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Parto anonimo: quali diritti ha il figlio? 

11 Agosto 2021 | Autore:
Parto anonimo: quali diritti ha il figlio? 

Limite al diritto della madre a rimanere segreta: è possibile l’interpello del genitore biologico per avere informazioni sanitarie su malattie trasmissibili. 

La nascita di un bambino è un evento lieto, ma non per tutti. Alcune madri in grave difficoltà economica o in stato di disagio psicologico decidono di mantenere il segreto sulla loro identità. Così quando partoriscono lasciano il bambino nell’ospedale o nella clinica dove è nato, ricorrendo al parto in anonimato. Nell’atto di nascita, verrà scritto che il figlio è «nato da donna che non consente di essere nominata». È una possibilità offerta dalla legge che, evidentemente, tende ad evitare aborti o abbandoni del neonato. 

Ma se da un lato c’è questo diritto della donna a partorire in anonimato, bisogna anche riconoscere i diritti del figlio, soprattutto quando crescerà e diventerà adulto e magari, per vari motivi, vorrà conoscere il nome di sua madre e cercherà di risalire alla sua identità. Il problema è come bilanciare questi opposti interessi. Quali diritti ha il figlio di un parto anonimo?

La materia è stata oggetto, negli anni recenti, di molteplici interventi della Cassazione ed anche della Corte Costituzionale, nel tentativo di bilanciare gli opposti interessi della madre a rimanere segreta e del figlio a svelarne l’identità quando ciò è necessario per esercitare i suoi diritti, come quello alla salute. In alcuni casi, infatti, occorre sapere se la madre era portatrice di malattie ereditarie o di altre patologie trasmissibili alla prole. Ora, la Corte di Cassazione ha affermato che questo diritto va tutelato, sia pure con appositi accorgimenti per preservare l’anonimato della madre, a meno che lei stessa non revochi tale scelta compiuta al momento del parto. 

Parto anonimo: cos’è e come funziona?

La legge [1] consente alla madre di partorire in anonimato e di non riconoscere il bambino al momento della nascita. Se la donna dichiara questa volontà, la sua identità rimarrà segreta fino alla sua morte. Il certificato di nascita del bambino riporterà la dicitura «nato da donna che non consente di essere nominata».

La dichiarazione della madre deve essere espressa al Comune entro 10 giorni dalla nascita del bambino (il termine è ridotto a 3 giorni se la dichiarazione viene fatta in ospedale o in clinica) e può essere raccolta dal medico o dall’ostetrica che ha assistito al parto. 

L’adozione del bambino non riconosciuto 

Il bambino non riconosciuto dalla madre biologica viene posto in stato di adottabilità [2] da parte del tribunale per i minorenni. In questo modo, sarà possibile individuare una coppia adottante e garantirle la possibilità di crescere in una famiglia.  

Con l’adozione il bambino assumerà lo status di figlio legittimo dei genitori che lo hanno adottato. Permane il divieto di riportare negli atti i dati identificativi della madre biologica, la quale continua a rimanere segreta: non può essere nominata e la sua identità non può essere rivelata.  

La normativa sulla privacy [3] prevede che, prima che siano trascorsi cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto anonimo, la richiesta di accesso ai dati della cartella clinica «può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile». 

Diritto del figlio a conoscere l’identità della madre 

Nonostante il diritto alla riservatezza della donna che ha partorito in anonimato, il figlio ha diritto a conoscere l’identità della madre, ma solo dopo la sua morte e con i limiti che ora ti esporremo. Inoltre, il figlio può apprendere i dati sanitari della madre anche quando ella è ancora in vita, quando ciò è necessario per ragioni di salute, fermo restando il divieto di fornire informazioni che consentano la sua identificabilità: lo ha affermato una nuova sentenza della Cassazione [4]. 

La Suprema Corte sottolinea che «il diritto alla conoscenza biologica delle proprie origini segue una logica anzitutto identitaria, rappresentando quello all’identità personale un diritto fondamentale riconosciuto a ciascun essere umano, ma può nascere anche da un bisogno di salvaguardia della salute e della vita del richiedente, sotteso alla necessità di individuare, ad esempio, particolari patologie di tipo genetico, per le quali sia necessaria un’anamnesi familiare». 

Così il diritto di accesso del figlio alle informazioni riguardanti la madre deve essere esercitato – precisa la sentenza  «sulla base di un quesito specifico, non esplorativo, relativo a specifici dati sanitari e con l’osservanza di tutte le cautele necessarie a garantire la massima riservatezza e quindi la non identificabilità della madre biologica».

L’interpello del figlio alla madre per rivelare la sua identità

La norma della legge sulle adozioni che vietava l’accesso alle informazioni da parte dell’adottato se la madre aveva dichiarato di non voler essere nominata è stata dichiarata incostituzionale [5] nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice, in tal senso richiesto dal figlio adottivo, di interpellare la madre che aveva scelto di rimanere anonima.

La Cassazione era già intervenuta sul tema con una pronuncia a Sezioni Unite [6] affermando che «sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione», purché ciò avvenga «con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità». 

Quindi, se la madre vivente non intende revocare la dichiarazione di anonimato fatta al momento del parto, non è possibile superare questa sua perdurante volontà, a meno che non occorra acquisire dati riguardanti malattie ereditarie o altre patologie trasmissibili ai figli, in ogni caso garantendo la segretezza sull’identità della madre.

Diritti del figlio: la procedura per esercitarli 

La legge [7] stabilisce che l’adottato che ha raggiunto i 25 anni di età può accedere alle «informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici»; il limite di età è abbassato a 18 anni «se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica». L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. Se l’accesso non comporta «grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente», il tribunale autorizza, con decreto, l’accesso alle notizie richieste.

La prassi instaurata presso la maggior parte dei tribunali per i minorenni prevede solitamente questi passaggi (le linee guida non sono uniformi e possono variare da tribunale a tribunale): 

  • presentazione del ricorso da parte del figlio al tribunale per i minorenni, con il quale chiede, mediante interpello, di conoscere i propri dati di origine e l’identità della madre;
  • incarico del giudice alla polizia giudiziaria per acquisire, presso l’ospedale di nascita, informazioni utili per individuare la madre;
  • se risulta che la donna è vivente, il giudice conferisce incarico ai servizi sociali per convocare la madre a colloquio, informandola che il figlio ha presentato ricorso ed ella può disvelare la sua identità o decidere di mantenerla segreta;
  • se la madre non dà il consenso al disvelamento, le sue generalità non vengono comunicate al figlio: l’anonimato perdura ed egli non può accedere ai dati della sua genitrice (tranne quelli sanitari necessari ad evitare patologie trasmissibili, come ha affermato la Cassazione). 

Il figlio nato da parto anonimo può sapere se ha fratelli o sorelle? 

La Corte di Cassazione in una sentenza [8] ha precisato che «l’adottato ha diritto di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto» .

Ne consegue che la procedura presso il tribunale per i minorenni può essere instaurata anche in relazione ai fratelli o alle sorelle, quando ciò sia necessario per tutelare un diritto del figlio ad apprendere i propri dati genetici e biologici.

Per approfondire leggi “Diritto all’anonimato della madre: ultime sentenze” e “Diritto a conoscere le proprie origini: ultime sentenze“.


note

[1] Art. 30 D.P.R. n. 396/2000.

[2] Art. 28 L. n. 184/1983.

[3] Art. 93, comma 3, D.Lgs. n. 196/2003 (ora D.Lgs. n. 101/2018).

[4] Cass. sent. n. 22497 del 09.08.2021.

[5] C. Cost. sent. n. 278/2013.

[6] Cass. S.U. sent. n. 1946/2017.

[7] Art. 28, co.5 e 6, L. n. 184/1983.

[8] Cass. sent. n. 6963 del 20.03.2018.

Cass. civ., sez. I, ord., 9 agosto 2021, n. 22497

Presidente Genovese – Relatore Iofrida

Fatti di causa

La Corte d’appello di Trieste, con decreto n. crono1.63/2019, depositato il 9/8/2019, ha respinto il reclamo proposto da P.A. avverso il decreto del Tribunale di Trieste, emesso nel 2018, con il quale, nel procedimento promosso dalla P. (nata a (omissis) e successivamente adottata, a seguito di mancato riconoscimento da parte dei genitori naturali e di dichiarazione della madre di non volere essere nominata nell’atto di nascita), per “accesso alle origini”, L. n. 184 del 1983, ex art. 28, al fine di conoscere l’identità della propria madre biologica con successivo interpello per l’eventuale esercizio, da parte della madre, della facoltà di rimuovere il segreto sulla propria identità, e la verifica della persistente volontà di non essere nominata nell’atto di nascita, era stata respinta la sua richiesta. In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che la decisione della madre della reclamante, chiara e consapevole (essendo stata effettuata allorché la stessa era ultratrentenne), di parto con anonimato era stata mantenuta “per oltre cinquant’anni”, non avendo essa in alcun modo palesato un intendimento difforme o intrapreso azioni volte alla ricerca della figlia non riconosciuta, ed inoltre, sulla base di accertamenti disposti dal Comando Provinciale dei Carabinieri, su delega del Tribunale per i minorenni, anche presso i Servizi Sociali ed operatori sanitari, era stato accertato, oltre l’identità dell’anziana madre naturale, “anche che la stessa oggi è in età veneranda essendo ormai quasi novantenne e soprattutto con un grave e deficitario suo stato di salute, anche psichico, che è unito a grosso deperimento fisico (tanto da avere comportato il riconoscimento di invalidità civile al 100%)”, trattandosi di un’anziana signora che soffre tra l’altro anche di depressione bipolare e vive assistita dai famigliari con continuato intervento domiciliare degli operatori sociali, in condizioni di “forte vulnerabilità”, pur non essendo stata oggetto di procedure di interdizione, inabilitazione ovvero per la nomina di amministratore di sostegno, e “debolezza personale”, che giustificava ogni cautela. Ad avviso della Corte di merito doveva quindi essere confermata la statuizione del primo giudice, condividendosi il giudizio circa l’incapacità della madre maturale “di esprimere il consenso a rivelare la propria identità alla figlia”, di guisa che, persistendo il mancato consenso di detta madre biologica ad essere nominata, non poteva essere accolta la richiesta di accesso alle origini, “anche nella forma subordinata” della reclamante. Avverso la suddetta pronuncia, P.A. propone ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost., comma 7, notificato il 13-18/11/2019, affidato a otto motivi, nei confronti dei Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Venezia e presso la Corte Suprema di Cassazione, che non svolgono difese. Il PG non ha formulato conclusioni. La ricorrente ha depositato memoria.

Ragioni della decisione

1. La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la nullità del procedimento e del provvedimento, ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del diritto al contraddittorio (art. 111 Cost.) sulle risultanze istruttorie e del diritto di difesa (art. 24 Cost.), stante la lunga e secretata istruttoria nel procedimento di interpello, pur potendosi garantire la riservatezza dei dati con l’oscuramento degli elementi atti ad identificare la madre biologica; b) con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 183 del 1984, art. 28, il cui comma 7 (frutto della sostituzione della disposizione previgente operata dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, comma 2, c.d. Codice della Privacy, e poi oggetto di intervento additivo da parte della Corte Costituzionale) non poteva essere applicato, in quanto abrogato dal D.Lgs. n. 101 del 2018, art. 27, comma 1, lett. e, n. 3), cosicché avrebbero dovuto applicarsi l’art. 28, commi 5 e 6, che prevedono il diritto dell’adottato, raggiunta l’età di 25 anni, di accedere alle informazioni riguardanti la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici, senza alcuna limitazione; c) con il terzo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, nel testo risultante dalla sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 278/2013, con abnormità del provvedimento impugnato, stante l’omesso interpello della madre biologica, nonostante la stessa non risultasse legalmente incapace o incapace di discernimento, il che, a fronte del diritto fondamentale del figlio alla conoscenza delle proprie origini connesso al dritto all’identità personale e del progressivo affievolimento del diritto della madre a partorire in anonimato, avrebbe potuto giustificare solo il ricorsi ad opportune cautele nelle modalità di espletamento dell’interpello della made biologica, unico soggetto legittimato ad effettuare la scelta in ordine alla rimozione o meno dell’anonimato; d) con il quarto motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, nel testo risultante dalla sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 278/2013, e dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, quale l’ipotesi di decesso della madre biologica, avendo il provvedimento impugnato cristallizzato la scelta per l’anonimato nonostante l’affievolimento delle ragioni di protezione della scelta della madre di partorire in anonimo; e) con il quinto motivo, la nullità del procedimento di interpello, ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, nel testo risultante dalla sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 278/2013, non potendo gli accertamenti, al di fuori delle attività di ricerca della madre biologica, essere compiuti dalla polizia giudiziaria, i cui operanti sono sprovvisti delle qualifiche necessarie in considerazione della delicatezza della situazione, essendo deputati all’interpello della donna unicamente i Servizi sociali ed il giudice onorario delegato; f) con il sesto motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 132 c.p.c., comma 4, e art. 111 Cost., per vizi di motivazione del provvedimento impugnato consistenti nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, in relazione sia alla ritenuta autonomia e consapevolezza della scelta, negli anni ‘60, della madre mantenere il proprio anonimato, sia alla impossibilità per la madre biologica, in ogni caso, di intraprendere iniziative giudiziarie volte alla ricerca della figlia, poiché la dichiarazione di anonimato è considerata dall’ordinamento irreversibile, prima di una richiesta del figlio di eventuale revoca, che comunque non poteva intervenire in epoca anteriore alla sentenza della Corte Costituzionale del 2013; g) con il settimo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 184 del 1983, art. 22, comma 7, e art. 28, comma 7, e art. 32 Cost., in relazione al rigetto della domanda subordinata di accesso alle sole informazioni di carattere sanitario della madre biologica (riguardanti le anamnesi famigliari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’esistenza di malattie ereditarie trasmissibili), nonostante le stesse abbiano natura non disponibile da parte di quest’ultima e tale accesso poteva avvenire con oscuramento dei dati relativi alla identità della madre biologica; h) con l’ottavo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 132 c.p.c., comma 4, e art. 111 Cost., per vizi di motivazione del provvedimento impugnato in relazione al rigetto della domanda subordinata di accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, sorretto da motivazione apparente, avendo la Corte di merito ritenuto la domanda assorbita entro quella principale respinta, con vizio di infrapetizione. 2. Appare necessario premettere alcuni cenni sul quadro normativo e giurisprudenziale avente ad oggetto la questione centrale del giudizio, il giusto bilanciamento tra diritti fondamentali, il diritto dell’adottato all’accesso alle proprie origini e il diritto all’anonimato esercitato dalla madre naturale al momento del parto. 3. Con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (sottoscritta il 20 novembre 1989 e ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176), prima, e con la Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale (sottoscritta il 29 maggio 1993 e ratificata con L. 31 dicembre 1998, n. 476, poi, nella nostra legislazione ordinaria, è stato preso in considerazione il diritto di ciascuno di conoscere le proprie radici. L’impegno assunto in sede internazionale ha trovato attuazione con la modifica della L. n. 184 del 1983, art. 28, ad opera della L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 24, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile). Nel nuovo testo, infatti, pur essendo conservato il divieto di ogni riferimento all’adozione nelle attestazioni dello stato civile, è stato consentito all’adottato di accedere, seppur in presenza di specifiche condizioni, alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei genitori biologici. Il menzionato art. 28, commi 5 e 6, così recitano: “5. L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. 6. Il tribunale per i minorenni procede all’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto; assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare che l’accesso alle notizie di cui al comma 5 non comporti grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente. Definita l’istruttoria, il tribunale per i minorenni autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste”. Il successivo comma 7, come introdotto per effetto della L. 28 marzo 2001, n. 149, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile), sanciva, tuttavia, che “L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”. Nel nuovo testo della disposizione in esame, quindi, pur essendo conservato il divieto di ogni riferimento all’adozione nelle attestazioni dello stato civile, si è consentito all’adottato di accedere, seppur in presenza di specifiche condizioni, alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei genitori biologici. Ed il comma 7, in particolare, aveva suscitato non pochi dubbi interpretativi, specialmente con riguardo alla parte della disposizione normativa che si riferiva al genitore di sangue che “abbia dichiarato di non voler essere nominato”: si obiettava, in riferimento al divieto di accesso alle informazioni là dove la madre non avesse riconosciuto il figlio alla nascita, che la soluzione adottata dal legislatore fosse eccessivamente rigida, non essendo mitigata dalla possibilità di un ripensamento rispetto ad una volontà di anonimato. Il diritto all’anonimato, dopo il richiamo nella L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, in tema di adozioni, è stato ulteriormente ribadito, sia dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), in cui testualmente si riconosce, in relazione alla dichiarazione di nascita, “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”), sia dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 93, commi 2 e 3, (Codice in materia di protezione dei dati personali, in cui si afferma la validità della dichiarazione della madre di non voler essere nominata e si consente l’accesso “al certificato di assistenza del parto ed alla cartella clinica”, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata solo dopo un secolo dalla loro formazione, ovvero prima, durante il periodo di cento anni, solo osservando le opportune cautele per evitare che l’identificazione della madre). Il comma 7 del più volte menzionato art. 28 è stato quindi modificato dalla L. n. 196 del 2003, art. 177, comma 2, (“7. L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1”). La norma richiamata dispone, a sua volta: “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”. Il nostro legislatore, quindi, ha scelto di tutelare senza limitazioni il diritto all’anonimato della madre, in quanto veniva precluso a chiunque e, quindi, anche al figlio, di accedere alle informazioni riguardanti la propria origine, e stabilita, altresì, l’impossibilità di chiedere il rilascio del certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, comprensivi dei dati personali della madre, se non trascorsi cento anni dalla formazione dello stesso documento. L’art. 93, comma 3, (“certificato di assistenza al parto”), del codice in materia di protezione dei dati personali, prevede infatti che, prima dei cento anni dalla formazione del documento (termine da cui l’accesso al testo integrale è consentito a chiunque vi abbia interesse), “la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”. Il D.Lgs. n. 101 del 2018, (Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento UE/2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati) ha, con l’art. 27, abrogato il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, non incidendo invece sul dettato dell’art. 93 citato. Tuttavia, tale abrogazione non spiega alcun rilievo nel presente giudizio (a confutazione di quanto invece esposto dalla ricorrente nel secondo motivo), in quanto l’art. 28, comma 7, nella stesura successiva alla 1.196/2003 (Nuovo Codice della Privacy) – il cui art. 177 è ora abrogato per effetto del D.Lgs. n. 101 del 2018 – con il quale si segnava il limite assoluto all’accesso alle origini in caso di parto anonimo era stato già caducato dall’intervento della Consulta del 2013, che, come si esporrà nel successivo paragrafo, con pronuncia di declaratoria di illegittimità costituzionale cd. additiva di principio, ha altresì introdotto il principio secondo il quale il figlio possa chiedere al giudice di interpellare la madre ai fini della revoca della dichiarazione di anonimato, a suo tempo fatta. Il legislatore non è ancora intervenuto per assicurare piena attuazione al riconoscimento del diritto alle origini del figlio adottivo, attraverso la regolamentazione della procedura di accesso alle origini da parte dell’adottato nato da madre che abbia scelto l’anonimato. 4. Avuto, quindi, riguardo alla giurisprudenza, dopo alcune pronunce negative della Corte Costituzionale, la Corte di Strasburgo, con sentenza del 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia, sulla scia della sentenza Odievre c. Francia n. 42326 del 13/2/2003 (con pronuncia reiettiva del ricorso dell’interessato)), pur non negando il diritto della donna di partorire nell’anonimato e, di conseguenza, la legittimità del limite all’accesso alle informazioni sull’identità della madre biologica dell’adottato, ha criticato la legislazione italiana nella parte in cui non prevedeva un meccanismo di bilanciamento (analogo a quello francese) dei due opposti interessi, entrambi meritevoli di tutela. Ciò faceva sì che la normativa in materia fosse in contrasto con l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui è sancito il “rispetto della vita privata e familiare”, che si declina nel rispetto all’identità personale intesa anche come possibilità di conoscere le proprie origini o, almeno, di acquisire informazioni ad esse relative. Invero, il diritto alla conoscenza biologica delle proprie origini segue una logica anzitutto identitaria, rappresentando quello all’identità personale un diritto fondamentale riconosciuto a ciascun essere umano, ma può nascere anche da un bisogno di salvaguardia della salute e della vita del richiedente, sotteso alla necessità di individuare, ad esempio, particolari patologie di tipo genetico, per le quali sia necessaria un’anamnesi familiare. Con la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2, (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 2, comma 12) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”. La Corte Costituzionale ha evidenziato l’irragionevolezza dell’irreversibilità del segreto conseguente alla scelta di anonimato operata dalla madre partoriente, che risulta in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost.. La Corte ha, tuttavia, precisato che sarà rimesso al legislatore di ” introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto”; per tale ragione, l’art. 28, comma 7, in esame, è stato dichiarato incostituzionale – nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice, in tal senso richiesto dal figlio adottivo, di interpellare la madre che aveva scelto di rimanere anonima (al fine di verificarne l’eventuale perdurante volontà) – ma con la rilevante precisazione che le modalità dell’interpello dovranno essere definite secondo “un procedimento stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza”, in ordine alla verifica da effettuare. La Corte ha fatto ricorso alla tecnica della cd. pronuncia additiva di principio, dichiarando l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto del giudizio (L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7) “nella parte in cui non” (come nelle additive “classiche”) prevede la possibilità di interpellare la madre “attraverso un procedimento stabilito dalla legge”, ma ha indicato il principio generale cui rifarsi nel riempire di contenuti la lacuna riscontrata, rivolgendo al legislatore l’invito a predisporre una disciplina atta a recepire quanto dalla stessa enunciato. Le Sezioni Unite (Cass. 1946/2017), intervenute su questione di primaria importanza (occorrendo chiarire se, a seguito della pronuncia additiva della Consulta, fosse effettivamente necessario un successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento di interpello riservato, in assenza della quale il tribunale per i minorenni, sollecitato dal figlio interessato a conoscere i suoi veri natali, non potrebbe procedere a contattare la madre per verificare se intenda tornare sopra la scelta per l’anonimato fatta al momento del parto o se, al contrario, il principio somministrato dalla Corte Costituzionale con la citata pronuncia, in attesa della organica e compiuta normazione da parte del Parlamento, si presti ad essere, per l’intanto, tradotto dal giudice comune in regole sussidiariamente individuate dal sistema, ancorché solo a titolo precario), hanno enunciato il seguente principio di diritto, nell’interesse della legge: “In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”. Si è rimarcato che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima nella specie, l’implicita esclusione di qualsiasi possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare, dinanzi al giudice, un procedimento atto a raccogliere l’eventuale revoca, da parte della madre naturale, della dichiarazione originaria – ha cessato di avere efficacia, non potendo più “avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, cosicché il giudice non potrebbe “negare tout court al figlio l’accesso alle informazioni sulle origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, al momento della nascita, di voler essere celata dietro l’anonimato”, avendo la Corte Costituzionale introdotto, in via di addizione, il principio secondo il quale il figlio possa chiedere al giudice di interpellare la madre ai fini della revoca della dichiarazione di anonimato, a suo tempo fatta. Così, “per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, la disposizione dell’art. 28, comma 7, non è rimasta invariata, ma vive nell’ordinamento con l’aggiunta di questo principio ordinatore, capace di esprimere e di fissare un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre”. Secondo le Sezioni Unite, il procedimento utilizzabile, al fine di rendere l’additiva di principio suscettibile di seguito giurisdizionale conforme è quello di volontaria giurisdizione, previsto dalla L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 5 e 6; un procedimento in camera di consiglio che “- previ i necessari adattamenti, necessari ad assicurare in termini rigorosi la riservatezza della madre, che si impongono in virtù delle indicazioni contenute nel principio esplicitato dalla sentenza di illegittimità costituzionale – ben può adattarsi al caso del figlio che richiede al giudice di autorizzare le ricerche e il successivo interpello della madre biologica circa la sua volontà di mantenere ancora fermo l’anonimato, e così rappresentare il “contenitore neutro” (cfr. Cass., Sez. U., 19 giugno 1996, n. 5629) di un’interrogazione riservata, esperibile una sola volta, con modalità pratiche nel concreto individuate dal giudice nel rispetto dei limiti imposti dalla natura dei diritti in gioco, reciprocamente implicati nei loro modi di realizzazione”. Si è fatto quindi richiamo, come criterio utile, all’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali, all’epoca vigente, disposizione che consente, in ogni tempo, la comunicabilità delle informazioni “non identificative” ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica, tuttavia ancorandola all’osservanza, ai fini della tutela della riservatezza della madre, delle relative “opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”. Le Sezioni Unite hanno quindi evidenziato che il citato art. 28, comma 6, (che prevede che l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e l’identità dei genitori biologici avvenga con modalità tali da evitare “turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente”), fornisce altra utile indicazione normativa che vale per tutte le posizioni coinvolte nella vicenda, non solo per il figlio ma anche per la madre, cosicché la ricerca e il contatto ai fini dell’interpello riservato devono essere “gestiti con la massima prudenza ed il massimo rispetto, oltre che della libertà di autodeterminazione, della dignità della donna, tenendo conto della sua età, del suo stato di salute e della sua condizione personale e familiare”. Le Sezioni Unite si sono fatti carico di esaminare le linee-guida dettate da alcuni Tribunali per i minorenni ritenendole virtuose e soddisfacenti: “Un Tribunale per i minorenni, una volta ricevuto il ricorso del figlio, forma il relativo fascicolo, secretato sino alla conclusione del procedimento e anche oltre; alla luce della visione del fascicolo della vicenda che portò all’adozione, incarica la polizia giudiziaria di acquisire, presso l’ospedale di nascita, notizie utili alla individuazione della madre del ricorrente; ove la madre risulti in vita, incarica il servizio sociale del luogo di residenza di questa (per via consolare, in caso di residenza all’estero) di recapitare, esclusivamente a mani proprie dell’interessata, una lettera di convocazione per comunicazioni orali, indicando diverse date possibili nelle quali le comunicazioni verranno effettuate, presso la sede del servizio o, ove preferito, al domicilio di quest’ultima. Le linee guida di quel Tribunale prevedono inoltre che: ove la madre biologica, in sede di notificazione, chieda il motivo della convocazione, l’operatore del servizio sociale dovrà rispondere “non ne sono a conoscenza”, osservando in ogni caso il più stretto segreto d’ufficio; il servizio notificante informa il giudice delle condizioni psi- co-fisiche della persona, in modo da consentire le cautele imposte dalla fattispecie; il colloquio avviene nel giorno e nel luogo scelto dall’interessata, tra quest’ultima – da sola, senza eventuali accompagnatori – e il giudice onorario minorile delegato dal giudice togato. A questo punto, secondo le direzioni pratiche, l’interessata viene messa al corrente dal giudice che il figlio che mise alla luce quel certo giorno ha espresso il desiderio di accedere ai propri dati di origine, e viene informata che ella può o meno disvelare la sua identità e può anche richiedere un termine di riflessione. Se la donna non dà il suo consenso al disvelamento, il giudice ne dà semplice riferimento scritto al Tribunale, senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se invece la persona dà il suo consenso, il giudice redige verbale, facendolo sottoscrivere alla persona interessata, solo allora rivelando a quest’ultima il nome del ricorrente. Le linee guida di altri Tribunali per i minorenni prevedono la convocazione, da parte del giudice, del rappresentante dell’Ufficio provinciale della pubblica tutela, che consegna la busta chiusa contenente il nominativo della madre: il rappresentante dell’Ufficio della pubblica tutela viene fatto uscire dalla stanza; il giudice apre la busta e annota i dati della madre, inserendoli in altra busta, che chiude e sigilla, redigendo un verbale dell’operazione; la prima busta viene nuovamente sigillata e, siglata dal giudice con annotazione dell’operazione compiuta, viene riconsegnata al rappresentante dell’Ufficio, a questo punto fatto rientrare e congedato. Tramite l’Ufficio dell’anagrafe, il giudice verifica la permanenza in vita della madre e individua il luogo di residenza. Il fascicolo rimane nell’esclusiva disponibilità del giudice ed è indisponibile per il ricorrente, che non potrà compulsarlo, essendo abilitato soltanto a estrarre copia del suo ricorso. Ove la madre sia individuata, il giudice, avuta nozione delle caratteristiche del suo luogo di residenza, considerando le caratteristiche personali, sociali, cognitive della donna, prende contatto telefonico con il soggetto ritenuto più idoneo nel caso concreto (responsabile del servizio sociale o comandante della stazione dei carabinieri), senza comunicare il motivo del contatto e chiedendo solo di verificare la possibilità di un colloquio con la madre in termini di assoluto riserbo. Solo ove sia concretamente possibile l’interpello in termini di assoluta riservatezza, viene delegato il responsabile del servizio sociale (ovvero un giudice perché si rechi in loco) al contatto della madre e alla manifestazione a questa della pendenza del ricorso da parte del figlio. Il responsabile del servizio o il giudice raccolgono a verbale la determinazione della madre, di conferma ovvero di revoca dell’anonimato; solo ove la madre revochi la originaria opzione per l’anonimato, il ricorso, sussistendo le altre condizioni di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 28, viene accolto, e il ricorrente accede al nominativo materno”. In conformità alle menzionate linee operative, questa Corte (Cass. 6963/2018) ha successivamente ribadito che “l’adottato ha diritto, nei casi di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 5, di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”. Con la sentenza n. 15024/2016, si è poi affermato che sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre, sul rilievo che ciò determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta, anche dopo la sua morte, e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la reversibilità del segreto e l’affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l’ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta (in sintesi, secondo questa pronuncia, se il diritto della madre a non essere nominata in occasione del parto ha la funzione principale di contrastare l’opzione abortiva, questo diritto è pieno solo al momento della nascita del bambino, “dopo la nascita (…) il diritto all’anonimato diventa strumentale a proteggere la scelta compiuta dalle conseguenze sociali e in generale dalle conseguenze negative che verrebbero a ripercuotersi (…) sulla persona della madre. Non è il diritto in sé della madre che viene garantito ma la scelta che le ha consentito di portare a termine la gravidanza” (conf. Cass. 22838/2016, ove si è riconosciuto, inoltre, che il diritto ad accedere ad informazioni identificative in caso di morte della madre naturale non possa essere esercitato indiscriminatamente, in quanto, se alla morte della donna consegue l’estinzione del diritto personalissimo alla riservatezza, la procedura di accesso alle origini dovrà pur sempre essere informata al rispetto dei canoni di liceità e correttezza senza pregiudizio di “terzi eventualmente coinvolti”, i quali possono legittimamente vantare un diritto a essere lasciati soli, ovvero all’oblio, e, diversamente, a reclamare che l’accesso a dati avvenga senza cagione di pregiudizio; Cass. 3004/2018). Questione diversa è poi quella dell’accesso alle informazioni sanitarie sulla salute della madre per la tutela della vita o della salute del figlio o di un suo discendente, essendo necessario consentire l’accesso alle informazioni sanitarie, con modalità tali, però, da tutelare l’anonimato della donna erga omnes, anche verso il figlio. La Corte Costituzionale nella sentenza n. 278/2013 ha dichiarato “che debba, inoltre, essere assicurata la tutela del diritto alla salute del figlio, anche in relazione alle più moderne tecniche diagnostiche basate su ricerche di tipo genetico”. Le modalità procedimentali vanno, in tale ipotesi, desunte dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, Codice in materia di protezione dei dati personali, secondo cui, ai sensi del comma 3, prima del decorso dei cento anni, la richiesta di accesso al certificato di assistenza al parto (ora “attestazione di avvenuta nascita”) o alla cartella clinica della partoriente può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata, “osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”; si tratta di informazioni, non identificative, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’eventuale presenza di malattie ereditarie trasmissibili. 5.Tanto premesso, venendo all’esame del ricorso, il primo motivo è inammissibile. Con esso, la ricorrente deduce del tutto genericamente, la violazione del diritto al contraddittorio ed al proprio diritto di difesa, adducendo la lunga e secretata istruttoria nel procedimento di interpello. Ora, la garanzia della assoluta riservatezza delle informazioni acquisite dall’Ufficio giudiziario comporta necessariamente, come evidenziato anche dalle Sezioni Unite, che il fascicolo sia trattato con peculiari modalità, in fase di istruttoria, rimanendo nell’esclusiva disponibilità del giudice ed essendo indisponibile per il ricorrente, che non potrà compulsarlo, essendo abilitato soltanto a estrarre copia del suo ricorso. 6. Il secondo motivo è infondato, per le ragioni già espresse al paragrafo 3, in quanto l’abrogazione, ad opera del D.Lgs. n. 101 del 2018, art. 27, (Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento UE/2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati), del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, non spiega rilievo nel presente giudizio, poiché l’art. 28, comma 7, nella stesura conseguente alla sostituzione disposta con la 1.196/2003 (Nuovo Codice della Privacy), il cui art. 177, è ora abrogato per effetto del D.Lgs. n. 101 del 2018, che contemplava un limite assoluto all’accesso alle origini in caso di parto anonimo, era stato già inciso dall’intervento della Consulta n. 278 del 2013, con pronuncia additiva di principio. La ricorrente sostiene che, una volta “venuta meno la disciplina derogatoria nei confronti del nato da parto anonimo”, per effetto dell’abrogazione del D.Lgs. n. 196 del 2006, art. 177, comma 2, che aveva introdotto il testo del comma 7 della norma in esame, discenderebbe “la necessità di applicare al caso di specie la disciplina generale di cui all’art. 28, commi 5 e 6, i quali prevedono il diritto dell’adottato, raggiunta l’età di 25 anni, di accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”, diritto “sostanzialmente potestativo”, da esercitare senza più alcuna limitazione. L’assunto non è corretto, in quanto trascura sia il fatto che la L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, era stato già introdotto con la Riforma del 2001, che introduceva comunque un limite all’accesso alle informazioni in questione (“L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato), sia l’intervento “additivo di principio” della Corte Costituzionale. E, in ogni caso, la necessità di un bilanciamento tra il diritto alla riservatezza della madre in caso di parto anonimo ed il diritto di conoscere le proprie origini, vale a dire tra il segreto materno successivo al parto anonimo ed il diritto del figlio biologico ad accedere alle informazioni sulla madre e sulla famiglia biologica, tali da permettere una ridefinizione del proprio paradigma identitario, permane, malgrado l’abrogazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 177, in quanto il parto anonimo riceve ancora tutela nel nostro ordinamento ed il disposto del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, sia pure come interpretato da questa Corte, non è stato modificato dal D.Lgs. n. 101 del 2018. 7. Il terzo ed il sesto motivo sono infondati. Va invero ribadito che l’esigenza, evidenziata all’art. 28, comma 6, legge adoz., di evitare che l’accesso alle notizie sulle proprie origini biologiche non procuri “grave turbamento dell’equilibrio psico-fisico del richiedente” (l’adottato), non può che riguardare anche la madre biologica. L’indicazione normativa, infatti, deve valere per tutte le posizioni coinvolte nella vicenda, cosicché la ricerca della madre naturale e il contatto con la stessa ai fini dell’interpello riservato devono essere gestiti “con la massima prudenza ed il massimo rispetto, oltre che della libertà di autodeterminazione, della dignità della donna, tenendo conto della sua età, del suo stato di salute e della sua condizione personale e familiare” (SU 2017, cit.). In sostanza, lo stato di salute e l’età della madre naturale, che aveva, al momento del parto, scelto l’anonimato, sono fattori determinanti ai fini dell’esame dell’istanza di interpello della stessa. Ora, la Corte di merito ha, con motivazione logica e coerente, ritenuto che, a fronte dell’accertamento sulle condizioni di età e stato di salute psichica dell’anziana madre naturale (trattandosi di persona “ormai quasi novantenne” e soprattutto con grave e deficitario stato di salute, anche psichico, unito a grosso deperimento fisico, tanto da avere comportato il riconoscimento di “invalidità civile al 100%”, soffrendo la stessa, tra l’altro, anche di depressione bipolare e vivendo assistita dai famigliari con continuato intervento domiciliare degli operatori sociali, in condizioni di “forte vulnerabilità”, pur non essendo stata oggetto di procedure di interdizione, inabilitazione ovvero per la nomina di amministratore di sostegno, e “debolezza personale”) doveva essere condiviso il giudizio, già espresso in primo grado, di incapacità della madre maturale “di esprimere il consenso a rivelare la propria identità alla figlia”. Non è quindi corretto e conforme a diritto quanto indicato dalla ricorrente in ordine al fatto che il controllo giurisdizionale può solo attenere alla fase, successiva all’autorizzazione dell’interpello della madre che ha scelto l’anonimato, della disciplina delle sue modalità esecutive e delle opportune cautele, senza alcuna rilevanza delle condizioni psico-fisiche della madre biologica nella fase anteriore. La scelta del segreto sull’identità della madre, in sostanza, è ormai certamente divenuta una scelta reversibile e non più assoluta, per effetto dell’intervento della Corte Costituzionale del 2013, ma è ancora una scelta che riceve tutela dal nostro ordinamento, occorrendo operare il giusto bilanciamento tra il diritto della madre all’anonimato ed il diritto del figlio a conoscere le proprie origini. In particolare, il vizio di nullità della decisione impugnata per assoluta illogicità o contraddittorietà, è infondato. Le Sezioni Unite, in un recente arresto (Cass. 22232/2016), hanno precisato che “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”. In ultimo, giova altresì ribadire che “la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, non richiede l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l’iter” seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. 8294/2011). Nella specie, la sentenza non risulta viziata da motivazione apparente o contraddittoria, avendo la Corte d’appello affermato, essenzialmente, che l’istanza di interpello, L. n. 184 del 1983, ex art. 28, era infondata in diritto perché, alla luce delle risultanze istruttorie, la madre naturale risultava essere un soggetto che, per età e condizioni di salute, non era ormai in grado di esprimere una scelta consapevole in ordine alla revoca dell’anonimato, espressa oltre cinquant’anni prima. 8. Il quarto motivo è infondato. La diversità di trattamento, tra l’ipotesi in cui la madre naturale che aveva scelto l’anonimato al momento del parto sia ancora in vita e quella in cui la stessa sia deceduta, al momento dell’istanza di accesso alle origini del figlio, è coerente con quanto ha avuto ad affermare questa Corte in ordine alla conoscenza delle proprie origini da parte del figlio adottivo, in caso di parto anonimo. Solo la madre vivente può manifestare il proprio dissenso alla richiesta del figlio, nell’esercizio di propri personalissimi diritti soggettivi; in caso di decesso, invece, il figlio può essere liberamente autorizzato dal Tribunale minorile ad accedere alle informazioni riservate sull’identità della propria madre, senza particolari ostacoli (Cass. civ., 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22838; Cass. civ.,S.U., 25 gennaio 2017, n. 1946). 9. Il quinto motivo, con il quale si denuncia un vizio di nullità del procedimento, per violazione di legge, non potendo gli accertamenti, al di fuori delle attività di ricerca della madre biologica, essere compiuti dalla polizia giudiziaria, i cui operanti sono sprovvisti delle qualifiche necessarie in considerazione della delicatezza della situazione, è inammissibile. Anzitutto, il procedimento non è regolato per legge, ma, come chiarito dalle Sezioni Unite nel 2017, dalle prassi virtuose dei Tribunali e delle Corti d’appello che hanno colmato, allo stato, la lacuna legislativa. In ogni caso, la sentenza impugnata dà atto del fatto che l’attività istruttoria è stata condotta attraverso accertamenti disposti dal Comando Provinciale dei Carabinieri, su delega del Tribunale per i minorenni, anche presso i Servizi Sociali ed operatori sanitari. Oltretutto, l’affermazione, in ricorso, circa l’inidoneità della Polizia Giudiziaria, che si avvale di nuclei specializzati, è basata su mera petizione di principio. 10. Il settimo e l’ottavo motivo, da trattare unitariamente in quanto connessi, sono invece fondati. Invero, il vizio denunciato di motivazione apparente, in relazione al rigetto della domanda subordinata di accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, avendo la Corte di merito ritenuto la domanda da respingere al pari di quella principale, di accesso alle origini, respinta, è fondato. Come già rammentato al par.4, la domanda di accesso alle informazioni sanitarie sulla salute della madre, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’eventuale presenza di malattie ereditarie trasmissibili, è ulteriore e distinta rispetto a quella di puro accesso alle origini, avendo come finalità la tutela della vita o della salute del figlio adottato o di un suo discendente. Il diritto va garantito, con modalità tali, però, da tutelare l’anonimato della donna erga omnes, anche verso il figlio, che potranno essere desunte dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 93, Codice in materia di protezione dei dati personali, secondo cui, ai sensi del comma 3, prima del decorso dei cento anni, la richiesta di accesso al certificato di assistenza al parto (ora “attestazione di avvenuta nascita”) o alla cartella clinica della partoriente può essere accolta relativamente ai soli dati sanitari, non identificativi, relativi alla madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata, “osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile”. La Corte di merito non ha motivato in ordine alle ragioni del diniego, se non con il richiamo alle condizioni di età e di salute della madre biologica ed alla sua incapacità di esprimere il consenso a rivelare la propria identità alla figlia, il che è del tutto inconferente. In sostanza, la richiesta di consultazione, meramente cartolare, dei dati sanitari, quali ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica della partoriente, potrà comportare, non potendosi consentire un accesso indiscriminato al documento sanitario in oggetto, un diritto di accesso sulla base di un quesito specifico, non esplorativo, relativo a specifici dati sanitari e con l’osservanza di tutte le cautele necessarie a garantire la massima riservatezza e quindi la non identificabilità della madre biologica. 10. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento dei soli motivi sette ed otto del ricorso, respinti o inammissibili gli altri, va cassato il decreto impugnato, in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo e l’ottavo motivo del ricorso, respinti gli altri, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente procedimento, alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.


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