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Raccontare la vita sessuale di un altro sul web è reato?

26 Luglio 2021 | Autore:
Raccontare la vita sessuale di un altro sul web è reato?

Cosa si rischia se si svelano su Internet le abitudini più intime di una persona o si commentano con leggerezza sui social?

Ci sono due luoghi che si identificano in modo particolare con la parola «intimità»: il bagno e il letto. Se di quello che succede abitualmente nel primo interessa davvero poco agli altri, è quello che si fa nel secondo a destare maggiore curiosità. E non si parla, ovviamente, di chi ama spiare il momento in cui si dorme. Attenzione, però, a quello che si svela e, soprattutto, ai commenti sarcastici o troppo piccanti su ciò che si viene a sapere: raccontare la vita sessuale di un altro sul web è reato di diffamazione. Anche se a farlo è qualcuno che ritiene di potersi appellare al diritto di cronaca. Lo ha deciso recentemente la Cassazione [1].

Il Regolamento europeo sulla privacy considera come dato particolare (quello che prima del Gdpr si chiamava dato sensibile), tra le tante cose, la vita sessuale delle persone. Significa che questa sfera va protetta e che chi si mette a raccontare in giro o sui social le abitudini e le prestazioni a letto di qualcun altro, magari condendo la storia con commenti più o meno coloriti, rischia una condanna penale. Vediamo in quali termini, prendendo come spunto la sentenza della Cassazione.

Gdpr: quali sono i dati sensibili?

Il Regolamento europeo sulla privacy [2], noto come Gdpr, vieta il trattamento dei dati personali ad eccezione di quei casi in cui il diretto interessato abbia dato il proprio esplicito consenso al trattamento o in situazioni di necessità per assolvere determinati obblighi ben precisi.

I dati che il Gdpr vieta di trattare sono quelli che possono rivelare:

  • l’origine razziale o etnica;
  • le opinioni politiche;
  • le convinzioni religiose o filosofiche;
  • l’appartenenza sindacale;
  • i dati genetici e i dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica;
  • i dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona.

Nello specifico, il Regolamento europeo ha tenuto conto dello sviluppo delle nuove tecnologie e dell’enorme diffusione delle reti sociali, ridefinendo il concetto di «dati personali». Il Gdpr inserisce in questo contesto qualsiasi tipo di informazione che riporti ad una singola persona attraverso caratteristiche, relazioni, abitudini, abitudini di vita, ecc. «Indizi» più o meno palesi come immagini, atti relativi a procedimenti giudiziari o condanne a carico del diretto interessato, un indirizzo Ip che possa consentire di rintracciare una persona e di invadere la sua privacy, un sistema per svelare i movimenti e le frequentazioni di qualcuno, ecc.

Che cos’è il reato di diffamazione?

Si diceva che, secondo la Cassazione, raccontare la vita sessuale di un altro sul web è reato di diffamazione. Di che cosa si parla e che cosa si rischia?

Il Codice penale lo spiega così: «Chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro» [3].

Quando è diffamazione raccontare la vita sessuale di altri?

La Suprema Corte sostiene, nella sentenza a cui abbiamo fatto riferimento e che puoi trovare in fondo a questo articolo, che svelare sul web il rapporto sessuale di una persona, aggiungendo anche dei commenti piuttosto espliciti e volgari, configura il reato di diffamazione.

La Cassazione si è occupata del caso di un uomo ritenuto colpevole di aver pubblicato e commentato a modo suo in un sito Internet a lui riconducibile una sentenza che metteva in evidenza alcuni passaggi della vita affettiva di una donna, coinvolta in una relazione con un suo capo ufficio. Non mancavano alcuni riferimenti alle performances sessuali della signora. Quello che gli Ermellini hanno notato nella pubblicazione oggetto del procedimento è stata la voglia di offendere la reputazione della donna. Da qui la condanna per diffamazione.

Tant’è, aggiungono i giudici di legittimità, che la violazione della privacy passa in secondo piano rispetto alla lesione dell’onore e della reputazione della vittima, soprattutto quando non ci si limita a raccontare certi particolari intimi ma si va oltre, aggiungendo qualche frase ironica, volgare, spregiativa o, addirittura, dando una sorta di «voto» alla performance sessuale della persona offesa. Espressioni, si legge nella sentenza della Cassazione, che rappresentano «un’aggressione alla sfera personale della donna, di cui si richiama in termini gratuiti, umilianti o dileggianti, la relazione sentimentale intrattenuta».

Si esclude, quindi, che possa essere vista come un legittimo diritto di critica o come una nota satirica la pubblicazione delle abitudini sessuali di una persona ed i relativi commenti sulle sue prestazioni a letto. Attenzione, dunque, a cadere nella tentazione di seguire l’onda del cattivo gusto sui social ritenendosi nel diritto di poter scrivere ciò che si vuole a proposito della sfera più intima di qualcuno. Cassazione docet.


note

[1] Cass. sent. n. 28634/2021.

[2] Regolamento Ue n. 679/2016 noto come Gdpr.

[3] Art. 595 cod. pen.

Cassazione penale, sez. V, udienza 1 giugno 2021 (depositata il 22 luglio 2021), n. 28634

Presidente De Gregorio – Relatore Caputo

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza deliberata il 26/02/2020, la Corte di appello di Cagliari ha confermato la sentenza in data 11/05/2018 con la quale il Tribunale di Cagliari aveva dichiarato C.G.L. responsabile del reato di diffamazione aggravata, per aver offeso la reputazione di D.T. pubblicando su un sito internet da lui controllato una sentenza del Tribunale di (…) nei confronti di D. evidenziando passi riferiti alla vita affettiva della stessa e commenti sulla vicenda; l’imputato era stato condannato alla pena pecuniaria di giustizia. 2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Cagliari ha proposto ricorso per cassazione C.G.L. , attraverso il difensore Avv. Roberto Sorcinelli, articolando tre motivi e depositando motivi nuovi, gli uni e gli altri di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1. 2.1. Il primo motivo denuncia erronea applicazione degli artt. 51 e 595 c.p., e D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, in quanto erroneamente la Corte di appello ha ritenuto diffamatoria la pubblicazione di una sentenza penale e ha affermato che il carattere diffamatorio della pubblicazione deriverebbe dal fatto che nella sentenza si faceva riferimento a una relazione sentimentale della donna, con conseguente lesione della privacy, laddove l’art. 595 c.p., non tutela il diritto alla privacy e la notizia di una relazione sentimentale non può essere ritenuta diffamatoria. 2.1.1. Il motivo aggiunto rimarca l’inconferente riferimento della sentenza impugnata alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, tanto più che l’unico oscuramento chiesto da D. riguardava la sentenza del Tribunale civile che aveva confermato la lesione della sua privacy, laddove nel caso di specie è stato osservato il limite del diritto di cronaca. 2.2. Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine mancata applicazione della scriminante del diritto di critica e di satira, in quanto: era stata la sentenza nei confronti di D. a ritenere rilevante la relazione sentimentale, mentre il riferimento a “perfomances sessuali” non è diffamatorio in quanto riferito a persone adulte e legate da una relazione sentimentale e il trasferimento ad altro ufficio è intervenuto successivamente alla sentenza pubblicata, il che conferma la veridicità della “glossa” apposta al testo della sentenza; erroneamente il carattere diffamatorio viene inferito dallo stato d’animo dell’imputato, le cui pungenti critiche si fondavano su fatti storici incontestati, laddove la Corte di appello non ha risposto al motivo di gravame circa il carattere sarcastico delle espressioni contestate. 2.3. Il terzo motivo denuncia, in via subordinata, erronea applicazione degli artt. 595 e 133 c.p., in ordine alla determinazione della pena e alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, nonché dell’art. 131 bis c.p.. 3. Con requisitoria scritta D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, ex art. 23, comma 8, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione Luigi Giordano ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Il difensore del ricorrente ha concluso nel senso dell’assoluzione dell’imputato dal reato ascrittogli ovvero per la sua estinzione per prescrizione.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile. In generale, mette conto rilevare che il ricorso reitera censure proposte dall’atto di appello e disattese dalla Corte distrettuale con motivazione in linea con i dati probatori richiamati ed esente da vizi logici. 2. Il primo motivo e i motivi aggiunti sono inammissibili. I riferimenti alla violazione del diritto alla riservatezza della persona offesa sono svolti dalla sentenza impugnata nella prospettiva di rimarcare come la pubblicazione della sentenza di condanna con le chiose, le evidenziazioni e le aggiunte indicate nell’imputazione, altro non rappresentasse se non un pretesto per offendere l’onore e la reputazione di D.T. . Del tutto in linea è il percorso argomentativo della sentenza di primo grado – richiamata adesivamente dal giudice di appello – che ha rimarcato come gli aspetti relativi alla violazione della privacy fossero marginali a fronte della valenza lesiva della reputazione della persona offesa rivestita soprattutto dal commento apposto da C. sulla sentenza, volto a strumentalizzare la relazione intrattenuta dalla donna con il dirigente dell’ufficio per denigrarne e offenderne l’onore con espressioni deplorevole e volgari. Le doglianze proposte dal ricorrente insistono sui temi collegati alla violazione della privacy, ma, come si è visto, si tratta di questione univocamente estranee al nucleo essenziale della ratio decidendi della sentenza impugnata, il che rende ragione della manifesta inidoneità di tali doglianze a disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516). 3. Del pari inammissibile, per plurime, convergenti ragioni, è il secondo motivo. La Corte distrettuale ha chiarito che le espressioni adoperate da C. rappresentano un attacco, un’aggressione alla sfera personale di D. , di cui si richiama in termini gratuiti, umilianti o dileggianti, la relazione sentimentale intrattenuta; rilievi, questi, conferenti, nell’apparato giustificativo della decisione impugnata, nel senso di escludere la continenza – in disparte la veridicità evocata dal ricorso – delle forme usate e, con esse, la sussistenza della scriminante del diritto di critica. Il ricorso reitera le deduzioni circa la pertinenza delle espressioni adoperate, ma, in tal modo, svilisce indebitamente il rilievo dei giudici di merito circa il significato gravemente lesivo assunto da espressione obiettivamente volgari e dileggianti. Quanto a queste ultime, il ricorso sostiene che il riferimento a “perfomances atletiche e sessuali” non assumerebbe la valenza attribuita dai giudici di merito in quanto riferita a persone adulte e legate da una relazione sentimentale, ma la censura – oltre a implicare, all’evidenza, inammissibili questioni di merito – è del tutto priva di correlazione con il complessivo contesto comunicativo nel quale l’espressione è stata collocata dalle conformi sentenze di primo e di secondo grado. La Corte distrettuale ha poi espressamente escluso che la comunicazione avesse carattere satirico, posto che i riferimenti alla vicenda processuale e al successivo trasferimento erano il pretesto, l’occasione (in questo senso va inteso il riferimento al motivo richiamato dal ricorso) per colpire gratuitamente la figura morale della persona offesa; rilievi, questi, che manifestamente privano le ulteriori doglianze del ricorrente di qualsiasi attitudine a infirmare la valutazione dei giudici di merito. Del resto, la sentenza impugnata richiama espressamente la sentenza di primo grado lì dove quest’ultima rilevava che, ad onta dell’apparente “ufficialità” del sito, nel quale era riportata in grande evidenza l’epigrafe “Ministero del Tesoro Direzione Provinciale del Tesoro Provincia di Sassari” lo stesso era gestito in veste esclusivamente privatistica dall’imputato: rilievi, questi, pure significativi sul piano dell’esclusione della scriminante perché la comunicazione lesiva simulava una solo apparente pertinenza pubblica del sito in realtà del tutto insussistente. 4. Anche il quarto motivo è inammissibile. La determinazione della pena è stata congruamente motivata sulla base dell’elevata carica diffamatoria del contenuto della comunicazione, mentre la conferma del diniego dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche è stata anch’essa puntualmente motivata sulla base della peculiare diffusività delle volgari affermazioni dell’imputato. La lesione alla reputazione della vittima, in uno con la risonanza che ha avuto in ambito lavorativo e professionale convincono il giudice di appello dell’insussistenza dei presupposti applicativi della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.. Le doglianze articolate al riguardo dal ricorso sono manifestamente incapaci di inficiare le valutazioni delle conformi sentenze di merito, dando corpo, al più, a inammissibili questioni di merito. 5. Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso – che precluderebbe comunque la rilevabilità della prescrizione del reato che, secondo la deduzione del ricorrente, sarebbe maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266) – consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in assenza di profili idonei ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento alla Cassa delle ammende della somma, che si stima equa, di Euro 3.000,00. A tutela del diritto alla riservatezza della persona offesa, in caso di diffusione della presente sentenza, andranno omesse le generalità e gli altri dati identificativi.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.


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