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Progressione di carriera e discriminazione tra part-time e full-time

30 Luglio 2021
Progressione di carriera e discriminazione tra part-time e full-time

Avanzamento carriera: il punteggio può tenere conto solo del tipo di contratto e delle ore lavorate. 

Legge e Costituzione vietano qualsiasi discriminazione tra lavoratori con contratto part-time e full-time. Ciò vale in tutti gli ambiti del rapporto di lavoro, primo tra tutti il riconoscimento della retribuzione: la busta paga va calcolata secondo gli stessi criteri (anche nel caso di lavoro notturno [1]). In generale, qualsiasi diritto riconosciuto ai dipendenti a tempo pieno va attribuito anche a quelli a tempo parziale.

Lo stesso principio deve applicarsi anche in caso di progressione di carriera: quando l’azienda decide di effettuare un bando per l’avanzamento di posto può certo tenere in considerazione l’esperienza maturata dal candidato, ma questa valutazione non può ridursi solo alle ore lavorate. È quanto chiarito, di recente, dalla Cassazione [2] che, così facendo, si allinea agli orientamenti della Corte di giustizia europea in tema di discriminazione sui luoghi di lavoro.

Nella pronuncia in commento, la Corte ha spiegato quali sono le implicazioni tra progressione di carriera e discriminazione tra part-time e full-time. Ecco alcune importanti precisazioni che emergono dalla sentenza.

Il principio base affermato dai giudici supremi è il seguente: il bando interno per l’avanzamento di carriera è discriminatorio se l’esperienza di servizio maturata viene calcolata in base alle ore effettivamente lavorate perché penalizza i lavoratori part-time e, soprattutto, le donne che in larga parte optano per questa modalità. Il giudice per applicare in modo corretto il metodo di comparazione deve individuare in quale percentuale incide su uomini e donne.  

Dunque, l’attribuzione di un punteggio proporzionato al regime orario (part time o tempo pieno) ai fini di una promozione può costituire una forma di discriminazione indiretta se, nella sua concreta applicazione, colpisce solo una categoria di dipendenti (nella specie, quelle di sesso femminile).

A presentare ricorso alla Cassazione è stata una dipendente dell’Agenzia delle Entrate, sentitasi discriminare in occasione di un concorso interno bandito dall’amministrazione per attribuire una progressione economica; nel bando di concorso, era stato previsto un punteggio relativo alla “esperienza di servizio”, riproporzionato per i lavoratori part time in ragione del minore orario di lavoro svolto. In pratica, tra i requisiti previsti per l’accesso, l’esperienza di servizio maturata andava calcolata per i lavoratori part-time in proporzione alla minore attività svolta.

Secondo la lavoratrice tale regola produceva una discriminazione di fatto nei confronti delle lavoratrici donne, che utilizzavano in larga misura l’orario a tempo parziale.

In primo e secondo grado, la donna non è riuscita a spuntarla. Secondo i giudici, il criterio del riproporzionamento del punteggio in base al tipo di contratto di lavoro, adottato dal datore di lavoro, non può costituire una discriminazione: esso infatti si applicherebbe a tutti i lavoratori, indipendentemente dal sesso. 

La Cassazione ha invece sposato un’interpretazione opposta, ribaltando l’esito del giudizio. Secondo la Suprema Corte, l’utilizzo di un criterio oggettivo e apparentemente neutro come il punteggio legato all’anzianità di servizio, riparametrato in relazione all’orario di lavoro, può risultare illegittimo se in concreto penalizza la maggioranza delle donne.

Ciò che bisogna considerare – spiega la Cassazione – non è tanto il trattamento applicato (certamente corretto sul piano formale) ma l’«effetto» discriminatorio che esso può produrre. Insomma, nel momento in cui si adotta un bando che tiene conto dell’esperienza maturata dai lavoratori e, a tal fine, valuta le ore di lavoro, bisogna verificare quanti dipendenti di sesso maschile risultano danneggiati dall’applicazione del criterio dell’anzianità riproporzionata (in quanto lavoratori part time) e quante dipendenti di sesso femminile sono colpite dall’applicazione del medesimo criterio. Se da tale confronto emerge una percentuale significativamente prevalente di donne, si è in presenza di una discriminazione sul luogo di lavoro.

Tutt’al più, dovrà essere il datore a dimostrare che la disposizione adottata riguarda requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, che risponde a un obiettivo legittimo e che i mezzi impiegati sono appropriati e necessari [3].


note

[1] Cassazione civile sez. lav., 09/03/2017, n.6087

[2] Cassazione civile sez. lav. sent. n. 21801/2021.

[3] Ossia la sussistenza della causa di giustificazione prevista dall’articolo 25, comma 2, del Dlgs. n. 198/06.


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