, al momento di rientrare al lavoro, ti sei sentita dire che il tuo ufficio sarà un altro e che le tue mansioni vengono svolte da un’altra persona: dovrai limitarti ad un’attività che richiede un impegno inferiore e minori responsabilità. In altre parole: ti senti demansionata. L’azienda si giustifica dicendo che, in realtà, lo fa per venirti incontro, considerate le tue nuove esigenze da mamma. Ma a te c’è qualcosa che non quadra in tutto questo discorso. E ti chiedi quali siano i diritti di chi rientra al lavoro dalla maternità, se davvero il tuo datore può fare una cosa del genere.
Recentemente, la Cassazione ha ribadito un concetto previsto dalla legge: la donna lavoratrice che ha usufruito del congedo per maternità, che si tratti di quello obbligatorio o dell’assenza volontaria, ha il diritto di mantenere non solo il posto ma anche le stesse mansioni che aveva prima di partorire. In caso contrario, ha la facoltà di chiedere un risarcimento. Vediamo sinteticamente, anche alla luce di questa ordinanza della Suprema Corte, quali sono i diritti di chi rientra al lavoro dalla maternità.
Indice
Congedo di maternità: che cos’è?
Per congedo di maternità si intende il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro della dipendente in occasione della fase finale della sua gravidanza e dei primi mesi di vita del figlio. Complessivamente, la donna lavoratrice ha diritto a cinque mesi di assenza obbligatoria, che possono essere distribuiti in questi modi:
- i due mesi precedenti la data presunta del parto ed i tre mesi successivi alla nascita del figlio;
- il mese precedente la data presunta del parto ed i quattro mesi successivi alla data di nascita del figlio, purché la dipendente abbia un’attestazione medica che certifichi l’idoneità al lavoro fino all’ottavo mese di gravidanza senza rischi per la salute della donna e/o del nascituro.
La durata complessiva del congedo di maternità può essere superiore ai cinque mesi solo nel caso in cui il parto avvenga prima dei due mesi precedenti la data presunta (ad esempio, se il bambino nasce per qualsiasi motivo prima di finire il settimo mese di gravidanza). In questo caso, la lavoratrice ha diritto alla copertura del congedo:
- tutti i giorni che trascorrono tra la data effettiva del parto e la data prevista per l’inizio dell’assenza obbligatoria (due mesi antecedenti quella che era la data presunta del parto);
- i cinque mesi previsti per la normale maternità.
Congedo di maternità: a chi spetta?
Come conferma l’Inps nella sezione dedicata, il congedo di maternità spetta alle lavoratrici:
- dipendenti ed assicurate all’Inps anche per la maternità (comprese anche quelle ex Ipsema);
- apprendiste, operaie, impiegate e dirigenti con un rapporto di lavoro in corso all’inizio del congedo;
- disoccupate e sospese secondo quanto disposto dal Testo Unico 151 del 2001;
- agricole, sia con contratto a tempo determinato sia indeterminato, in possesso della qualità di bracciante, iscritte agli elenchi nominativi annuali per almeno 51 giornate di lavoro agricolo;
- colf e badanti;
- a domicilio;
- impegnate in attività socialmente utili o di pubblica utilità;
- iscritte alla Gestione Separata Inps e non pensionate, in possesso del requisito contributivo per finanziare le prestazioni economiche di maternità;
- dipendenti in amministrazioni pubbliche.
Congedo di maternità: quali diritti al rientro?
Veniamo al punto: che cosa spetta alla lavoratrice che ha terminato il periodo di congedo e quali sono i diritti di chi rientra dalla maternità? Li elenchiamo brevemente:
- il diritto di conservare il posto di lavoro: significa che la dipendente non può essere licenziata dall’inizio della gravidanza fino al compimento dell’anno di età del bambino. Il rapporto può finire solo per giusta causa, perché termina il contratto a tempo determinato o in caso di cessazione dell’attività dell’azienda;
- il diritto di rientrare nella stessa unità produttiva: significa che la dipendente deve riprendere l’attività nel medesimo luogo in cui era impegnata al momento di restare a casa in congedo oppure in un’altra unità dello stesso Comune. Il tutto, purché non si crei una situazione di maggiore disagio rispetto a quella esistente prima del congedo. In tal luogo, deve restare almeno fino al compimento dell’anno di età del bambino;
- il diritto a mantenere la stessa mansione: significa che la dipendente, al rientro, deve svolgere lo stesso lavoro o una mansione equivalente rispetto a prima del congedo;
- il diritto a non essere trasferita: significa che non può essere chiesto alla lavoratrice di lavorare in un’altra sede fino al compimento dei tre anni di età del bambino senza il suo consenso;
- il diritto a dare le dimissioni senza preavviso: la richiesta presentata durante i primi tre anni di vita del bambino va convalidata dal Servizio ispezione della Direzione territoriale del Lavoro e la dipendente non è tenuta a rispettare il periodo di preavviso. La lavoratrice avrà anche, in questo caso, diritto alla Naspi.
Cambio di mansioni al rientro della maternità: c’è risarcimento?
Secondo una recente ordinanza della Cassazione [1], deve essere risarcita la dipendente che viene demansionata al rientro della maternità. La Suprema Corte ha condiviso il ragionamento della Corte d’Appello nel condannare un datore di lavoro al risarcimento dei danni patrimoniali di un’impiegata tornata in ufficio dopo il congedo e costretta a lavorare agli ordini e sotto il controllo di un collega.
In altre parole, secondo l’ordinanza, un demansionamento in piena regola che non può rispondere alla «riorganizzazione aziendale» con cui ha tentato di giustificarsi il datore. Il quale, peraltro, è tenuto a provare l’esatto adempimento che grava su di lui «o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova della sua giustificazione per il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, ancora, per impossibilità della prestazione derivante da una causa a sé non imputabile».
note
[1] Cass. ord. n. 20253/2021 del 15.07.2021.