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Marito umilia la moglie: è reato? 

28 Luglio 2021 | Autore:
Marito umilia la moglie: è reato? 

Il coniuge che compie prevaricazioni, sopraffazioni e vessazioni sulla donna è responsabile del delitto di maltrattamenti in famiglia. 

Viviamo in un’epoca in cui la parità dei sessi viene proclamata a gran voce, ma spesso non è praticata nei fatti della vita quotidiana. Sono ancora frequenti i “mariti-padroni”, che per gelosia, prepotenza o altri biasimevoli motivi, trattano la moglie come un oggetto di loro proprietà o, alla meno peggio, come un animale domestico. Il copione è sempre lo stesso: l’uomo ha un atteggiamento di supremazia e di prevaricazione e pretende che la donna gli sia sempre e comunque sottomessa.

Per fortuna la legge e la giurisprudenza si adeguano ai tempi: ora la Cassazione afferma sempre più frequentemente che il marito che umilia la moglie commette reato. Si tratta del delitto di maltrattamenti in famiglia. Nella lettura moderna, questo illecito non richiede necessariamente aggressioni fisiche. Bastano, invece, minacce ed offese, purché siano abituali e continuative e provochino alla donna sofferenze morali. 

Quindi, bisogna fare attenzione anche alle parole: quando il marito umilia la moglie in modo sistematico e costante si rende comunque responsabile del reato di maltrattamenti, anche se non alza le mani, perché con il suo ostentato disprezzo offende la dignità della donna e la ferisce psicologicamente nella sua integrità di persona umana. La vittima può denunciare il suo persecutore, che rischia una pena detentiva fino a cinque anni di carcere e anche di più, se dal fatto derivano lesioni. 

Quali sono i doveri del marito verso la moglie? 

Con il matrimonio nascono una serie di diritti e di obblighi tra i coniugi [1]. Questi doveri sono reciproci e paritari, senza alcuna distinzione tra uomo e donna, e riguardano essenzialmente: 

  • la fedeltà; 
  • l’assistenza morale e materiale; 
  • la collaborazione nell’interesse della famiglia; 
  • la coabitazione nella casa familiare; 
  • la contribuzione ai bisogni della famiglia in proporzione alle proprie capacità economiche e di lavoro (compreso quello casalingo). 

La violazione di uno qualsiasi di questi doveri può comportare, a livello civile, la separazione con addebito; la conseguenza è che il coniuge al quale è riconosciuta l’esclusiva responsabilità della fine del matrimonio perde il diritto al mantenimento. 

A livello penale, invece, il mancato rispetto dei doveri di assistenza, collaborazione e contribuzione economica può far scattare il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, che è punibile a querela della persona offesa (ma si procede d’ufficio se il fatto riguarda i figli minori) e prevede la pena della reclusione fino a un anno o della multa fino a 1.032 euro [2]. 

Il reato di maltrattamenti in famiglia 

Il reato di maltrattamenti in famiglia viene commesso da «chiunque maltratta una persona della famiglia» [3]. Non c’è una puntuale specificazione delle condotte illecite, che dunque possono essere compiute in molteplici modi. La giurisprudenza si è interrogata a lungo sulla portata del termine «maltrattare» e, ultimamente, ne sta dando un’interpretazione molto estensiva, come dimostra l‘ultima pronuncia della Corte di Cassazione intervenuta sul tema [4] che ora analizzeremo nei suoi aspetti salienti e puoi leggere per esteso nel riquadro “sentenza” al termine di questo articolo.  

Secondo la Suprema Corte, il reato di maltrattamenti in famiglia si configura quando avviene una pluralità di episodi che provocano a chi li subisce sofferenze fisiche o morali. Non basta, quindi, un unico episodio (che comunque potrebbe integrare da solo altri reati, come le percosse, le lesioni o la violenza privata). Per i maltrattamenti è essenziale che queste condotte illecite siano abituali, e non sporadiche: deve emergere una volontà di sopraffazione sistematica e continua. Il reato può essere commesso non solo da un coniuge in danno dell’altro, ma anche tra conviventi legati in un’unione stabile.

Maltrattamenti: pene per l’autore e tutela della vittima

Il reato di maltrattamenti, nell’ipotesi base, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, ma se dal fatto deriva: 

  • una lesione personale grave, la pena sale da quattro ad otto anni; 
  • una lesione personale gravissima, la reclusione va da sette a quindici anni; 
  • la morte della vittima, la reclusione è da un minimo di dodici anni a un massimo di vent’anni. 

La vittima di maltrattamenti ha anche diritto: 

  •  al risarcimento dei danni materiali e morali patiti in conseguenza della condotta delittuosa; 
  • al gratuito patrocinio senza limiti di reddito;
  • a indagini più celeri attraverso la procedura del “Codice rosso”, che prevede l’ascolto della persona offesa da parte degli inquirenti entro tre giorni dalla denuncia. 

Umiliazioni e vessazioni del marito alla moglie: conseguenze

Nell’ultima sentenza della Corte di Cassazione [4], il caso deciso riguardava un uomo che aveva sottoposto la moglie a continue umiliazioni e vessazioni, offendendola e minacciandola ripetutamente e, addirittura, impedendole di avere normali relazioni sociali. Il marito ha tentato di difendersi sostenendo che le condotte addebitategli erano state sporadiche e, dunque, «prive del carattere dell’abitualità», e che la relazione coniugale era «contraddistinta da un’accesa conflittualità e da reciproche offese», ma i giudici di piazza Cavour hanno respinto questa versione e hanno confermato la condanna per il delitto di maltrattamenti.

Gli Ermellini hanno sottolineato in sentenza che «il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto da percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali». L’essenziale – precisa il Collegio – è che tali condotte «siano in grado di realizzare quello stato di umiliazione ed abituale prostrazione della vittima che tipicamente contraddistingue la nozione stessa di maltrattamenti in famiglia». 

Così i giudici di piazza Cavour non hanno riconosciuto nessun valore scriminante agli «atteggiamenti mentali» dell’uomo, che pretendeva di condurre «una vita familiare improntata all’attribuzione di un ruolo di supremazia al marito e di subalternità alla moglie»; anzi, proprio ciò ha contribuito a delineare la sua personalità in termini negativi.  


note

[1] Art. 143 Cod. civ.

[2] Art. 570 Cod. pen.

[3] Art. 572 Cod. pen.

[4] Cass. sent. n. 29190 del 26.07.2021.

Autore immagine: canva.com/

 

Cass. pen., sez. VI, ud. 30 giugno 2021 (dep. 26 luglio 2021), n. 29190 

Presidente Mogini – Relatore Di Geronimo 

 Ritenuto in fatto 

Con ricorso ritualmente proposto, T.M. impugnava la sentenza della Corte di appello di Perugia che, riformando parzialmente quella di primo grado in relazione alla quantificazione della pena, confermava la condanna del predetto in ordine ai reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, riconoscendo l’aumento per la contestata recidiva infraquinquennale. 1.1 La sentenza impugnata, richiamando e recependo le considerazioni svolte in quella di primo grado, dava atto della sussistenza di condotte maltrattanti protrattesi per un arco temporale particolarmente ampio, avendo il T. abitualmente tenuto condotte minacciose ed offensive nei confronti della moglie, F.S., impedendole di tenere relazioni sociali e facendola oggetto di ripetute violenze e vessazioni. In tale contesto, si verificano anche alcuni specifici episodi culminati con le lesioni personali descritte nell’imputazione. 2. Avverso la suddetta pronuncia, il ricorrente propone due motivi di ricorso, il primo articolato come vizio di motivazione ed il secondo come violazione di legge. Tali motivi, invero, sostanzialmente si traducono nella formulazione di medesime contestazioni, essendosi dedotto che: – le condotte addebitate all’imputato sarebbero prive del carattere dell’abitualità, come testimoniato dal fatto che nello stesso capo di imputazione si indicano solo tre episodi specifici, peraltro commessi ad intervalli temporali particolarmente ampi: il primo nel […], il secondo nel […] e l’ultimo nel […]; – le restanti condotte vessatorie risulterebbero del tutto generiche e, soprattutto, andavano lette nel contesto della relazione coniugale contraddistinta da un’accesa conflittualità e da reciproche offese; – la condanna si sarebbe fondata essenzialmente sulla ritenuta sussistenza di un atteggiamento mentale del T. dimostrativo di una personalità incline ad assumere atteggiamenti vessatori e maltrattanti, senza che per ciò solo siano stati individuate le concrete condotte poste in essere ai danni della moglie; – in maniera del tutto immotivata non sarebbero state riconosciute le attenuanti generiche, negate sulla scorta di valutazioni non contemplate dall’art. 62 bis c.p. 

 Considerato in diritto 

Il ricorso è, nel suo complesso, manifestamente infondato. 1.1. Occorre premettere che, in base all’art. 606 c.p.p., lett. e), il ricorso per cassazione è ammesso unicamente per far valere la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, vizi che devono risultare dal testo del provvedimento impugnato e che non possono essere dedotti sulla base di una diversa valutazione del compendio probatorio acquisito nel corso del giudizio, ove non riversato in sentenza. La suddetta norma è costantemente interpretata nel senso di ritenere che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri,Rv. 273217; Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018,Barraglia, Rv. 275100; Sez. 4, 1219 del 14/09/2017, Colomberotto, Rv. 271702). Quanto detto comporta che è preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601). 2. Applicando tali parametri, va rilevata la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso, articolati sia come vizio di motivazione che violazione di legge, con i quali il ricorrente sostiene l’erroneità della decisione impugnata, nella misura in cui ha riconosciuto la sussistenza dell’abitualità della condotta illecita. Si sostiene, infatti, che già sulla base del capo di imputazione, sarebbero indicati solo tre episodi specifici in occasione dei quali l’imputato avrebbe percorso la persona offesa, cagionandole anche delle lesioni personali. Tali episodi, tuttavia, si sarebbero svolti a distanza di anni gli uni dagli altri, il che sarebbe del tutto incompatibile con l’abitualità richiesta dal reato di cui all’art. 572 c.p. 2.1. Il motivo di ricorso propone una lettura parziale degli elementi valorizzati nella sentenza di condanna e non si confronta con la motivazione nella parte in cui dà ampiamente conto di come le condotte maltrattanti siano state abituali, continuative e si siano protratte per tutto il periodo della convivenza. I singoli episodi specificati nell’imputazione, infatti, individuano solo i casi in cui i maltrattamenti si sono manifestati con condotte di aggressione fisica cui sono conseguite lesioni personali, ma non esauriscono certamente la condotta contestata. Di tale aspetto, chiaramente evidenziando nella sentenza impugnata, il ricorrente non tiene minimamente conto, giungendo a sostenere che le vessazioni subite dalla persona offesa non assumerebbero rilievo penale se non nei casi in cui la condotta si sia tradotta in “atti di costrizione”. Si tratta di una lettura del contenuto del reato di maltrattamenti in famiglia che non trova riscontro nella consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali (Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, Rv. 256962). Quanto detto comporta che il reato in esame può essere integrato sia mediante la commissione di condotte costituenti autonome ipotesi delittuose, come tipicamente avviene nel caso in cui la persona offesa subisca lesioni personali, ma anche a seguito di condotte genericamente vessatorie, purché queste siano in grado di realizzare quello stato di umiliazione ed abituale prostrazione della vittima che tipicamente contraddistingue la nozione stessa di maltrattamenti in famiglia. In tal senso, è stato ribadito anche recentemente che il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sé, non costituiscono reato, posto che il termine “maltrattare” non evoca la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art. 572 c.p. (Sez. 6, n. 13422 del 10/3/2016, Rv. 267270). 2.2. Manifestamente infondata è anche l’ulteriore doglianza secondo cui la sussistenza del reato ed il diniego delle attenuanti generiche sarebbero conseguiti ad un “giudizio su atteggiamenti mentali e/o fatti simbolici”, piuttosto che su effettive condotte delittuose. Anche tale motivo è agevolmente smentito dalle considerazioni in precedenza svolte, lì dove si è sottolineato come il giudizio di responsabilità è stato espresso sulla base di una valutazione della complessiva condotta vessatoria tenuta dal T. nei confronti della F.. Il fatto che si sia ritenuto che tale condotta fosse il frutto di una vita familiare improntata all’attribuzione di un ruolo di “supremazia” al marito e di “subalternità” alla moglie, nulla toglie alla rilevanza penale delle stesse ma, anzi, contribuisce a delineare la personalità dell’imputato, aspetto sicuramente rilevante ai sensi dell’art. 133 c.p. e, quindi, correttamente valutato ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, secondo un giudizio non sindacabile in sede di legittimità, ove la motivazione – come nel caso di specie – non presenti aspetti di manifesta illogicità o contraddittorietà. 3. Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. 

  P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. 

Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Perugia con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato. 

 In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52. 


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